La mente oltre la testa
Recenti teorie descrivono la mente umana come un sistema integrato con l’ambiente. Le più aggiornate scienze della mente ci insegnano che le azioni sono parte dei nostri processi cognitivi; decadono quindi le ragioni per immaginare il pensiero e il mondo come separati
Dove si trova la mente? Nella testa e non solo nella testa. Negli ultimi decenni filosofi e scienziati cognitivi hanno raggiunto risultati sorprendenti nel comprendere la profonda integrazione tra il nostro corpo e la nostra mente. Accantonata una certa ossessione per il cervello, la frontiera della ricerca psicologica si è oggi spostata al di là dei confini della nostra testa, superando la diffusa convinzione che il pensiero sia esclusivamente un prodotto del nostro sistema nervoso.
Da alcuni anni si sente parlare di una rivoluzione in corso nei fondamenti delle scienze cognitive. L’idea che la cognizione non sia altro che il risultato dell’attività elettrochimica del sistema nervoso è oramai in crisi, mentre un nuovo modo d’intendere lo studio della mente si va sempre più affermando nella variegata comunità degli scienziati cognitivi. Secondo il nuovo paradigma, noto anche come “embodied cognition” (in italiano, “cognizione incorporata”), a fianco delle imprescindibili funzioni del cervello operano fattori cognitivi assai diversi tra loro, come la forma e le proprietà motorie del corpo del soggetto, le caratteristiche dell’ambiente in cui esso vive e con cui interagisce.
Per comprendere la portata di questa rivoluzione occorre aver presente il contesto dal quale le scienze cognitive hanno preso le mosse oramai oltre mezzo secolo fa. Procediamo, dunque, con ordine.
MENTI SENZA CORPI
Gli anni Cinquanta del secolo scorso sono il decennio che ha visto la nascita delle scienze cognitive. Due ingredienti hanno contribuito in modo decisivo all’evento. Da una parte, il bisogno di organizzare le conoscenze relative alla struttura e al funzionamento del sistema nervoso; dall’altra, la comparsa in quegli stessi anni delle prime macchine in grado di compiere operazioni logiche considerate fino a quel momento appannaggio esclusivo di agenti intelligenti. Si aggiungano le intuizioni di alcune tra le menti più brillanti del secolo, come Alan Turing, John von Neumann e Norbert Wiener e il gioco è fatto.
Alla base della prima rivoluzione cognitiva si trova l’idea secondo la quale la mente umana non è poi così diversa dal programma che guida le operazioni di un computer. Unica differenza, il materiale da costruzione: molle sostanza cellulare in un caso, un mix di plastica e silicio nell’altro. Utilizzando un gergo a noi oggi più familiare, si può dire che le scienze cognitive hanno mosso i primi passi nella convinzione (o forse nella speranza) di poter studiare la mente umana come una app installata nel nostro cervello. Certo, va detto che inizialmente questa intuizione è stata premiante. Guardare alla cognizione umana come a un programma e al sistema nervoso come a un computer ha consentito di svelare come il cervello dia vita alla nostra mente, permettendo la localizzazione neurale di un numero straordinario di processi cognitivi. Linguaggio, visione, memoria, razionalità, motricità: di tutte queste facoltà conosciamo oggi con notevole dettaglio quale porzione del sistema nervoso ne controlli le relative funzioni.
Ma non è tutto oro quel che luccica. La metafora del computer si è presto rivelata una gabbia troppo stretta per comprendere la cognizione in tutta la sua complessità. Gli eccezionali risultati ottenuti nella individuazione delle basi neurali del pensiero hanno indotto gli scienziati a trascurare la possibilità che, insieme al cervello, anche corpo e ambiente partecipino alla realizzazione dei processi cognitivi. È prevalsa così l’immagine di una mente disincarnata, priva di corpo e isolata dall’ambiente. Una mente più astratta che concreta.
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