Paolo Moderato

Comunicare durante il contagio

L’informazione intensiva, frammentata e spesso contraddittoria di questi mesi ha suscitato reazioni molto diverse tra loro, ma tutte problematiche.

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Una delle cose che sono molto mancate in questi mesi sono stati i dati. O meglio, numeri ne sono stati dati tanti ogni giorno, ma un po’ a casaccio, non sempre confrontabili, per lo più inaffidabili, quindi quasi sempre inutili. I dati sono fondamentali per l’analisi, e senza analisi non si va da nessuna parte. Lo sono anche per la psicologia, se vogliamo capire quali sono stati e sono i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre azioni, in una parola il nostro comportamento, in questo drammatico frangente. E se il comportamento di cui parliamo è stato in massima parte segnato dalla paura – a livello globale – è appunto anche perché l’informazione ha spesso annaspato nelle interpretazioni anziché nella rilevazione dei fatti.

Comprendere tali processi aiuta peraltro a prevedere i nostri comportamenti e a porre in essere procedure per modificarli, in funzione di un obiettivo condiviso: la salute dei singoli e della collettività.

LA PAURA

Conosciamo dunque meglio la paura. Fra tutte le emozioni, è quella che ha il maggior valore salvifico. Avere paura davanti a un pericolo salva la vita. L’Homo sapiens è sopravvissuto nelle situazioni pericolose perché ha avuto paura: le sue paure gli hanno impedito di estinguersi. Gli organismi fisicamente più indifesi sono timidi e paurosi, si spaventano per un nonnulla e così si salvano. Tra gli umani, i temerari, gli intrepidi, gli audaci (così celebrati nella prosopopea eroica) e i curiosi hanno meno probabilità di sopravvivere: tuttavia, senza di loro non avremmo mai avuto lo sviluppo della cultura e della scienza che conosciamo.

Il Covid-19 ha fatto e fa paura, com’è giusto che sia, visto che rappresenta una minaccia di dolore e di morte per buona parte dell’umanità. Quindi ci aspetteremmo, e soprattutto ci saremmo aspettati quando il rischio di contagio e di morte era più elevato, comportamenti di difesa e di sopravvivenza in linea con la paura di una minaccia così forte. Eppure, abbiamo assistito a scene incoerenti con il concetto di paura, con assembramenti esplicitamente vietati dai decreti e sconsigliati dalla ragione, mentre tutti, scienziati e politici, battevano e ribattevano, e imploravano, di stare a casa, che era il posto più sicuro. Perché?

La paura funziona come deterrente salvifico se la minaccia è percepita come tale. L’uomo della savana, se vede un leone che si aggira nei dintorni, sale su un albero, ben prima di chiedersi se esso è affamato o no. Lo stesso se vede un serpente strisciare verso di lui, anche se il compagno di caccia gli dice di stare tranquillo perché non è velenoso. Non c’è bisogno di pensare, di valutare: la reazione è automatica, perché lo stimolo è fisico, è conosciuto, è percepito come pericoloso: Kahneman direbbe che si è attivato il “sistema 1”, quello del pensiero veloce.

Il Coronavirus non possiede queste caratteristiche: non è fisico (ovviamente lo è, ma non lo si vede, quindi è come se non lo fosse), non è ancora ben conosciuto, non proprio da tutti è percepito come pericoloso. Per diverso tempo è stato definito un “rischio emergente”, pertanto la sua percezione non è paragonabile a quella di altre situazioni note. Ciò per quanto riguarda lo stimolo che produce la paura e che dovrebbe indurre comportamenti di salvaguardia coerenti. Ma questo è solo uno dei poli dell’interazione.

L’altro polo è rappresentato da chi percepisce lo stimolo, l’Homo sapiens 2020. A lungo si è pensato che questi fosse un essere razionale, capace di calcolare al meglio le probabilità di successo di una scelta rispetto a un’altra. La psicologia ha da tempo dimostrato, con dati molto robusti, che non è così. Siamo essere razionali, sì, ma con limitazioni. Ci affidiamo a valutazioni approssimative rivelatesi vantaggiose ed economiche in passato, a scorciatoie del pensiero, chiamate “euristiche”, cui tutti ricorriamo in modo automatico e inconsapevole per semplificare la complessità del mondo esterno e non rimanere paralizzati di fronte all’incertezza: appunto, non sapendo se il leone è affamato, nel dubbio mi arrampico sull’albero.

Gli stimoli non hanno lo stesso valore per tutti, naturalmente: la reazione dipende dal grado di familiarità, dalla storia passata, dal livello culturale di ciascuno. Vi sono però delle costanti di errore che alterano in maniera sistematica la salienza dello stimolo e conseguentemente la valutazione del rischio. Le politiche di quarantena o di monitoraggio possono avere un grande senso quando la minaccia è rea­le, o meglio è percepita come tale, e le politiche si basano su dati precisi. Ma così non è stato né è in questo caso.

Analizziamo il terzo elemento dell’interazione, il contesto in cui essa ha luogo, un contesto che può essere (ed è stato) altamente tossico. Un rischio emergente porta con sé, inevitabilmente, alcune condizioni di incertezza che ci spingono a cercare informazioni. Se queste mancano, o sono sottaciute, il rischio è di dare spazio allo sviluppo di pericolose teorie complottiste: ne abbiamo avuti esempi da alcuni personaggi già noti per precedenti deliranti esternazioni antiscientifiche. Purtuttavia c’è anche il rischio opposto, la ridondanza di informazioni e la loro dissonanza, una sorta di epidemia di informazioni non sempre attendibili, spesso contraddittorie, che da mesi creano disorientamento. Dopo i primi due mesi e mezzo di quarantena indiscutibile nel nostro Paese (da marzo a metà maggio circa), abbiamo sentito, nei giorni pari, affermazioni sulla necessità categorica di continuare a bloccare tutte le frontiere e di mantenere tutti in quarantena e, nei giorni dispari, affermazioni altrettanto categoriche sulla necessità di ripartire, riaprire i locali e così via.

Ancor peggio, abbiamo sentito esponenti del mondo scientifico sanitario mettere continuamente in guardia sull’estrema pericolosità dell’epidemia e altri, per fortuna minoritari, assumere un atteggiamento minimizzante – » È poco più di una semplice influenza –  « fino a ciarlatani ospitati in trasmissioni televisive anche di rilievo nazionale che si vantavano di possedere la ricetta miracolosa contro il virus: il succo di limone! Anche accettando come buona lintenzione di non ingenerare risposte di panico, si tratta di una confusione pericolosa: la realtà, giudice ultimo della fondatezza delle teorie, ci ha detto da tempo che il Covid-19 è tutt’altro che una semplice influenza e che i comportamenti irresponsabili descritti sopra sono stati, e in parte sono ancora, molto pericolosi e quindi da modificare e gestire.

Dato che la maggior parte delle persone non ha conoscenze mediche sufficienti a sapere come e quando affrontare al meglio le epidemie virali, la soluzione fin dall’inizio sarebbe stata quella di affidarsi a una competenza informata sui dati: ma nel mondo d’oggi è venuta meno la fiducia nelle competenze, e questo ci lascia indifesi, alla mercé della paura. Viviamo in un’epoca che mostra una forte intolleranza per gli esperti: espressioni come “i professoroni”, “uno vale uno”, la confusione di opinione e fatto scientifico con la pretesa “democratica” di conferire la stessa legittimità a entrambi ne sono la dimostrazione. Tali fattori hanno intossicato la comunicazione e il rapporto con i cittadini, creando un contesto di irragionevolezza che ci ha indeboliti nella lotta contro la pandemia.

IL PANICO E L’ANGOSCIA

Il sovraccarico di informazione sul Covid ha prodotto reazioni apparentemente opposte, ma egualmente problematiche. Molti di coloro che per fortuna non hanno avuto un’esperienza diretta della sofferenza causata dalla pandemia hanno spesso evidenziato comportamenti di rifiuto e negazione della realtà, sfociati anche in azioni di ribellione eclatanti negli Stati Uniti e meno evidenti qui da noi. Parliamo di chi reagisce rifiutandosi di fare i conti con la realtà e comportandosi di conseguenza.

L’altra reazione è quella di chi ha subito l’impatto del virus nel modo più diretto e traumatico, su di sé o sui propri cari. Una situazione particolarmente grave è stata quella degli operatori sanitari in prima linea. I primi dati di una ricerca condotta in Italia tra il 15 e il 28 aprile 2020, che ha coinvolto 858 tra medici e infermieri, la metà dei quali in Lombardia e nelle altre 14 province dichiarate “zone rosse”, hanno evidenziato come più della metà dei partecipanti riferisse sintomi di ansia moderata o grave (55.4%), per circa un terzo ascrivibili a un quadro di depressione moderata o grave (28.9%), e il 15% dei partecipanti lamentasse insonnia (Moderato et al., 2020). I risultati di questo studio hanno individuato differenti profili di vulnerabilità psicologica. Solo il 44% dei professionisti è risultato avere un profilo resiliente caratterizzato da buon adattamento, mentre più della metà riportava sintomi di sofferenza psicologica che si articolavano lungo un continuum di gravità.

Per queste tipologie di persone il sovraccarico di informazione, accendere il televisore e non sentire parlare d’altro a tutte le ore del giorno, settimana dopo settimana, non aiuta certo a distanziarsi emotivamente dall’evento e a evitare il panico. Queste reazioni assumono oggi un significato molto rilevante se le analizziamo nel contesto probabile dei prossimi mesi: per avere la disponibilità a livello mondiale del vaccino (miliardi di dosi) le stime più ottimistiche parlano di metà 2021, le più realistiche di fine 2021. Dovremo dunque imparare a convivere anche a lungo con il virus e la sua instabilità, dovremo fronteggiare in contemporanea un’epidemia parallela di paure e preoccupazioni.

 

PANDEMIA A LIVELLO PSICOLOGICO

Noi umani reagiamo alla paura anche in modo simbolico, senza il contatto diretto con gli stimoli ansiogeni, oppure amplificandoli fuori misura, attraverso le funzioni del linguaggio, che, alterando la modalità con la quale sperimentiamo gli eventi, influisce significativamente sul modo in cui interagiamo con il mondo circostante. Le epidemie, pertanto, non possono essere considerate solo per i loro aspetti biologici, la cui cura è riservata agli specialisti della salute, perché gli esseri umani reagiscono mentalmente agli eventi tramite un sistema di relazioni simboliche: i mezzi di comunicazione contribuiscono ad amplificare gli effetti della pandemia a livello psicologico individuale e sociale.

Abbiamo visto come soprattutto nelle fasi iniziali ci sia stato un atteggiamento altalenante, che ha provocato stress, ansia, panico tradottisi in risposte emotive e azioni irrazionali, come l’accaparramento di vari prodotti: ricordiamo tutti gli assalti, a marzo e aprile, nei supermercati, gli scaffali vuoti, le razzie dei vari tipi di disinfettante, ma anche di pasta, farina e lievito, carta igienica e acqua. Così come, un po’ prima, ricordiamo anche le espressioni violente, per fortuna prevalentemente solo verbali, nei confronti di cittadini asiatici che si trovavano come turisti nel nostro Paese.

Uno degli obiettivi degli interventi iniziali del blocco totale, quella che passava sotto il nome di «fase martello» (Pueyo, 2020), era rispondere alla paura dilagante e anch’essa contagiosa aiutando gli ospedali a guadagnare tempo attraverso la limitazione della diffusione dell’epidemia; ciò avrebbe consentito di preparare la risposta medica e nel frattempo cercare una soluzione mediante la ricerca. Tuttavia, un blocco così drastico ha comportato varie conseguenze psicologiche negative: confusione, rabbia, preoccupazione e disperazione per chi aveva un’impresa o un’attività professionale, sintomi di stress post-traumatico. Così, mentre la pandemia di Covid-19 ha continuato a diffondersi in tutto il mondo, un’epidemia appunto parallela di paura e preoccupazione si è diffusa nei Paesi progressivamente colpiti dal virus. Elevati livelli di ansia pubblica sono stati alimentati dalla mancanza di conoscenza del virus e della malattia, dalla carenza di cure mediche specifiche, dalla circolazione di informazioni errate, dalle immagini dei pazienti ospedalizzati e delle bare allineate, e dalle azioni necessarie ma perentorie in un modo che non aveva precedenti, intraprese dai governi di tutto il mondo.

L’impossibilità delle famiglie di essere vicine e sostenere i pazienti isolati e quelli in terapia intensiva o di accompagnarli nel fine vita, è stata un’ulteriore fonte di angoscia, tristezza, rabbia, risentimento che davvero non vorremmo dover vivere più. Tutto ciò senza le drammatiche conseguenze sociali emerse, le quali, invece, ci porteremo dietro chissà per quanto tempo: la pandemia sta sconvolgendo le economie e separando le persone dai luoghi di lavoro e dagli spazi quotidiani, minando la società moderna su una scala che secondo alcune previsioni rischia di essere vicina, o ancora peggiore, a quella della seconda guerra mondiale.

COME POSSIAMO REAGIRE?

Se l’ansia rende i nostri repertori psicologici rigidi e ristretti, dobbiamo cercare un antidoto: lo possiamo trovare nella flessibilità psicologica. Con questa espressione ci riferiamo alla «capacità di sentire e pensare con apertura, di impegnarsi volontariamente nell’esperienza del momento presente e di dirigere la propria vita verso ciò che è importante per sé stessi […] È la capacità di imparare a non allontanarsi da ciò che è doloroso, volgendosi verso la propria sofferenza per vivere una vita ricca di significato e di scopo» (Hayes, 2019). La flessibilità psicologica è costituita da un insieme di abilità inter- e intrapersonali che possono essere apprese e permettono di cambiare mentalità, atteggiamenti e comportamenti che compromettono il funzionamento personale o sociale.

Le conseguenze psicologiche della pandemia di Covid-19 sono imprevedibili. Rispetto ad altre recenti epidemie, come la SARS, la paura qui sembra essere più intensa, anche perché supportata da dati di maggiore gravità. L’ampia letteratura sul modello ACT (Acceptance and Commitment Therapy, in italiano “terapia dell’accettazione e dell’impegno”) di flessibilità psicologica sostiene l’impiego di strategie basate sulla consapevolezza e sull’accettazione, per aiutare le persone ad affrontare problemi come la pandemia da Coronavirus.

LA FLESSIBILITÀ PSICOLOGICA

Le competenze più comunemente proposte per contribuire alla flessibilità psicologica sono:

1. accettazione e apertura alla propria esperienza (vs. evitare, sopprimere ecc.);

2. defusione cognitiva o tenere i propri pensieri con leggerezza (vs. fusione cognitiva e intreccio);

3. attenzione flessibile al qui e ora (vs. perdita di contatto con il momento presente o essere in una modalità di funzionamento “auto-pilota”);

4. avere un senso di sé stabile e trascendentale (vs. attaccamento a un sé concettualizzato);

5. chiarimento e vita basata su valori scelti profondamente significativi (vs. confusione su ciò che è importante e/o vivere la vita in modo incongruente rispetto a ciò che è davvero importante per la persona);

6. azioni intenzionali (vs. inazione, impulsività, comportamenti evitanti non funzionali o persistenti).

 

PAOLO MODERATO è ordinario di Psicologia all’Università IULM. Presidente di CBT-Italia, è autore di oltre duecento pubblicazioni scientifiche. Di recente ha pubblicato Pensieri, parole, emozioni (con G. Presti, Franco Angeli, 2019).


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Hayes S. C. (2019), La mente liberata. Come trasformare il tuo pensiero e affrancarti da stress, ansia e dipendenze (trad. it.), Giunti Psychometrics, Firenze, 2020.

Moderato L., Lazzeroni D., Oppo A., Dell’Orco F., Moderato P., Presti G. (2020), «Acute stress response patterns and factors associated with impaired psychological status in health workers facing SARS-CoV-2: Saving private Ryan», submitted.

Pueyo T. (2020), «Coronavirus: The hammer and the dance», https://medium.com/@tomaspueyo/coronavirus-the-hammer-and-the-dance-be9337092b56

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 280 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui