Stefano Gheno

La pensione, un nuovo inizio

Andare in pensione comporta il rischio che ci si guardi allo specchio e ci si veda improvvisamente inutili. Per evitarlo è necessario ricalibrare la nostra immagine.

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Senza timore di grandi errori, potremmo facilmente affermare che la prospettiva della pensione divide la popolazione attiva in due grandi gruppi: l’uno con una grande attesa e desiderio, l’altro con una repulsione istintiva. Facilmente saremmo portati a pensare che la collocazione nell’uno o nell’altro gruppo sia motivata dal tipo di lavoro: troveremo nel primo quanti svolgono lavori faticosi o stressanti senza grandi soddisfazioni, mentre più probabilmente troveremo nel secondo gruppo persone che ricoprono impieghi di grande soddisfazione, non particolarmente usuranti. In effetti, però, la questione è un po’ più complessa: sono molti i fattori che influenzano il desiderio o la repulsa nei confronti dell’andare in quiescenza. Si pensi, per esempio, alla sopraggiunta necessità di prendersi cura di un famigliare, oppure alla constatazione di non avere nel proprio lavoro più alcuna possibilità di sviluppo. In altri termini, la frequentemente ostentata passione nei confronti della collocazione a riposo potrebbe nascondere pensieri di ben altra natura. Si tratta, in effetti, di una condizione ambigua in cui non di rado si confrontano dialetticamente l’attesa di un meritato riposo e il timore di uno svuotamento.

 ANATOMIA DI UNA CONDIZIONE AMBIGUA 

Ciò almeno per quella fascia della popolazione attiva del nostro Paese che è inserita in un contesto di lavoro “tipico”, cioè quello subordinato a tempo indeterminato, regolato da un contratto collettivo – in Italia, all’incirca 2/3 degli occupati complessivi. Gli altri hanno un impiego che non fa loro ben sperare circa la reale possibilità di vivere dignitosamente con la propria pensione, dato che matureranno un montante contributivo troppo basso. La pensione, dunque, è un traguardo per molti ma non per tutti, e allo stato attuale non saranno pochi coloro i quali dovranno prolungare indefinitamente la propria vita lavorativa per mantenere un livello decente di reddito.

L’ambiguità della condizione di pensionato risiede anche nell’ambivalenza circa l’effettivo benessere che si può raggiungere una volta collocati a riposo. Certamente si può morire di lavoro, non solo per gli incidenti che ancora oggi, pure in un Paese avanzato come il nostro, si verificano negli ambienti di lavoro, ma anche per le gravi conseguenze in termini di insorgenza di patologie cronico-degenerative che un nemico insidioso ma drammaticamente reale come lo stress lavoro-correlato a tutt’oggi produce. Si può, però, morire anche di pensione: ci sono alcuni studi che attesterebbero l’opportunità, per mantenersi in buona salute, di prolungare il più possibile il periodo di lavoro, così come l’andare in pensione aumenterebbe la probabilità di sviluppare un disturbo fisico o mentale.

Il mito della pensione, pertanto, è perlomeno discutibile. Il lavoro, per quanto necessariamente faticoso, è qualcosa che permette l’espressione di sé, la realizzazione di una parte non insignificante della propria persona, la possibilità di portare e generare valore. Non deve quindi stupire che, quando cessa, possa portare a una condizione di impoverimento psicologico in grado di arrivare a originare patologie non banali. Nella prospettiva della pensione dovremo dunque rielaborare l’immagine di noi stessi per recuperare quella dimensione di senso che la perdita del lavoro potrebbe facilmente ridurre.

 UNA CONDIZIONE NUOVA 

Ci sono persone, lavoratori e lavoratrici che dedicano molto tempo e molte risorse cognitive ed emotive ad aspettare l’“agognata” pensione. Ce ne sono altre che invece si trovano pensionate “all’improvviso”, vivendo tale circostanza come un annullamento di tutto ciò che ha valore. Qualunque sia la situazione, resta comunque il fatto che la pensione è, per tutti o quasi, una nuova circostanza di vita che porta con sé una condizione nuova, connotata allo stesso tempo da elementi oggettivi e soggettivi, interagenti circolarmente fra loro.

Per esempio, è oggettivo il cambiamento legato alla gestione del proprio tempo e delle proprie relazioni fuori dal contesto lavorativo: il lavoro dei più è caratterizzato dalla necessità di rispettare tempi determinati da altri, relazionandosi con loro in modo asimmetrico. Per non poche persone l’andare in pensione vuol dire rivedere il proprio uso del tempo; avere più tempo libero non significa necessariamente vivere meglio: dipende da quanto considero il mio nuovo tempo disponibile un’opportunità, anche in considerazione del fatto che magari la durata del riposo notturno, con l’avanzare dell’età, diminuisce.

È certamente soggettiva la percezione del proprio valore, che spesso muta in concomitanza dell’uscita dal mondo del lavoro. Senza dubbio andare in pensione è una circostanza più “normale” del perdere il lavoro in seguito a un licenziamento o alla crisi della propria azienda, ma può essere altrettanto disruptive, cioè destabilizzante, qualora la nostra identità si focalizzi in modo totalizzante sulla sfera lavorativa. Sappiamo bene quanto il lavoro possa essere un ambito di esercizio di propria generatività e, di conseguenza, di autorealizzazione: cosa ci succederà, dunque, quando questo ambito non sarà più disponibile a ospitarci?

Del resto, qualsiasi cambiamento è difficile. Sostituire una condizione nota, ancorché faticosa quale quella lavorativa, con una ignota è tutt’altro che facile. Suggeriamo due direttrici per poterlo fare riducendo al minimo l’ansia che ne deriva. La prima ha a che fare con il desiderio. Fa infatti parte della vulgata comune il “desiderare” la pensione; spesso, in effetti, non c’è niente di realmente desiderabile in questa nuova condizione: l’età avanza, il reddito sovente diminuisce, così come lo status personale e professionale, e il potere che lo accompagna. E poi cresce la paura: di non essere più all’altezza, cioè di non valere più. Così il desiderio, quel formidabile motore della nostra motivazione, si appanna. La prima direttrice da esplorare e percorrere, perciò, è proprio il desiderio: il cambiamento, per non essere nemico, dev’essere desiderabile e desiderato. Quindi, proviamo a chiederci cosa ci possa essere di desiderabile nella condizione di pensionato, cercando di rispondere alla seguente domanda in modo positivo: non cosa ci porta via, ci sottrae, l’andare in pensione, ma cosa ci fa guadagnare, quali risorse libera, quali energie ci fa riscoprire.

Per assumere detta prospettiva – ed è questa la seconda direttrice – può essere utile pensare al cambiamento non in termini di sostituzione, ma di aggiunta. Non si tratta di sostituire una condizione, il lavoro, con un’altra, la pensione – in questi termini, la battaglia sarebbe persa: il lavoro è energia e costruzione, la pensione è calo di tensione e mantenimento –, ma di aggiungere in una prospettiva integrativa in cui la pensione non sarà più solo il tempo del non lavoro, bensì un tempo nuovo in cui si può svolgere un nuovo lavoro. E quale sarà questo nuovo lavoro?

 IL "LAVORO" DELLA PENSIONE 

Non si tratta certamente di lavorare sempre e per sempre, sono ben note in letteratura le caratteristiche patologiche del workaholism, la sindrome da dipendenza da lavoro, che può peraltro rappresentare una degenerazione della motivazione, di per sé positiva, all’autorealizzazione; piuttosto, si tratta di evitare di interrompere un circolo virtuoso tra il proprio agire lavorativo, l’immagine di sé e la motivazione generativa. Interruzione che spesso nell’immaginario comune è rappresentata dalla figura dell’umarell (parola bolognese, non inglese!), cioè l’anziano che passa il proprio tempo a osservare con le braccia dietro la schiena il lavoro altrui nei cantieri stradali.

Nella mia esperienza professionale mi è capitato spesso di incrociare esempi positivi di questo “lavoro” della pensione, per esempio l’impegno nel volontariato, ma anche una nuova disponibilità nella cura famigliare. È proprio la questione della cura a rappresentare un elemento cruciale nella possibilità di vedere nell’andata in pensione un nuovo inizio e non un percorso di chiusura. Per certi versi la pensione può essere letta come la facoltà di prendersi cura di sé, magari dopo la classica vita di sacrifici; si tratta, quindi, di comprendere quali elementi vadano particolarmente considerati in questa condizione: non di rado assistiamo infatti a una dinamica di ritiro dalla vita attiva che aveva caratterizzato la precedente condizione lavorativa. In ciò ci aiuta la SIGG (Società Italiana di Geriatria e Gerontologia), che già nel 2018 ha rivisto i parametri relativi all’ingresso in una fase “anziana” della vita dai 65 ai 75 anni; il fatto di definire i sessantacinquenni come “anziani” trovava il suo fondamento storico proprio nella necessità di individuare un momento d’inizio delle pensioni dei funzionari statali dell’impero prussiano. Solo che oggi non è più così: la forma fisica e le risorse cognitive di un sessantacinquenne sono ancora in gran parte ottimali. Non è dunque la pensione il modo giusto per prendersi cura di sé – salvo forse per quelle categorie di lavoratori sottoposte precocemente a impieghi usuranti –, bensì il mantenersi attivi; quindi, è senz’altro utile riflettere su come ciò possa accadere.

I trend demografici ci dicono che la popolazione del nostro mondo occidentale invecchia, e questo ha iniziato a produrre una situazione paradossale: prima che le generazioni più giovani si prendano cura dei molto anziani, troviamo sempre più di frequente “giovani anziani” che, proprio in virtù del loro pensionamento, possono prendersi cura con sistematicità dei loro nipoti, sempre meno seguiti da genitori impegnati con il proprio lavoro. Il prendersi cura degli altri potrebbe quindi rappresentare una modalità di “active aging” virtuosa dal punto di vista sia individuale – il contatto sistematico con generazioni giovani obbliga a mantenere una flessibilità cognitiva importante – che sociale – in attesa di un più efficace superamento dell’ancora eccessiva disparità di genere in ambito lavorativo, l’assolvimento di compiti di cura prevalentemente materni aumenta le possibilità delle donne-madri di trovare spazi personali e professionali di realizzazione.

Certo, è necessario che questo nuovo impegno a prendersi cura degli altri non sia percepito come alternativa al prendersi cura di sé. Perciò risulta utile assumere una prospettiva empowering, secondo cui il benessere della persona deriva da un aumento delle sue possibilità psicologiche di essere e di agire.

 I PENSIONATI, UNA RISORSA SOCIALE 

Una potente dimostrazione che la pensione, intesa come termine della vita attiva, non fa per l’uomo sta nelle numerosissime persone che, da un lato, dichiarano che continuerebbero volentieri a lavorare (dati AGE Platform Europe) e, dall’altro, si impegnano effettivamente in quella forma particolare di lavoro “vicario” simboleggiata dal volontariato. In particolare quest’ultima esperienza, oltre a rinforzare nella persona risorse psicologiche utili a promuovere resilienza e benessere, indica una grande risorsa pubblica. E contribuisce a sviluppare un circolo virtuoso tra la stima di sé e l’utilità sociale, che va ad azzerare il rischio di vuoto interiore che non di rado l’andare in pensione produce.

 PENSIONE E CAMBIAMENTO 

Il cambiamento riguarda ogni fase della vita umana, anche se apparentemente più si avanza nella vita e maggiore è la difficoltà a cambiare. Certo questo è legato, oltre che ad alcune caratteristiche biologiche dell’invecchiamento, a un’esigenza di mantenere un assetto di sicurezza che ci permette di mantenere una direzione e un controllo. Attenzione però a non cadere nella “cristallizzazione”: per non subire passivamente le trasformazioni è utile continuare a sviluppare il proprio empowerment, perseguendo l’apertura di nuove possibilità, magari grazie alla formazione, che ormai è decisamente long-life.

 LA MARGHERITA DELLE POSSIBILITÀ 

Nell’andare in pensione si tratterà, pertanto, di trovare un equilibrio tra il proprio desiderio di un nuovo spazio-tempo per sé e la necessità di mantenere un sentimento di utilità e di costruzione. Per questa ragione non si dovrà semplicemente sostituire il lavoro esterno con un nuovo lavoro di cura, così come non è certo una strategia vincente sostituire la condizione di lavoratore con quella di pensionato. Piuttosto, dovremo allargare la nostra autorappresentazione di un elemento inedito: la pensione come nuova opportunità di essere utili e di coltivare nuovi interessi. In questa prospettiva risulta indispensabile prestare attenzione a due elementi: il primo riguarda il benessere, che secondo un approccio bio-psico-sociale deriva da un’interazione efficace di elementi biologici – per cui si dovrà cercare di tenere il nostro organismo in buona efficienza –, psicologici – per cui si dovrà prestare attenzione al suo funzionamento cognitivo e affettivo – e sociali – per cui è fondamentale coltivare buone relazioni. Il secondo elemento è il sentimento di potere (self-empowerment) della persona pensionata, che può correre il rischio di ridursi se l’esperienza positiva del lavoro non trova un’evoluzione altrettanto positiva.

È dunque questo il “lavoro” della pensione: non mettere a riposo cuore e cervello e non ridurre il desiderio di costruire, di essere utili e di apportare un contributo a sé e agli altri. Uno strumento essenziale per questa manutenzione della vita attiva è il desiderio. Che va coltivato con cura, dato che spesso nelle persone anziane proprio il suo affievolirsi è la spia di un’incipiente dinamica depressiva che, a parere dei geriatri, rappresenta un rischio concreto entro i primi mesi dopo la pensione. Per ridurre un simile rischio si potrà provare a lavorare sui petali della nostra personale «margherita delle possibilità» (un esercizio da noi coniato).

Un esercizio utile per sviluppare nuove visioni del cambiamento possibile è proprio quello di disegnare su un foglio bianco un fiore dotato di tanti petali. Al centro potremo inserire «Andrò in pensione», sui diversi petali, in numero variabile a seconda della nostra capacità di rappresentare noi stessi nel futuro, le diverse possibilità che ci si aprono. Con l’avvertenza di lasciare sempre e comunque un petalo vuoto, a simboleggiare che le possibilità sono sempre più di quelle che possiamo immaginare.

Andare in pensione, dunque, può costituire un nuovo inizio in cui si vada a sperimentare una nuova immagine di sé, non diminutiva di quella precedente ma piuttosto integrativa, consapevoli che la motivazione generativa dell’uomo, se adeguatamente coltivata, non si esaurisce mai.

Stefano Gheno, psicologo del lavoro, insegna Gestione delle risorse umane all’Università Cattolica a Milano. Ha fondato wello.online e si occupa di tematiche legate allo sviluppo personale, al benessere sul lavoro e al self-empowerment.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Cesa-Bianchi M., Cristini C. (2009), Vecchio sarà lei! Muoversi, pensare, comunicare, Guida, Napoli.

Gheno S. (2010), La formazione generativa. Un nuovo approccio all’apprendimento e al benessere delle persone e delle organizzazioni, Franco Angeli, Milano.

Ng T. W. H., Sorensen K. L., Feldman D. C. (2007), «Dimensions, antecedents, and consequences of workaholism: A conceptual integration and extension», Journal of Organizational Behavior: The International Journal of Industrial, Occupational and Organizational Psychology and Behavior, 28 (1), 111-136.

Rosina A. (2018), Il futuro non invecchia, Vita e Pensiero, Milano.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 279 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui