Giovanni Maria Ruggiero, Sandra Sassaroli

Integrare come? Dove sta andando la psicoterapia

Un’analisi delle prospettive future di due delle quattro famiglie a cui sono riconducibili i numerosi indirizzi della psicoterapia odierna: la psicoterapia dinamica e la terapia cognitivo- comportamentale. 

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Dove va la psicoterapia? Riuscirà a divenire un prodotto trasparente, in grado di rispondere alle richieste di salute emotiva e di benessere di un pubblico che sta diventando sempre più numeroso e consapevole della natura del dolore psicologico ed esigente in fatto di cure terapeutiche affidabili?

Di fronte a queste nuove richieste noi sappiamo che la psicoterapia ha risposto moltiplicando il numero delle sue correnti, che ormai raggiunge cifre grottesche, nell’ordine delle centinaia. Questa moltiplicazione esagerata è una frammentazione, ma forse risponde anche a una richiesta di specializzazione. E una specializzazione forse c’è, perché per fortuna le centinaia di orientamenti psicoterapeutici in fondo si possono ridurre a quattro: dinamico, cognitivo-comportamentale, umanistico-esistenziale e sistemico-familiare. Ognuno con le sue peculiarità e le sue qualifiche. In questo articolo ci concentriamo su psicoterapia dinamica e cognitivo-comportamentale.

TERAPIE PSICODINAMICHE

Le terapie psicodinamiche sono figlie della psicoanalisi freudiana. Partite da un paradigma di tipo sapienziale e interpretativo in cui l’unica garanzia di efficacia era purtroppo il principio di autorità, senza dimenticare la genialità di alcune intuizioni dei vari padri fondatori, a cominciare da Freud.

Negli ultimi cinquant’anni sono emersi dei trattamenti di derivazione psicoanalitica sui quali è stata fatta ricerca e la cui efficacia è stata provata. Al giorno d’oggi, l’esperienza del paziente con questi ultimi sviluppi della psicoanalisi non è più di tipo ieratico. Lo psicoanalista piazzato dietro il divano che dispensa interpretazioni su un passato profondo e ancestrale e che in qualche modo richiede al paziente un intenso percorso iniziatico di anni con molte sedute a settimana è sempre più raro.

Si preferisce un trattamento più leggero, relazionalmente più caldo e maggiormente centrato sui problemi del presente. Le sedute sono diventate al massimo due a settimana e il divano c’è ancora, ma è una sorta di obiettivo a cui arrivare insieme con alcuni pazienti.

Sulle radici freudiane sta forse sorgendo una sorta di “esistenzialismo psicoanalitico”, in qualche modo rappresentato dalle divertenti descrizioni romanzate di Irvin Yalom (autore che pure ha radici non psicoanalitiche).

Oltre ai romanzi di Yalom, per chi cercasse testi più densi e impegnativi consigliamo i nomi di Peter Fonagy, Stephen Mitchell e un ortodosso moderno come Otto Kernberg. In realtà si tratta di figure differenti tra loro.

Fonagy accentua il lavoro sul presente e sul qui e ora, ma lo rende più sofisticato e contemporaneo, adottando il concetto di mentalizzazione mutuandolo dalla scienza cognitiva e applicandolo ai pazienti borderline molto gravi. In tal modo Fonagy evita di immergersi in raffinate analisi del transfert, questo antico fantasma che si aggira per le stanze della psicoanalisi: anzi, lo rinnega e addirittura raccomanda di non usarlo. L’inconscio però sopravvive in Fonagy e si trasfigura nei processi mentali, in un certo senso inconsci, con i quali il paziente accede (o meno) a quella consapevolezza dei propri meccanismi mentali che gli consente, in qualche modo, di padroneggiarli, invece di esserne vittima. Non tutti apprezzano questa svolta, che trasforma le pulsioni freudiane, così pregne di simboli e di fascino, in meccanismi freddi e noiosi.

Se Fonagy ha rinnegato Freud, Kernberg lo ha rievocato: non a caso, il suo orientamento si chiama “terapia centrata sul transfert”, eppure rinnovato con vesti più moderne, quelle del presente e del qui e ora. Anche Kernberg, quindi, rinnova Freud nel pragmatismo anglosassone, pretende che ogni azione terapeutica affondi nei problemi del presente del paziente. A differenza di quello di Fonagy, però, l’inconscio di Kernberg mantiene rapporti più saldi con la radice viennese. Kernberg mantiene il termine “pulsioni”, non espunge la componente ferina e barbara della psicoanalisi primigenia e non manca di richiamarsi alle cupezze di Melanie Klein, alla centralità delle emozioni di odio, invidia e rabbia. Anche se poi sa costruire protocolli e metterli alla prova della scienza grazie alla expertise scientifica e metodologica del suo bravissimo collaboratore Clarkin.

Mitchell, infine, con il suo interesse per la relazione calda e accogliente, sta in mezzo tra il pragmatismo di Fonagy e la residuale fedeltà a Freud di Kernberg. Tuttavia aggiunge una qualità affettuosa e romantica che si richiama a Ferenczi e, in qualche modo a Kohut e alla terapia come compenso affettivo a una carenza evolutiva, a una mancanza di calore che abbia colpito il bambino nella sua crescita e lo abbia privato di quell’ambiente protettivo e accogliente che permette lo sviluppo delle capacità riflessive e autoriflessive superiori.

La svolta relazionale colma un difetto antico di una certa psicoanalisi, una propensione a un atteggiamento terapeutico punitivo e distaccato. Una tendenza che era emersa già con Le due analisi del signor Z di Kohut e che raggiunge la definitiva maturità con la svolta relazionale. Il rischio, però, è che ora si accentui troppo questo versante, riducendo l’intero processo alle sue componenti di esperienza interpersonale. Carl Rogers è dietro l’angolo, nel bene e nel male.

PSICOTERAPIA COGNITIVO- COMPORTAMENTALE

Cose simili stanno accadendo nel secondo grande orientamento psicoterapeutico, la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Al suo interno si nota una certa stanchezza per quello che era il punto di forza di questa terapia, le procedure semplici, replicabili e centrate sui problemi presenti, senza tanti fronzoli. La scoperta della complessità, accanto ai suoi vantaggi, ha portato a una diluizione degli interventi più attivi e a un maggiore interesse verso l’aspetto relazionale. Per il terapista medio sembra che diventi sempre più comodo accontentare il desiderio di vicinanza e relazione del paziente, evitando i punti di contrasto e di frustrazione del lavoro terapeutico, alla luce di una mitizzazione della condivisione degli stati emotivi. “Esperienza condivisa” sono le due parole magiche di questi nuovi orientamenti, che segnano lo spirito dell’epoca.

A ciò si aggiunge il problema che il mondo psicoterapeutico, soltanto di recente entrato nella fase di maturazione scientifica, paradossalmente si sta affollando sempre più di nuovi capiscuola, clinici creativi che propongono nuovi orientamenti, i quali, pur portando spesso innovazioni interessanti, hanno il difetto di presentarsi al mondo come autori di universi autonomi e chiusi in se stessi, incrementando la frammentazione che da sempre ammorba il mondo della psicoterapia. Questo fenomeno, purtroppo, ormai avviene anche nella terapia cognitiva, che un tempo invece sembrava esserne immune.

È passato il tempo in cui il cognitivista poteva sorridere con compatimento alle mille forme della psicoanalisi, forte del proprio orientamento più omogeneo. Ed è ancora più paradossale che ognuno di questi approcci nuovi e originali cerchi e riesca a ottenere una sua prova di efficacia, un bollino di scientificità empirica che ormai non si nega più a nessuno, ma manchi di partecipare uno dei principali requisiti scientifici, sintetizzato nel rasoio di Occam: la riduzione economica dei modelli in competizione alla spiegazione più semplice e condivisibile. Al contrario, vi è una moltiplicazione incontrollata dei punti di vista.

Per fortuna non c’è solo questo, nel campo cognitivo. C’è anche un rinnovato interesse per la tradizione comportamentale, per la concreta esperienza di esposizione alle situazioni temute e frustranti: parlare in pubblico, essere assertivi, mettersi in gioco nelle situazioni che portano al panico e scoprire che si può tollerare, e perfino accettare, la condizione di disagio. Il vecchio comportamentismo è in realtà un ponte verso il futuro, verso i cosiddetti processi mentali, come appunto l’accettazione e l’impegno.

Fra i teorici di questi nuovi orientamenti citiamo Steven Hayes, Adrian Wells e gli esponenti della mindfulness, che affascina sia psicoanalisti sia cognitivisti.

La mindfulness è un corpo di tecniche di meditazione e consapevolezza mentale (in realtà, più che di “tecniche” occorrerebbe parlare di “atteggiamenti” e perfino di “visioni della vita”) che permette una gestione più efficiente della sofferenza emotiva. Anche qui si sposano preoccupazioni e speranze. La preoccupazione è che la mindfulness rischi di accentuare la tendenza a una gestione troppo pragmatica e funzionale, a scapito del lavoro di comprensione e di approfondimento che in talune circostanze può essere utile e interessante. Le tecniche meditative ci hanno insegnato che a volte un eccesso di approfondimento può diventare uno sterile rimuginio, ma può essere vero anche il rischio opposto: e cioè che uno spostamento dell’attenzione impedisca la comprensione umana e profonda di un evento della nostra esistenza.

IL PROBLEMA DEL TRAUMA

E arriviamo al problema del trauma. Questa è un’altra delle tendenze emergenti della psicoterapia nell’attuale momento storico. L’importanza psicopatologica di abuso, trauma e violenze è un pendolo che oscilla. Vi sono fasi in cui l’abuso non va posto al centro del lavoro clinico ma bisogna lavorare sull’adattamento, l’accettazione e l’impegno a reagire.

Altre volte, invece, diviene mandatario ed essenziale approfondire ed entrare nel dolore insieme al paziente. È abbastanza paradossale che proprio nel momento in cui si diffondono sempre più modelli di cura che accentuano l’importanza della gestione degli stati mentali attraverso il controllo dell’attenzione e la meditazione, abbiano largo seguito modelli psicopatologici bottom-up (nei quali, cioè, le singole componenti del sistema sono dettagliate e poi collegate fra loro in modo da strutturare componenti più grandi, a loro volta interconnesse fino a raggiungere un sistema completo) in cui l’origine della sofferenza mentale è sovente attribuita a eventi traumatici e terrificanti attuali o del passato.

Quello che ci colpisce è che la definizione di trauma sia a volte vaga e che si rischi di trovare esperienze traumatiche in tutti i pazienti, ricorrendo a definizioni troppo flessibili e applicabili a qualunque storia di vita, come “trauma dell’attaccamento” o “trauma cumulativo”.

Intendiamoci, anche qui – come purtroppo accade sempre in psicologia – c’è dell’oro e c’è del piombo. Una buona intuizione clinica, il trauma cumulativo – che può esistere se accade di crescere in famiglia con un sadico subdolo e non apertamente aggressivo – rischia di essere una coperta buona per tutte le stagioni.

Le cure corporee, immaginative ed esperienziali diventano sempre più diffuse e popolari e, a dire il vero, non sono nemmeno di ascendenza sempre cognitiva e comportamentale, anche se poi sembrano trovare la maggiore ricettività fra i terapisti cognitivi. Stiamo parlando della terapia sensomotoria, dell’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, “Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti oculari”) o anche della Schema Therapy, una terapia che mantiene larghe porzioni del cognitivismo legato ai contenuti, ma che gli coniuga una significativa fetta di interventi immaginativi.

In tutte queste terapie scorgiamo un positivo incrementarsi del repertorio terapeutico con un recupero della dimensione dell’esperienza e del corpo, ma pure il rischio di una sottovalutazione della consapevolezza cognitiva.

Questo è il presente e quindi l’immediato futuro che è possibile prevedere.

Per il futuro più lontano, abbiamo le nostre raccomandazioni e le nostre ossessioni. Tra queste ci sta a cuore la valorizzazione della formulazione condivisa del caso. Ogni terapia comprende la formulazione, naturalmente. Da questo punto di vista non pretendiamo di insegnare nulla a nessuno. Non sempre ci sembra sia chiaro, però, che questa formulazione dev’essere sottoposta alla verifica della ricerca empirica, che essa va condivisa con frequenza e intensità con il paziente e che proprio su questa formulazione occorre costruire l’alleanza terapeutica.

Una buona formulazione, quando è esplicitamente condivisa, illustrando al paziente qual è la nostra visione del suo disturbo e quali sono gli interventi più opportuni, è anche un intervento terapeutico che stabilisce le regole del gioco e facilita, ma in maniera operativa, non generica, quell’atteggiamento di cooperazione paritaria – o meglio, di «empirismo collaborativo», come diceva Aaron Beck – che è alla base di un buon trattamento, impedendo di scadere tanto nel supporto sterile, magari spacciato per buona relazione, quanto in quel distacco gratuito e impersonale che forse era il problema della vecchia psicoanalisi.

Il futuro, quindi, visto non come una vittoria di un modello sugli altri, ma come una comprensione approfondita del caso e una capacità di scegliere un percorso terapeutico tra molti modelli, ognuno con punti di forza e di fragilità, applicandolo al paziente in modo controllato e appunto condiviso.

 
Riferimenti bibliografici
BATEMAN A., FONAGY P. (2006). Il trattamento basato sulla mentalizzazione. Psicoterapia con il paziente borderline (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano.
CLARKIN J., YEOMANS F. E., KERNBERG O. F. (2000), Psicoterapia delle personalità borderline (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano.
DALAI LAMA, KABAT-ZINN J., DAVIDSON R. J. (2012), La meditazione come medicina. Scienza, mindfulness e saggezza del cuore (trad. it.), Mondadori, Milano.
HAYES S. C., STROSAHL K. D., WILSON K. G. (2013), ACT. Teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano.
KOHUT H. (1989), Le due analisi del signor Z (trad. it.), Astrolabio, Roma.
MITCHELL S. (2002), Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano.
OGDEN P., FISHER J. (2016), Psicoterapia sensomotoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento. Con aggiornamento online (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano.
SHAPIRO F. (2000), EMDR. Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso movimenti oculari (trad. it.), McGraw-Hill, Milano.
WELLS A. (2012), Terapia metacognitiva dei disturbi d’ansia e della depressione (trad. it.), Eclipsi, Firenze.
YOUNG J. E., KLOSKO J. S., WEISHAAR M. E. (2007), Schema Therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità (trad. it.), Eclipsi, Firenze.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 267 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui