Guido Sarchielli

Il rientro al lavoro: non un semplice ritorno al passato

La ripartenza più o meno integrale del lavoro nella forma tradizionale dopo i mesi di lockdown deve far tesoro delle modalità alternative sperimentate durante l’emergenza, e non limitarsi a chiudere una parentesi sfortunata.

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Sa mesi siamo immersi in una condizione pandemica che, accanto al terribile pericolo biologico subdolamente presente nella vita quotidiana, sta mostrando conseguenze di grave disagio psicologico, com’è già avvenuto in casi simili (Savadori e Rumiati, 2005).

UN TRAUMA INDIVIDUALE

Sono ben visibili segnali preoccupanti di questo trauma individuale. Le prime indagini internazionali stanno rivelando la diffusione di malessere acuto (insonnia o frequenti risvegli notturni, irritabilità, pensieri catastrofici, paure generalizzate, ansia e depressione) e il peggioramento di pregresse situazioni di disagio mentale (Rajkumar, 2020). Anche a livello di interazioni sociali sono evidenziati esiti alla lunga assai nocivi per la normale convivenza: sfiducia sociale soprattutto verso le autorità che cercano di contenere la diffusione e proteggere la salute pubblica; dubbi ingiustificati sulle indicazioni scientifiche; sentimenti malevoli e di sospetto verso chi è ritenuto portatore del contagio, sia egli un conoscente, un collega o un membro dello stesso personale sanitario, non più visto come un “eroe” quando è fuori dall’ospedale e magari è tuo vicino di casa. Sono poi stati riscontrati atteggiamenti e comportamenti di stigmatizzazione di gruppi minoritari: un ostile processo di ricerca del proverbiale capro espiatorio, soprattutto contro le persone di origine orientale e altri gruppi di stranieri, come i migranti e i rifugiati.

Esiti inquietanti che hanno messo bruscamente in discussione le nostre abitudini quotidiane. Essi avrebbero dovuto e dovrebbero spingere a forti cambiamenti degli stili di vita nell’ipotesi, fin da subito assai plausibile, che dovremo noi adattarci al nuovo virus destinato ad accompagnarci per molto tempo, e non il contrario. In tal senso, più che di una “fase 2” – come si è cominciato a dire da maggio, con una forma comunicativa imprecisa che lasciava intendere un distacco troppo netto dalla “fase 1” del lockdown –
si dovrebbe parlare di un lungo periodo di transizione. Un periodo connotato dall’incertezza e da minacce insolite, ma affrontabile valorizzando sia gli strumenti di difesa oggettiva (come i vari dispositivi individuali e la perpetuazione delle regole di distanziamento fisico), sia una gamma di fattori protettivi soggettivi (le risorse personali e sociali che facilitano l’adattamento ai cambiamenti e le strategie di coping di fronte a eventi avversi), sia infine la responsabilità etica individuale e sociale.

Ciò comporta la presa d’atto di notevoli differenze nella popolazione circa il possesso di tali competenze e risorse cognitive, emotive e sociali. Pertanto sarebbe giustificata la diffusione di supporti non solo economici, ma anche informativi, formativi, di consulenza e di sostegno emotivo per incentivare l’adesione delle persone alle regole di auto-protezione (che spesso tendono ad essere sottovalutate e a non essere rispettate, man mano che diminuisce la paura del contagio) e alle indicazioni di cambiamento di molte consuetudini della vita sociale e lavorativa.

Marchiati dalla pandemia

Lo stigma era il marchio sulla fronte di uno schiavo. Esso connota in senso dispregiativo persone con malattie invalidanti e fonte di ansia sociale, quali la tubercolosi, la lebbra, i disturbi mentali, l’Aids e altre infezioni, come l’odierna pandemia. Stigmatizzare implica discriminazioni sociali, accreditamento di stereotipi e condotte xenofobe. Quanto più una malattia è sconosciuta e frutto di presunta “colpa personale”, tanto più si sviluppa anche un’auto-stigmatizzazione e proprio le persone più vulnerabili aderiscono meno alla prevenzione e alle cure.

ESIGENZA DI VARIE FORME DI FLESSIBILITÀ

Focalizzandoci sul rientro al lavoro, possiamo riconoscere che gli esiti negativi su accennati sono una minaccia in grado di interferire pesantemente sull’attività lavorativa e sul tipo di convivenza nei contesti organizzativi. Infatti, al di là dell’entusiasmo collettivo per la fine di gran parte delle restrizioni subite obtorto collo per alcuni mesi, il ritorno al lavoro non cancella la presenza del rischio pandemico e dei suoi potenziali effetti biologici e psicosociali. Essi si mantengono con forme insidiose di disturbo cognitivo ed emotivo analoghe a quelle, più note, dello stress lavoro-correlato (Tan et al., 2020). Dunque, dovrebbero essere prevenuti o ridotti ripensando seriamente il modo di lavorare, ossia sfruttando questa occasione forzata per riprogettare le attività e riconsiderare il ruolo delle persone, il loro modo di relazionarsi con il lavoro e gli stili con cui vengono gestite.

In altri termini, il rientro non può costituire un semplice ritorno al passato, la chiusura di una parentesi sfortunata, ma dovrebbe stimolare l’idea che per fronteggiare il Covid-19 e per progettare e gestire il dopo è necessario tener conto anche del vissuto e del ruolo delle persone. Ciò significa, da un lato, favorire l’adesione attiva a stili di comportamento protettivi (si veda il box sottostante), validi non solo nell’emergenza, per migliorare la qualità del lavoro e, dall’altro lato, creare le condizioni perché le persone stesse si coinvolgano in un cambiamento incisivo dei contesti ove operano. 

Del resto, alcuni dei cambiamenti obbligati nel modo di lavorare (per esempio, l’ampia diffusione non programmata dello smart working) sono in linea con le recenti suggestioni della psicologia del lavoro e dell’organizzazione, che insiste sulla necessità di innovazioni favorenti l’agilità dei contesti e dei modi di lavorare (Spreitzer et al., 2017). Infatti, nel parlare del futuro del lavoro si rimarca il ruolo delle dimensioni della flessibilità intese come criteri efficaci e sostenibili per promuovere un cambiamento organizzativo focalizzato sulle persone, ma funzionale anche alla loro produttività:

1. flessibilità nei rapporti di lavoro: la volontaria adesione a varie forme possibili di contratti, cioè di legami psicologici tra persona e organizzazione;

2. flessibilità nella programmazione del lavoro: organizzazione, leadership e modi di controllo centrati sugli obiettivi e sostenuti da un clima condiviso di fiducia organizzativa;

3. flessibilità degli spazi: del “dove” lavorare, se dentro o fuori dell’azienda, nel promuovere spazi di co-working adatti per attività personali o di squadra temporanee o periodiche e una nuova architettura degli spazi che incorpori la protezione delle persone;

4. flessibilità dei tempi: del “quando” e “quanto” lavorare, con specifico riferimento ad adattamenti personalizzati degli orari e dei ritmi, e alle molte forme possibili di conciliazione lavoro-vita privata.

Aderiamo sempre ai comportamenti protettivi?

Di fronte a minacce pandemiche, in genere aumenta l’adesione alle regole di sicurezza. Tuttavia, pur essendo convinte dell’opportunità dei comportamenti protettivi per sé e per gli altri, non è detto che le persone accettino a lungo tali comportamenti. Non ci sono automatismi e numerosi fattori possono essere di ostacolo. Tra questi: sentirsi troppo sicuri, essere poco incentivati a cambiare, illusione di controllo, percezioni di inefficacia delle misure preventive, calo dell’attenzione pubblica sul rischio.

TRE LINEE DI AZIONE

È sicuramente una grande sfida che richiede tempi medio-lunghi, ma allora cosa si può fare da subito nel momento in cui hanno ripreso tante attività lavorative? Raccogliendo le suggestioni della ricerca psicosociale, si possono illustrare almeno 3 differenti linee di azione.

• Valutare e monitorare accuratamente non solo il tradizionale “rischio biologico”, ma anche il rischio psicosociale imputabile alla percezione della minaccia pandemica. Si tratta di analizzare le reazioni soggettive avverse che contribuiscono a creare un clima organizzativo di insicurezza: risposte inadeguate di paura che, oltre ad essere segno di sofferenza, causano errori nelle prestazioni e un aumento degli incidenti; condotte di sfiducia e ostilità verso gli altri; stigmatizzazione di colleghi o clienti anche se ormai guariti. Sul piano pratico ciò significa, per esempio, rafforzare il Documento di Valutazione dei Rischi già previsto per le aziende dalle norme italiane, acquisendo a cadenza ravvicinata informazioni su come viene sperimentato il rientro e sui segnali precoci di incertezza, disagio, disadattamento, sopravvalutazione, o più spesso sottovalutazione, del pericolo almeno da parte di alcuni lavoratori. L’intenzione di promuovere la sicurezza psicologica (in parallelo con quella fisica) richiede: a) la trasparenza delle informazioni su cosa sta succedendo negli specifici reparti e uffici; b) un approccio partecipativo che eviti di “calare dall’alto” regole formalistiche e che rinforzi l’impegno dei lavoratori nell’adozione dei cambiamenti e delle misure difensive necessarie per riprendere le attività; c) la necessità di condividere da parte di tutti i membri dell’organizzazione (lavoratori e dirigenti) il significato dei dispositivi di tipo diagnostico o di tipo protettivo adottati, evitando in tal modo di percepirli come un ulteriore obbligo lavorativo accettato con scarsa convinzione e perciò dimenticato in breve tempo.

• Vigilare sull’attuazione degli interventi organizzativi progettati per assicurare un ritorno efficiente dei lavoratori alle loro attività. Anche la letteratura scientifica (Nielsen, 2013) rimarca il ruolo decisivo giocato dalle modalità di implementazione di un intervento di natura preventiva. Esso dovrebbe essere attivato sulla base delle caratteristiche delle persone e delle variabili tipiche del contesto e dei processi lavorativi di una data organizzazione. In altri termini, un certo cambiamento organizzativo nonché l’adozione di un particolare dispositivo diagnostico che in teoria sono ritenuti validi acquisiscono una reale efficacia se sono “calibrati” sulle persone concrete, sui loro modi di sentire, pensare e agire e sui particolari ambienti ove tali persone lavorano. Ciò non solo rafforza l’esigenza di coinvolgere il più possibile le persone per rendere chiare le finalità delle azioni preventive, ma rende evidente anche il ruolo centrale dei manager ai vari livelli. Questi ultimi, con i loro atteggiamenti più o meno propositivi verso la sicurezza psicologica oltre che fisica, con il loro stile gestionale più o meno attento ad ascoltare e monitorare la situazione, con il loro maggiore o minore grado di prontezza nell’aggiustare il tiro, tendono ad avere un impatto decisivo sugli esiti finali sia di adesione attiva dei lavoratori alle proposte di cambiamento e alle “nuove regole” sia di mantenimento della loro sicurezza e del loro benessere.

• Predisporre misure di accompagnamento alle pratiche facilitanti il rientro e il mantenimento dell’efficacia delle prestazioni in un contesto ragionevolmente sicuro anche sul piano psicologico. Ci si riferisce in particolare a 2 tipi di servizi assai rilevanti per:
1) agevolare la ricostruzione di un rapporto significativo con il proprio lavoro;
2) “riprendere le fila” interrotte dalla chiusura forzata, con un livello di consapevolezza più elevato del valore della prudenza e delle precauzioni necessarie per lavorare in sicurezza;
3) migliorare la motivazione ad essere più efficienti anche adattando creativamente il proprio modo di lavorare ai vincoli introdotti dalla situazione contingente. Per esempio, diventa un vantaggio collettivo favorire le soluzioni di job crafting, cioè di quei cambiamenti del lavoro approntati dagli stessi lavoratori per operare in modo più soddisfacente, ma anche più sicuro. 

Il primo tipo di servizio è teso a supportare le singole persone nella gestione più razionale delle proprie preoccupazioni (comprese quelle relative all’uso dei dispositivi diagnostici veloci e di protezione individuale) e nel contenimento delle reazioni emotive al persistente rischio potenziale di infezione, delle paure nei rapporti interpersonali in azienda, tenuto conto della grande diversità di manifestazioni del virus, del diverso status delle persone con cui si lavora (immuni, guariti, asintomatici) e degli effettivi scambi comunicativi diretti necessari per il lavoro. Questo tipo di servizio rappresenterebbe uno spazio di comunicazione e consultazione personale, una risorsa di dialogo costruttivo fornita dall’organizzazione alla persona per favorire il suo coinvolgimento sugli obiettivi comuni, e può avere come prototipo il counseling psicologico nelle sue varie forme, anche a distanza.

Il secondo tipo di servizio tende a supportare l’organizzazione aziendale indirizzando, per esempio, le comuni attività di formazione verso iniziative mirate a sostenere i nuovi processi aziendali o le nuove forme di organizzazione del lavoro e di gestione delle persone, rese necessarie dalle richieste di sicurezza fisica e psicologica. Ciò potrebbe significare promuovere rilevazioni sistematiche sul clima aziendale, attivare sperimentazioni controllate di lavoro individuale e di squadra (in presenza e a distanza) alternative a quelle tradizionali, aggiornare i modelli di leadership ecc.: tutte iniziative tese a creare condizioni di migliore efficienza aziendale, ma in sintonia con la tutela della salute e del benessere delle persone.

Guido Sarchielli è professore emerito di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna. Tra gli altri, ha pubblicato il volume Andare in pensione. Piaceri, dispiaceri, opportunità (con F. Fraccaroli, Il Mulino, 2015).


Riferimenti bibliografici

Nielsen K. (2013), «How can we make organizational interventions work? Employees and line managers as actively crafting interventions», Human Relations, 66 (8), 1029-1050.

Rajkumar R. P. (2020), «COVID-19 and mental health: A review of the existing literature», Asian Journal of Psychiatry, 52, 1-5.

Savadori L., Rumiati R. (2005), Nuovi rischi, vecchie paure, Il Mulino, Bologna.

Spreitzer G. M., Cameron L., Garrett L. (2017), «Alternative work arrangements: Two images of the new
world of work», Annual Review of Organizational Psychology and Organizational Behavior, 4, 473-499.

Tan W., Hao F., McIntyre R. S., Jiang L., Jiang X., Zhang L., Zhao X., Zou Y., Hu Y., Luo X., Zhang Z., Lai A., Ho R., Tran B., Ho C., Tam W. (2020), «Is returning to work during the COVID-19 pandemic stressful? A study on immediate mental health status and psychoneuroimmunity prevention measures of Chinese workforce», Brain, Behavior, and Immunity, DOI: https://doi.org/10.1016/j.bbi. 2020.04.055, 1-29

Questo articolo è di ed è presente nel numero 280 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui