Alessandra Salerno, Chiara Feminò

Disturbi dell'alimentazione: Sanum edo, ergo sum

Viaggio nel mondo dell'ortoressia

L’ortoressia è l’attenzione a mangiar sano. un’attenzione che spesso degenera in ossessione, fino a divenire un vero e proprio disturbo dell’alimentazione.

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Il cibo e l’atto del mangiare hanno sempre rappresentato e continuano ancora a rappresentare in ogni cultura non solo la principale fonte di sostentamento ma anche un importante veicolo espressivo di simboli e significati, uno strumento per costruire e riconoscere l’identità di un individuo o di un intero popolo. Dunque, si può affermare che esso svolge una funzione non solo puramente vitale ma anche sociale e culturale, costituendo un motivo di affiliazione, aggregazione, condivisione e intimità. Come afferma Montanari (2007), il cibo non è da considerarsi come una res naturalis bensì come una res culturalis, in quanto in tutte le fasi che attraversa, quando si produce, quando si prepara e quando si consuma, viene investito di valori simbolici e culturali portati dall’uomo, che non si limita a utilizzarlo ma lo sceglie, lo trasforma, lo carica di significato. 

Riconosciuta e accettata la sua dimensione culturale ed espressiva, è facilmente intuibile come un anomalo approccio al cibo e abitudini alimentari aberranti possano manifestare forme di disagio psicologico, definite oggi come Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). A tal proposito, è utile precisare che i DCA costituiscono un fenomeno patologico recente, poiché solo a partire dalla seconda metà del Novecento nel mondo occidentale il cibo ha iniziato a divenire un nemico, dando vita a una vera e propria “epidemia sociale”. I DCA rappresentano un’area di intervento clinico fondamentale per la salute e il benessere psicofisico degli individui, considerando quanto un difficile rapporto con il cibo rappresenti delle difficoltà nella relazione con il proprio corpo, con l’immagine e con la percezione che si ha di sé nel contatto con gli altri.

L’Eating Disorders Work Group del DSM-5, il Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali più utilizzato dalla comunità scientifica nella diagnosi di questi ultimi, ha apportato nella sua ultima versione numerose modifiche rispetto all’edizione precedente, al fine di migliorare la descrizione dei sintomi e la diagnosi dei disturbi delle condotte alimentari. Per esempio, è stata introdotta una nuova categoria diagnostica, l’Avoidant/Restrictive Food Intake Disorder (ARFID) al fine di sostituire e ampliare la classe diagnostica del Disturbo della Nutrizione dell’Infanzia o della Prima Adolescenza, presente nel DSM-IV-TR. L’introduzione di tale classe diagnostica si è proposta di rappresentare e diagnosticare tutti quei disturbi alimentari che non risultano associati a preoccupazione e paura di ingrassare e a una distorta percezione del peso e della forma del proprio corpo (come accade, invece, per l’Anoressia Nervosa e la Bulimia Nervosa), cercando al contempo di evidenziare la rilevanza dei fattori biologici e psicologici nell’insorgenza di disordini alimentari.

In uno dei criteri relativi alla categoria ARFID, in particolare nel III profilo del criterio A, è possibile far rientrare l’ortoressia, condizione patologica non ancora inclusa e riconosciuta come specifica categoria diagnostica nell’ultima edizione del manuale (Garano et al., 2016).

UN DISTURBO MASCHERATO DA VIRTÙ

L’Ortoressia Nervosa (ON) è dunque da considerarsi un nuovo ed emergente disturbo della condotta alimentare che negli ultimi anni ha iniziato a diffondersi in molti Paesi occidentali. Etimologicamente il termine “ortoressia” deriva dal connubio di due parole greche, “orthos”, traducibile come “corretto”, “giusto”, e “orexis”, traducibile come “appetito”. Tale termine è stato coniato dal dietologo americano Steven Bratman nel 1997 per descrivere quei soggetti con un’ossessione patologica verso il cibo sano e biologico, con conseguenti significative restrizioni nell’assunzione e nel consumo degli alimenti (Bratman e Knight, 2000). Infatti, i pazienti ortoressici risultano estremamente selettivi nella scelta del cibo, al punto da evitare l’ingestione di alimenti che contengano conservanti, coloranti artificiali, pesticidi, eccessiva quantità di sale o di zucchero, che siano geneticamente modificati o siano contenuti in involucri di plastica/alluminio, per timore che vengano contaminati (Koven e Abry, 2015). 

L’ossessione patologica degli ortoressici non si circoscrive all’accurata selezione dei cibi, ma coinvolge anche il processo di preparazione e dunque la scelta dei materiali e delle tecniche di cottura, al fine di preservarne le qualità nutrizionali (Brytek-Matera, 2012). A tal proposito, sono prediletti pentole e padelle in ceramica e utensili in legno che, essendo materiali naturali, non rilasciano negli alimenti sostanze tossiche o dannose per la salute, contribuendo al tempo stesso a un’alimentazione sana e naturale. L’eventuale ingestione di cibi ritenuti malsani e nocivi per la salute spesso comporta nel soggetto ortoressico malesseri fisici (mal di testa, indigestione, nausea, vomito) e conseguenze psicologiche (autosvalutazione, decremento dell’autostima, senso di colpa). 

Non è raro riscontrare una correlazione tra ON e tendenze ipocondriache, dato che l’ortoressico sovente manifesta paura di ammalarsi o di morire in caso di assunzione di cibo ritenuto contaminato (Catalina et al., 2005). Nei casi più gravi, si riscontrerebbe persino una condizione delirante tale per cui il soggetto nutrirebbe una profonda paura di essere avvelenato dal cibo. Dunque, è possibile affermare che gli ortoressici manifestano una tendenza ad attribuire maggiore importanza e priorità alla salute percepita e alle proprietà nutrizionali, piuttosto che al gusto del cibo e al piacere derivante dallo stesso. 

Il soggetto ortoressico si trova al centro di un vero e proprio paradosso poiché, sebbene preservare e migliorare la propria qualità di vita attraverso un’alimentazione sana rappresenti per lui un obiettivo focale, il rigido regime dietetico autoimpostosi costituisce, al contrario, la causa di un significativo peggioramento sotto il profilo fisico, psicologico e sociale (Garano et al., 2016). Pertanto, se l’obiettivo iniziale del soggetto ortoressico è quello di migliorare la qualità della propria salute, oppure di prevenire o curare una malattia, alla fine questo proposito, virtuoso solo in apparenza, si trasforma in un rituale autenticamente ossessivo (Catalina et al., 2005): gli ortoressici spendono gran parte del loro tempo e della loro giornata a pianificare ed attuare la loro dieta alimentare quotidiana, seguendo un iter rigidamente codificato.

Le 4 fasi dell’ortoressia

Nel rituale ossessivo ortoressico è possibile distinguere le seguenti 4 fasi:

Fase 1: pensare costantemente a cosa mangiare
il giorno stesso o il giorno seguente; 

Fase 2: valutare accuratamente e in modo critico tutti gli ingredienti di cui si compone ciascun alimento, mediante un’attenta lettura dell’etichetta (per esempio, se si tratta di verdure, si valuta se sono state trattate tramite pesticidi, mentre, in caso di latticini, se provengono da animali ai quali sono stati somministrati ormoni); 

Fase 3: preparazione degli alimenti selezionati per mezzo di tecniche e metodi di cottura che non risultino nocivi per la salute e che consentano di mantenere inalterate le proprietà nutrizionali degli alimenti stessi; 

Fase 4: se il soggetto ortoressico ha seguito le 3 fasi precedenti in modo rigoroso, ricaverà da ciò soddisfazione; se, viceversa, una di queste fasi non viene rispettata, ne scaturirà un profondo senso di colpa (Brytek-Matera, 2012).

L’ON è da ritenersi come un disturbo alimentare non transitorio, bensì a lungo termine in quanto, nel momento in cui gli atteggiamenti e comportamenti ossessivi divengono pervasivi, influiscono negativamente sulla qualità di vita dell’individuo. Di conseguenza è possibile identificare 3 principali categorie di esiti connessi con tale disturbo, riguardanti anzitutto l’area fisica: la rigorosa e restrittiva dieta ortoressica può condurre a conseguenze negative da un punto di vista fisiologico; infatti, a causa dell’eliminazione/evitamento di alcuni nutrimenti essenziali, aumenta il rischio di sviluppare delle carenze nutrizionali e minerali, con conseguenti danni per la salute dell’individuo e per la sua qualità di vita (Bratman e Knight, 2000; Bosi et al., 2007). Talvolta, le condotte ortoressiche possono portare a complicazioni mediche simili a quelle previste dall’anoressia grave, quali osteopenia, anemia, carenza di testosterone, brachicardia. In casi estremi, il soggetto ortoressico può addirittura preferire morire di fame piuttosto che cibarsi di cibi ritenuti “impuri”, come avvenuto nel caso dell’americana Kate
Fin, la prima paziente ufficialmente deceduta per ortoressia (Koven e Abry, 2015). 

Le conseguenze sul piano psicologico si riferiscono al fatto che alla base del disturbo ortoressico vi è una ruminazione ossessiva verso il cibo, che, a sua volta, sottende un eccessivo bisogno di raggiungere un idea­le di purezza e perfezione. Infatti, da una rigorosa osservanza e da una corretta applicazione delle regole alimentari autoimposte scaturiscono nel soggetto ortoressico sentimenti di soddisfazione, piacere, benessere e accresciuta autostima. Al contrario, anche una minima deviazione da tali regole comporta una serie di conseguenze psico-emotive negative, tra le quali: intensa frustrazione (quando le proprie pratiche legate al cibo sono interrotte/impedite a causa di fattori esterni), disgusto (quando il soggetto ha ingerito cibo ritenuto contaminato), colpa (quando trasgredisce le regole autoimposte).

Infine, a livello di relazioni sociali, inevitabilmente le componenti fisiche e psicologiche del disturbo generano ulteriori conseguenze negative: gli ortoressici ritengono necessario trovarsi in completa solitudine per portare a termine i loro rituali finalizzati all’alimentazione salutare
e questa distorta convinzione può a sua volta influenzare la percezione e l’opinione del soggetto sugli altri, contribuendo allo sviluppo di sentimenti di superiorità e parallelamente di intolleranza e disprezzo verso coloro che non seguono le sue stesse abitudini alimentari. L’inevitabile effetto di ciò è che il soggetto ortoressico versa generalmente in una condizione di isolamento sociale volontario e di insoddisfazione affettiva e, con il passare del tempo, tende sempre più a evitare situazioni sociali basate sulla condivisione del cibo, sacrificando così la propria sfera affettiva e sentimentale in nome dei valori morali che si autoimpone (Brytek-Matera, 2012; Garano et al., 2016). 

COME AFFRONTARLA?

Sebbene si tratti di un disturbo ancora in via di definizione, i ricercatori e i clinici si interrogano su quale sia l’approccio più idoneo al trattamento dell’ortoressia, concordando sulla necessità di un approccio multidisciplinare e multiprofessionale, che richiede la presenza di un’équipe composta da varie professionalità mediche e psicologiche.

Se, da un lato, la diagnosi dell’ortoressia può risultare difficile giacché il comportamento del soggetto viene facilmente interpretato come desiderio di uno stile di vita sano, dall’altro, una volta accertata la presenza del disturbo, i pazienti ortoressici, a differenza di quelli con altri DCA, tendono a rispondere meglio al trattamento grazie all’interesse nutrito verso la propria salute e la cura di sé. 

Il trattamento dell’ortoressia nervosa implica un percorso molto complesso in quanto necessita di uno smantellamento di tutte le convinzioni e i rituali ossessivi relativi al “mangiar sano” su cui ruota la vita del soggetto ortoressico. Indipendentemente dal tipo di approccio psicoterapeutico che è utilizzato, i temi affrontati riguardano anzitutto l’origine dei pensieri ossessivi relativi al mangiar sano che spesso nascondono vissuti ansiosi, bassa autostima, perfezionismo, relazioni famigliari disfunzionali sovente centrate su alte aspettative e scarso riconoscimento, carenti rapporti sociali, depressione. 

L’obiettivo del trattamento è inoltre quello di ridurre il potere che il cibo ha rivestito nella vita del soggetto, riportandolo a una componente degna di attenzione, ma non pervasiva e totalizzante per la persona.

Alessandra Salerno, psicologa e psicoterapeuta, insegna Psicologia dinamica all’Università di Palermo. Tra le sue pubblicazioni: Gli scenari della paternità nella psicologia contemporanea (con M. Tosto, Franco Angeli, 2019).

Chiara Feminò è dottoressa in Scienze e tecniche psicologiche.


Riferimenti bibliografici

Bosi A. T. B., Camur D., Güler C. (2007), «Prevalence of orthorexia nervosa in resident medical doctors in the faculty of Medicine», Appetite, 49 (3), 661-666. 
Bratman S., Knight D. (2000), Health food junkies: Orthorexia nervosa – overcoming the obsession with
healthful eating
, Broadway Books, New York.
Brytek-Matera A. (2012), «Orthorexia nervosa: An eating disorder, obsessive-compulsive disorder or
disturbed eating habit?», Archives of Psychiatry and Psychoterapy, 1, 55-60. 
Catalina M. L., Bonaechea B. B., Sánchez F. G., Rial B. R. (2005), «Orthorexia nervosa. A new eating behavior disorder?», Actas Españolas de Psiquiatría, 33 (1), 66-68. 
Chaky B., Pal. S., Bandyopadhyay A. (2013), «Exploring scientific legitimacy of orthorexia nervosa: A newly emerging eating disorder», Journal of Human Sport
& Exercise
, 8 (4), 1045-1053.
Garano C., Dettori M., Barucca M. (2016), «Ortoressia e vigoressia: due nuove forme di fanatismo», Cognitivismo Clinico, 13 (1), 185-200. 
Koven N. S., Abry A. W. (2015), «The clinical basis of orthorexia nervosa: Emerging perspectives», Neuropsychiatric Disease and Treatment, 11, 385-394. 
Montanari M. (2007), Il cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari.

 

 

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 277 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui