Carmen Giorgio, Matteo Lancini

Duellare con il limite: le nuove sfide degli adolescenti

Delle sfide affrontate dai giovani di oggi e testimoniate dal web, gli adulti non sanno quasi nulla. Un motivo valido perché, invece di vietare alla cieca, si interessino all’esistenza in rete dei loro ragazzi.

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In epoche ormai lontane, caratterizzate da un contesto sociale marcato dalla stabilità, il cambiamento dall’infanzia all’età adulta avveniva attraverso riti di passaggio che indicavano e costituivano delle vere e proprie transizioni.

Lo sviluppo individuale non era una questione soggettiva, bensì sociale, così come sociale era l’organizzazione rituale che doveva marcare con sicurezza il percorso da intraprendere. L’incompletezza originaria, che coincideva con la condizione infantile, veniva così trasformata nel Sé sociale modellato dalla cultura d’appartenenza. Il cambiamento non riguardava solo il mutamento di status, ma l’identità più profonda.

Attraverso cerimonie iniziatiche, l’adolescente, maschio o femmina, imparava a confrontarsi con diversi ambiti che avrebbe dovuto governare una volta adulto e veniva modellato così da essere e sentirsi realisticamente adeguato ai ruoli previsti nelle relative appartenenze sociali. La virilità, per esempio, doveva essere conquistata e confermata periodicamente con sfide legate in genere a prove di abilità e coraggio. Tutt’oggi, in culture molto diverse dalla nostra, le trasformazioni dei ragazzi in donne e uomini adulti sono regolamentate socialmente da battesimi di questo genere.

 REPERTORIO DI SFIDE DIFFUSE OGGI 

Nel contesto sociale occidentale, che ha dominato la scena fino agli anni Settanta, per crescere e adempiere i compiti evolutivi che la seconda nascita impone con l’arrivo dell’adolescenza, non c’era altra strada che opporsi all’autorità e all’egemonia di stampo patriarcale. Nella famiglia normativa tradizionale, sottomettersi all’altro e ai valori degli adulti e della comunità di riferimento era l’unico modo per differenziarsi e per crescere. I comportamenti ribelli, guidati da ideologie che li giustificavano, acquisivano una valenza trasgressiva nei confronti di regole sociali o famigliari non condivise.

Nel corso del tempo, la società, i modelli educativi e i miti affettivi famigliari sono profondamente cambiati. La famiglia affettiva ha sostituito quella normativa, il soggetto narcisistico è subentrato a quello edipico e il peso della vergogna e della mortificazione sociale ha preso il posto del senso di colpa. Ne consegue che l’adolescente odierno è sicuramente molto diverso dal passato. In tal senso, interpretare i suoi comportamenti alla luce di modelli ormai desueti risulta non solo anacronistico, ma soprattutto rischioso. Le sfide dei giovani odierni non sono attacchi all’autorità adulta, così come non sono la manifestazione di un tracotante senso di invincibilità e sfrontatezza.

Troppo spesso chi descrive anche pubblicamente questi fenomeni è portato a interpretarli erroneamente come tragica conseguenza del senso di onnipotenza. Tuttavia, l’onnipotenza e il senso di invincibilità sono caratteristiche del funzionamento del bambino. L’adolescente, con l’arrivo della pubertà, acquisisce nuove spoglie che, oltre a rivoluzionarie dotazioni, portano con sé la rivelazione di una grande verità: il corpo è finito, limitato e mortale. Si tratta di una scoperta importante e ricca di conseguenze per la relazione che si sviluppa con il progetto futuro, il senso della vita e la finitezza della propria corporeità. È nel momento di massimo splendore, all’apice della crescita, che paradossalmente si scoprono la vecchiaia, la malattia e la morte. La mente dell’adolescente entra inevitabilmente in contatto con il più spietato degli esami di realtà. I ragazzi hanno timore del futuro e sfidano la morte. Il loro tentativo di ricercare emozioni forti, sino a provare paura, è un modo di duellare con il limite e di avere un controllo attivo sulla dipartita.

Tale propensione, che esiste da sempre, è strettamente legata al compito di mentalizzazione del corpo caratteristico di questa età. Le prove di coraggio in strade, le folli corse in motorino, i film horror e altri comportamenti alla ricerca della paura e del limite si sono trasformati assumendo oggi nuove forme e nuovi scenari. Dalle gare nelle piazze ci si sposta su Internet. Se prima le challenge avvenivano nel privato della propria ristretta cerchia di amici, adesso la sfida è diventata social. La decisione di postare la propria impresa per avere il maggior numero di visualizzazioni possibili nasce dal bisogno di ricevere approvazione e riconoscimento. 

 LA PAURA DI NON ESSERE VISTI O RICORDATI 

Un esempio su tutti sono le competizioni a colpi di kilfie, una tipologia di selfie estremi per i quali si mette a rischio la propria incolumità. La ricerca di popolarità da parte dei ragazzi odierni si inquadra in una società nella quale anche gli adulti attribuiscono sempre più importanza all’esserci, all’apparire, all’avere successo. In questo contesto, il selfie non è più vissuto come un autoscatto, ma come una narrazione, in tempo reale, della vita del protagonista, rivolta a una sconfinata platea di destinatari. Esso si colloca all’interno di un cambiamento più generale della funzione creativa. Per l’adolescente odierno, spinto sin dall’infanzia a cercare la strada per esprimere il proprio talento, l’attività espressiva ha a che vedere con la ricerca di visibilità e valorizzazione. L’esplosione dei selfie, in tal senso, rivela la paura di non essere visti e di venire dimenticati; lo sguardo di ritorno del pubblico di amici lenisce il dolore, infondendo la speranza di poter essere rispecchiati e ammirati. I coetanei diventano i destinatari privilegiati. In nome dell’appartenenza gruppale, si allinea il proprio comportamento alle leggi implicite e sottese che regnano nel mondo dei pari.

Quella odierna è una generazione di figli unici, bambini socializzati fin da subito, con l’imperativo di avere tanti amici per scongiurare il rischio di sperimentare quote di noia e di solitudine. Crescendo, l’adolescente a orientamento narcisistico non si sente mai abbastanza bello e popolare, non è mai all’altezza delle aspettative proprie e altrui. È nei ragazzi più vulnerabili, con importanti difficoltà evolutive e privi di prospettive future, che si fa strada la tentazione di gesti forti, di azioni eclatanti, dal selfie estremo alle challenge appunto. Nella maggior parte di questi casi è il Sé corporeo ad essere attaccato, in quanto percepito come principale responsabile del proprio dolore psichico. Un esempio in proposito sono le sfide legate alla thin inspiration, volte a plasmare il proprio aspetto in diversi modi: dal creare il maggior spazio possibile tra le cosce (Arc de Triomphe) al rendere più visibili le clavicole (collarbone challenge), o le ossa delle anche, sino a creare un ponte con il pezzo inferiore del costume femminile (bikini bridge). A governare queste sfide sembra essere l’ossessione per la ricerca di un corpo perfetto che possa essere visibile nella sua invisibilità e per questo apprezzato e riconosciuto da un gruppo di pari che condivide gli stessi valori e ideali. Comportamenti estremi diventano l’unica risposta possibile quando si perde il senso della propria esistenza e lo si ritrova nella verità assoluta di un ideale trasformantesi in pericolosa ideologia. L’estremismo diventa un tentativo di cura al narcisismo ferito e alla delusione di aver ricevuto dalla pubertà un dono che tradisce le gloriose attese. 

Si tratta di un corpo limitato, mortale, con dei desideri e dei bisogni sconosciuti, sessuato, potenzialmente generativo e complementare, maschile o femminile, con delle sembianze anche molto diverse da quelle necessarie per essere visibili e popolari nel mondo dei coetanei. Generalmente il conflitto evolutivo con il nuovo corpo si risolve positivamente quando è possibile attribuirgli una funzione simbolica, ossia un significato sociale, relazionale, erotico, affettivo, facendone il testimone della propria immagine e della propria identità. In altri casi la mancata mentalizzazione ostacola la costruzione di uno spazio interno di pensiero e l’adolescente si appoggia alla realtà esterna più controllabile e rassicurante, o ricorre al linguaggio del comportamento e della somatizzazione per esprimere sofferenze non elaborabili entro lo spazio psichico dell’attività mentale rappresentativa.

 LE TRASGRESSIONI DEI NOSTRI FIGLI 

Fragilità, delusione e un profondo senso di vergogna accompagnano spesso chi mette in pericolo la propria sopravvivenza. Si tratta di vissuti particolarmente presenti sia nelle condizioni fisiologiche che in quelle di crisi evolutiva. È proprio lo scarto tra aspettative e realtà (sociale, scolastica, famigliare), tra Sé ideale e Sé reale, a rappresentare la principale fonte di sofferenza. Purtroppo molto spesso alcuni comportamenti degli adolescenti, come nel caso dei selfie e delle sfide estreme, vengono equivocati dagli adulti e dalla società in generale, che tende a interpretarli come gesti trasgressivi e un’ostentata manifestazione di grandiosità. Questa lettura rischia di essere pericolosa nella misura in cui non risulta assolutamente sintonica con la fragilità, il senso di vergogna, la paura di deludere e allo stesso tempo il bisogno di ammirazione dei ragazzi odierni.

Pensare in termini trasgressivi induce risposte che vanno nella direzione della repressione e del divieto. YouTube mette al bando video di sfide estreme aggiornando le sue linee guida, e la stessa attenzione viene tendenzialmente estesa a blog, siti, pagine. Un selfie su un cornicione di un grattacielo può costare una denuncia. L’insidia, però, è che questi stessi contenuti che si cerca di oscurare finiscano per circolare in chat private, diventando ancora più pervasivi e difficili da intercettare. L’ipotesi di rimuoverli è poco realistica, anche se resta comunque importante pensare a una regolamentazione. E tuttavia la mera conoscenza dei pericoli e la corretta informazione sono solo soluzioni parziali.

Divieti e censure sono interventi facili da aggirare che rischiano di far sentire i ragazzi meno compresi, i “grandi” ancora più spaventati e in generale tutti più soli. Le angosce di ruolo degli adulti rendono spesso impotenti dinanzi al dolore. Se in un contesto normativo edipico i giovani non parlavano con i genitori per paura della punizione, oggi tacciono per paura di deludere e fare soffrire. È così che nei ragazzi si fa strada la tentazione di ricercare le risposte al proprio malessere e alle proprie questioni identitarie anche attraverso Internet: un ambiente il cui utilizzo va compreso all’interno dell’ineguagliabile percorso di realizzazione dei compiti evolutivi di ogni singolo ragazzo e ragazza. In risposta a un mondo ancora nuovo, imprevisto e sconosciuto, sono state erette difese di stampo paranoico da parte delle vecchie generazioni. Ciò comporta reazioni di rifiuto e di negazione inefficaci, che rendono ancora più lontani, inconsapevoli e inesperti rispetto alla vita virtuale dei ragazzi, la quale, come per tutti, inevitabilmente si intreccia ormai con quella reale.

Delle sfide che si aggirano in Rete, molti adulti non sanno nulla e gli adolescenti tutto. Per questa ragione, invece di vietare, bisognerebbe domandare e interessarsi alla vita e all’esistenza online. Allo stesso modo è importante che tutti, e non solo i giovani, sviluppino maggiori competenze e nuove consapevolezze nell’utilizzo delle tecnologie, così da potersi porre come punto di riferimento riguardo a quanto i ragazzi trovano in Internet. Sovente, tuttavia, è proprio il timore di preoccupare, deludere e angosciare i genitori che porta i figli a desistere dal confrontarsi o dal chiedere aiuto. Per quanto riguarda il tema della morte, per esempio, la nostra società è troppo spaventata dal parlarne, mentre in adolescenza la scoperta della mortalità del corpo porta ad agiti anche fisiologici e inconsapevoli per esorcizzare la paura. Diversamente, sarebbe importante creare uno spazio all’interno della relazione affettiva, che caratterizza i legami odierni, per poter dar voce, ascoltare, comprendere e condividere queste e altre questioni senza lasciarsi sopraffare dal timore o dalla sensazione di aver fallito nel proprio ruolo.

Un altro aspetto concerne il bisogno di popolarità. A tal proposito Facebook, così come Instagram in alcuni Paesi, sta ipotizzando di nascondere dai post il numero dei like ricevuti. Iniziative come queste potrebbero effettivamente consentire di invertire la rotta, concentrando l’attenzione sul contenuto, più che sulla popolarità. Però non bisogna dimenticare che la società dell’apparire è stata creata da adulti e ha poi coinvolto anche bambini e ragazzi. Chiedere solo all’adolescente di cambiare quando commette un gesto pericoloso al servizio del bisogno di ammirazione non è una soluzione realistica.

Sarebbe auspicabile poter pensare a una controcultura che coinvolga a vario titolo tutta la comunità educante, in modo da essere tutti in grado di meglio comprendere e sostenere il dolore e la complessità della crescita delle generazioni odierne. 

Carmen Giorgio è psicologa e psicoterapeuta, socia dell’Istituto Minotauro. Svolge attività di ricerca, prevenzione e consultazione dedicando particolare attenzione all’età evolutiva e al tema della relazione tra adozione e Internet.
Matteo Lancini è psicologo e psicoterapeuta. Insegna all’Università Milano-Bicocca. Tra i suoi ultimi libri: Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa (2019, Raffaello Cortina Editore).

Questo articolo è di ed è presente nel numero 277 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui