Roberto Escobar

CINEMA: Il giardino segreto

Tre versioni per il grande schermo del racconto Il giardino segreto, una storia di infanzia e di affetti negati. Fino a che nel giardino la piccola protagonista non si prende cura di un fiore.

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Come Il piccolo lord è un classico della letteratura per adolescenti, lo è anche Il giardino segreto, pubblicato ventiquattro anni dopo, nel 1909, quando Frances Hodgson Burnett aveva 60 anni e ancora la leggerezza necessaria per scrivere fiabe. Nel 1949 Fred McLeod Wilcox ne trasse un film piuttosto convenzionale, ma girato in un bianco e nero in cui all’improvviso si accendeva il colore. Poi, nel 1993, è stata Agnieszka Holland a portare sullo schermo la solitudine e il bisogno d’amore di Mary Lennox. Il suo film, purtroppo, è stato sottovalutato e qua e là accusato di manierismo (termine che dice poco dell’opera criticata e molto dei suoi critici). Infine, nel 2020, la stessa storia – considerata facile e sentimentale, come alcuni giudicano tutta la prosa della Hodgson Burnett – torna in un film di Marc Munden.

Siamo agli inizi del Novecento (Munden sposta però l’azione al 1947). Rimasta orfana a 10 anni di entrambi i genitori e lasciata l’India, Mary arriva nel tetro castello dell’ancor più tetro zio Archibald (nel film di Munden, Colin Firth). Lì scopre di avere un cugino della sua età, Colin, costretto a letto per una malattia inesistente, un “incantesimo” che oggi diremmo psicosomatico. Il centro del racconto è il rapporto difficile di Mary con lo zio e la governante, e soprattutto con la memoria della madre, che non le ha mai dato affetto.

Come quella del piccolo lord Fauntleroy, anche la sua storia è tenuta a lungo chiusa dentro le ombre di stanze misteriose e deserte. Dopo un’infanzia passata nel sole delle colonie ma intristita dall’abbandono (anche fisico) da parte dei genitori, Mary soffre un’Inghilterra ancora vittoriana, grigia e fredda per il formalismo e la negazione programmatica della tenerezza, oltre che per il clima. La primavera e l’estate porteranno poi rimedio, anche grazie al calore e al colore che di nuovo verranno da un giardino a lungo tenuto nascosto e dimenticato per ordine di Archibald: lì dieci anni prima è morta la sua giovane moglie amatissima, gemella della madre di Mary.

Il racconto, quello del romanzo e quello dei film, percorre alcuni luoghi narrativi tipici della fiaba. Alle spalle della ragazzina c’è una madre negativa, un “sole nero”, una Strega. Davanti c’è l’immagine di una nuova madre, la zia, sua gemella simile e opposta, il cui ricordo aleggia in quelle stanze. Il passaggio dal buio e il gelo della prima alla luce e il calore della seconda viene bloccato da un’altra Strega, la governante e quasi matrigna Mrs. Bedlock (nel film della Holland, una Maggie Smith perfetta). Il simbolo del blocco è la “prigionia” di Mary nella sua camera piena di ombre, rinforzata dal divieto, comune a più di una fiaba, di curiosare lungo il mistero e l’angoscia dei lunghi corridoi vuoti. La via di fuga verso la luce sarà aperta da una chiave magica, strumento fiabesco di curiosità e libertà.

Come ci si aspetta in una fiaba, nei tre film – e soprattutto in quello del 1993 – all’angoscia si intreccia la rassicurazione. Rassicurante è il luogo centrale del racconto, il giardino dimenticato. Per entrarvi occorre trovare un passaggio nascosto, e a Mary lo svela un pettirosso, animale magico e folletto benefico (non così, però, nella versione di Munden, più “realistica”).

Viene qui alla mente un altro giardino, quello di Il gigante egoista di Oscar Wilde, pubblicato nel 1888, ventun anni prima di Il giardino segreto. Tutti e due sono tenuti chiusi da un Orco: un gigante nella fiaba di Wilde, e un uomo incupito dal dolore, prigioniero di sé stesso, in quella della Hodgson Burnett. In tutti e due, ancora, l’inverno ha un dominio completo: «Gli uccellini non si curavano di cantare perché non c’erano bambini e gli alberi si dimenticavano di fiorire», scrive Wilde. Questo trionfo di sterilità e morte ha fine quando quei bambini decidono di entrarvi. E l’Orco smette di essere un Orco.

La chiave misteriosa trovata da Mary nella stanza appartenuta alla madre buona (sepolta sotto rovi e sterpaglie, nel film del 1949) le apre il giardino. Riemersa dal gelo di un inverno intiepidito dalla primavera – cioè, in qualche misura, dal ventre di una madre finalmente tenera –, la chiave è il lasciapassare magico che consente a Mary di compiere il gesto risolutore della fiaba, un gesto d’amore e di vita della cui mancanza ha sofferto, e con lei tutti gli altri protagonisti. L’orfana, la ragazzina che si sente abbandonata, si prende cura di un fiore, liberando il giardino dall’incantesimo che lo teneva chiuso quanto lo era lei nella sua stanza. Basta questo per sconvolgere il castello, per vincere la malvagità della Strega, che smette d’esser Strega, per liberare il cuginetto Colin dall’incantesimo che per anni gli ha impedito di essere amato e di vivere, e per rischiarare il volto dell’Orco.

Tutto è molto dolce, molto sentimentale, soprattutto nel film-fiaba della Holland, proprio come per lo più è giudicata la prosa della Hodgson Burnett. D’altra parte, così sono spesso le fiabe, anche quelle che poi svelano profondità insospettate.

Roberto Escobar, filosofo politico e critico cinematografico, già ordinario di Filosofia politica e Analisi del linguaggio politico presso l’Università degli Studi di Milano, scrive per Il Sole 24 Ore.

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Questo articolo è di ed è presente nel numero 284 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui