Roberto Escobar

CINEMA: Il ritratto negato

L’ultimo film di Andrzej Wajda è sul pittore Strzemiński. Sia per quest’ultimo che per il regista le immagini che contano sono quelle della “nostra” realtà, non quelle della realtà “in sé” imposta dall’ideologia.

Il-ritratto-negato_Cinema_276.jpg

Nei nostri occhi sta la nostra libertà, o almeno una delle condizioni necessarie alla nostra libertà. Questo suggerisce Il ritratto negato (Polonia, 2016, 98’, distribuito in Italia nell’estate del 2019), girato dal novantenne Andrzej Wajda poco prima di morire. Il titolo originale del film è Powidoki, che in polacco sta per «immagini residue». Di «immagini residue», del loro valore sia artistico sia umano, teorizzava tra gli anni Quaranta e Cinquanta il pittore Władysław Strzemiński. Vediamo solo quello di cui siamo consapevoli, e quello di cui siamo consapevoli non sono le immagini della realtà in sé, ma quanto ne arriva e ne resta nella “memoria” dei nostri occhi. Queste sono le sole immagini che davvero ci appartengano. Così Strzemiński insegnava ai suoi allievi dell’Accademia di Belle Arti di Łódź, e così torna a fargli dire sessanta e più anni dopo il grande Wajda, che nella sua vita e nella sua arte sembra specchiare le proprie.

Il ritratto negato racconta gli ultimi anni di uno tra i maggiori pittori polacchi del Novecento, morto sessantenne a Łódź nel 1952. Il film inizia nel 1948, quando anche in Polonia lo stalinismo impone a pittori, poe­ti e scrittori una cieca, programmatica subordinazione al potere, cui viene dato il nome di «realismo socialista». Teorico dell’arte e insegnante amatissimo, Strzemiński (Boguslaw Linda) rifiuta di allinearsi. Dapprima il regime prova a recuperarlo, sia facendogli intravedere le conseguenze negative della sua ribellione sia tentando di blandirlo con i vantaggi che gli verrebbero dalla eventuale obbedienza. Che cosa gli si chiede? Di non dare fastidio, e di adeguare al nuovo ordine la sua arte e le sue lezioni in Accademia. Nel 1934 lui stesso – così gli ricorda un funzionario di polizia – aveva sostenuto la necessità che poeti, scrittori e pittori diventassero «soldati della politica, della parte politica».

Il riferimento, poco comprensibile per uno spettatore italiano, è all’antica adesione di Strzemiński al movimento Sanacja, guidato da Józef Piłsudski, diventato primo ministro della Repubblica polacca con il colpo di Stato del 1926. Wajda non si sofferma né sull’ambiguità politica di Sanacja né sul carattere dittatoriale del regime di Piłsudski,
in bilico fra istanze nazionaliste antitedesche e antirusse, da un lato, e forte ammirazione per Mussolini, dall’altro. Il suo Strzemiński non contesta quanto gli viene detto. E però, di fronte alle promesse e alle intimidazioni del potere, qualunque sia stato quattordici anni prima il significato di quelle sue parole, ora rifiuta di farsi arruolare come artista-soldato di una parte politica, né più in generale della politica.

I motivi della sua rivolta sono artistici ancor prima che politici. Forse si dovrebbe dire che sono politici proprio in quanto artistici, nel senso che, invece di subordinarsi al potere – come accade nelle ideo­logie totalitarie o illiberali –, le ragioni dell’arte hanno per lui valore in sé stesse: un valore che la politica deve rispettare e tutelare.

Mutilato della mano sinistra e del piede destro durante la grande guerra, Strzemiński è stato e resta un combattente. Ora il suo impegno è per l’arte, per l’arte di ognuno. Ognuno, ripete ai suoi studenti, è il solo padrone della propria opera, e perciò della propria vita. Nell’una e nell’altra, nell’opera e nella vita, deve e può dare solo quanto già ha. Poco importa che Stalin stia a guardarlo dal Cremlino, come il regime sostiene e come gli artisti ruffiani accettano di credere per paura e convenienza. E poco importa che intellettuali di regime e potenti lodino i ruffiani e disprezzino gli uomini liberi. Quanto a lui, resiste e si oppone anche quando le sue opere sono vandalizzate e distrutte (fra l’altro, un suo bassorilievo anticolonialista è scalpellato via con la supervisione dell’Associazione degli Artisti).

Così Strzemiński combatte la sua guerra contro chi fa guerra alla poesia, alla pittura, alla letteratura, alle coscienze. Certo non può vincerla, questa guerra, e ancor più certamente non può vincerla a breve termine, per quanto ai suoi allievi, disorientati e scoraggiati, dica che presto le cose cambieranno. Intanto, burocrati e colleghi lo spingono sempre più ai margini sia della vita artistica che della vita.

Negli ultimi mesi, derubato della sua arte, senza più alcun lavoro, arriva all’umiliazione di leccare quel po’ di minestra che gli rimane in un piatto. Non ha più colori per dipingere, non ha più allievi cui dettare le sue Teorie della visione. Quel che gli resta è l’amore di Nika (Bronislawa Zamachowska), la figlia avuta dalla scultrice Katarzyna Kobro, insieme alla certezza che per tutti noi, anche per chi non sia poeta o scrittore o artista, le immagini residue – le sole che possiamo dire davvero nostre – sono quelle di cui siamo consapevoli, e che nessuno può toglierci.

Se non la libertà esteriore, gli resta dunque la libertà interiore della sua coscienza e dei suoi occhi di artista e di uomo. Di questa libertà «più che politica» anche Wajda ha nutrito la propria lunga vita, oltre che la propria arte.

Roberto Escobar, filosofo politico e critico cinematografico, insegna Filosofia politica e Analisi del linguaggio politico presso l’Università degli Studi di Milano e scrive per Il Sole 24 OreFacebook Roberto Escobar

Questo articolo è di ed è presente nel numero 276 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui