Silvia Bonino

Amore e odio, la complessità della socialità umana

Contro la convinzione che gli uomini siano caratterizzati solo da tendenze aggressive, da circa cinquant’anni si indagano anche le nostre tendenze biologiche alla socialità positiva.

amore e odio la complessita della socialita umana.jpg

La pubblicazione nel 1970 del libro dell’etologo austriaco e fondatore dell’etologia umana Irenäus Eibl-Eibesfeldt, intitolato Amore e odio e il cui sottotitolo originale (alterato dalla traduzione italiana) era Per una storia naturale dei comportamenti elementari, ha rappresentato una pietra miliare negli studi sul comportamento aggressivo e la socialità positiva.

In esso l’autore sosteneva l’esistenza di disposizioni biologiche alle relazioni affettive e alla socialità positiva, e non solo al comportamento aggressivo. Per l’epoca, queste affermazioni erano del tutto rivoluzionarie e incontrarono non poche resistenze, che perdurano a tutt’oggi in alcuni settori delle scienze umane e ancor più nel senso comune. La convinzione che gli esseri umani siano dotati solo di tendenze aggressive, e addirittura di un vero e proprio istinto di distruzione, è infatti profondamente radicata nella nostra cultura, dove serve anche da comoda giustificazione per esentare dall’impegno di coltivare gli affetti e la socialità positiva.

LE DISPOSIZIONI BIOLOGICHE ALLE RELAZIONI SOCIALI POSITIVE

Il libro di Eibl-Eibesfeldt non nasceva dal nulla: era il punto di arrivo di studi decennali sia di etologia animale sia di psicologia infantile, in particolare sulla relazione precoce tra madre e figlio. Decisiva era stata, l’anno precedente, la pubblicazione del volume Attaccamento e perdita di John Bowlby, primo di una trilogia che cambiava radicalmente l’interpretazione della prima relazione sociale tra la madre e il neonato. Sulla base degli studi precedenti degli etologi e delle proprie ricerche, Bowlby dimostrava l’esistenza, negli esseri umani, di una socialità precoce indipendente da altri bisogni, sessuali o alimentari. 

Il legame affettivo di attaccamento tra la madre e il bambino veniva identificato come primario, dovuto alla necessità di stabilire un solido e stretto vincolo, indispensabile alla sopravvivenza. Esso è il frutto di un sistema di schemi comportamentali a base innata che non risponde a un modello di funzionamento di tipo energetico, bensì cibernetico, in cui il soddisfacimento del bisogno di legame non riduce la ricerca e l’intensità dell’attaccamento, ma anzi le rafforza.

Il legame non è derivato dal soddisfacimento pulsionale, come sostenuto dalla psicoanalisi, cui peraltro Bowbly inizialmente aderiva; esso non è nemmeno secondario al soddisfacimento del bisogno alimentare, come sostenuto dai comportamentisti, già smentiti dalle ricerche dei coniugi Harlow (1958). Questi avevano dimostrato che nelle scimmie il legame tra il cucciolo e la madre (negli esperimenti: un simulacro di madre) non dipendeva dal soddisfacimento del bisogno alimentare, ma era prioritario e veicolato dalla percezione tattile, cioè dalla possibilità di mantenere il contatto fisico. L’affermazione di Bowlby che la relazione di attaccamento tra il bambino e la madre (o chi se ne prende cura) non è derivata da altri bisogni o pulsioni, ma è primaria, era e rimane di importanza rivoluzionaria, poiché attesta la socialità intrinseca degli esseri umani, predisposti dalla biologia a stabilire fin dalla nascita profonde relazioni personali di attaccamento.

Se Bowlby aveva studiato lo sviluppo della capacità sociale e affettiva lungo l’ontogenesi, vale a dire dalla nascita in poi, Eibl-Eibesfeldt ricercava invece le origini filogenetiche della socialità umana nella sua duplice espressione aggressiva e di legame. Egli mostrava che sia il comportamento aggressivo sia quello sociativo positivo (in specifico: l’aiuto, la cooperazione, la compassione, il conforto, il soccorso reciproco) sono programmati attraverso adattamenti sviluppatisi lungo l’evoluzione filogenetica della specie umana. Per esempio, il contatto fisico (dalla cura reciproca all’abbraccio) è un gesto di pacificazione e legame comune sia ai primati che a diverse culture.

L’autore concludeva che la socialità positiva e le potenzialità del bene non sono quindi solo la conseguenza di una sovrastruttura culturale secondaria, ma possono contare su precise predisposizioni filogenetiche che contrastano le tendenze aggressive e favoriscono quelle prosociali.

Tutti questi risultati convergenti, provenienti da discipline diverse, concorrevano a superare molte concezioni diffuse. Prima fra tutte, una visione energetica che vedeva nella tendenza aggressiva una realtà necessaria e inevitabile negli esseri umani. Secondo questo modello “idraulico”, l’energia aggressiva, se non trova periodicamente sfogo parziale, può accumularsi e dar luogo a comportamenti particolarmente violenti e pericolosi. Le due questioni – concezione energetica e violenza distruttiva – sono strettamente connesse, con rilevanti conseguenze pratiche. Infatti, se si postula un istinto aggressivo, o addirittura di morte, non solo le forme più gravi di violenza umana sono inevitabili, ma quelle minori vanno accettate e tollerate, pena la comparsa, per accumulo energetico, di comportamenti più violenti. La concezione energetica si risolve quindi in una giustificazione del comportamento aggressivo, sia nelle sue forme maggiori, come la guerra, sia nella vita quotidiana, per esempio nell’educazione dei bambini. Al contrario, nel modello cibernetico, l’attuazione della violenza, anche in forme minori, aumenta la probabilità di mettere in atto manifestazioni più gravi.

IL CONTRIBUTO DELLE NEUROSCIENZE E DELLA PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO

A partire da tali studi, numerosi contributi provenienti da diverse discipline hanno confermato nei decenni seguenti l’intrinseca socialità degli esseri umani e l’esistenza di disposizioni biologiche alla socialità positiva, evidenziando allo stesso tempo la coesistenza di tendenze diverse con un dissimile valore adattivo. Nell’ambito delle neuroscienze (Panksepp, 1998), gli studi hanno mostrato che il cervello umano è il risultato di un lungo processo di evoluzione filogenetica, iniziato con i primi vertebrati (i rettili) e proseguito con i protomammiferi e i mammiferi più evoluti, fino all’uomo. Nel cervello umano, di conseguenza, coesistono strutture filogeneticamente più arcaiche con altre più recenti, in specifico la neocorteccia, che ha in noi il massimo sviluppo.

L’aggressione, insieme alla paura, è radicata nelle parti filogeneticamente più antiche del cervello, in funzione di meccanismi primitivi di difesa di tipo attacco-fuga e della connessione, nei maschi, con il comportamento sessuale di dominanza.

Le relazioni sociali positive sono filogeneticamente più recenti e più adattive, essendo comparse con i primi mammiferi nella cura della prole, per poi estendersi ai congeneri e al gruppo sociale, con relazioni individualizzate di legame; si è così sviluppata un’ampia gamma di comportamenti che va dalla sintonizzazione emotiva all’aiuto e la cooperazione.

Negli esseri umani, capacità cognitive uniche si intrecciano con una fortissima socialità, e la neo­corteccia ha fornito alle disposizioni biologiche di positiva interazione personale, radicate nel cervello limbico, anche le nuove possibilità offerte dal pensiero, dal linguaggio e dalla cultura; è così diventata possibile l’empatia evoluta (cioè la rappresentazione del punto di vista altrui), insieme alla costruzione di legami profondi, complessi e articolati nel tempo, di amore, amicizia e solidarietà, sia tra gli individui sia con la comunità. Al riguardo, gli studi sui correlati endocrini delle relazioni di legame hanno mostrato che i mediatori chimici che entrano in gioco sono sostanzialmente i medesimi nelle varie forme di amore, sia esso sessuale, filiale o di patria. 

Di grandissima importanza sono stati gli studi di psicologia dello sviluppo. Essi hanno mostrato la precoce e ricca capacità di interazione sociale positiva nei bambini, a partire da disposizioni universali già presenti alla nascita: ricerca del contatto fisico, imitazione, contagio emotivo e sintonizzazione emotiva reciproca, capacità espressiva e di riconoscimento delle emozioni (per un’analisi specifica, Bonino, 2012). Queste precoci disposizioni permettono di identificare l’altro come proprio simile con cui condividere intenzioni, emozioni, azioni; esse non solo limitano la violenza – dal momento che aggredire l’altro significherebbe, come in uno specchio, aggredire sé stessi – ma favoriscono l’altruismo e la cooperazione, sempre in base al meccanismo del rispecchiamento. Lo studio delle situazioni sociali naturali nei bambini piccoli ha confermato la precoce capacità di aiuto e cooperazione; di conseguenza, l’affermazione che gli esseri umani dispongono di predisposizioni biologiche a interazioni sociali positive, le uniche adattive per la nostra complessa socialità, fa parte oggi delle conoscenze ormai acquisite nell’ambito della psicologia dello sviluppo (Tomasello, 2009).

In particolare riguardo all’empatia, gli studi hanno mostrato che essa è antagonista dell’aggressione ed è alla base del comportamento prosociale e di aiuto. A partire dalla naturale tendenza all’automatico contagio emotivo, si sviluppa lungo gli anni dell’infanzia e della fanciullezza l’empatia cognitivamente mediata, che permette un’immedesimazione senza confusioni con il vissuto dell’altro. Tale disposizione si è evoluta, nella filogenesi, nelle relazioni faccia a faccia e per svilupparsi richiede sempre, nell’ontogenesi, l’esperienza di incontro faccia a faccia con gli altri, adulti e coetanei. 

LA COMPLESSITÀ DELLA SOCIALITAÀ UMANA TRA NATURA E CULTURA

Questo insieme consolidato di conoscenze descrive un quadro assai complesso della socialità umana, dove si intrecciano predisposizioni e capacità di socialità tanto negative quanto positive che comportano l’attivazione di circuiti cerebrali filogeneticamente più primitivi o più recenti; mentre i primi sono rigidi e non specificamente umani, i secondi sono flessibili e capaci di realizzare la profonda socialità della natura umana. 

La socialità negativa può esprimersi a livello emotivo come rabbia, modalità primitiva caratterizzata da impulsività, rapidità e rigidità di risposta, che vede il coinvolgimento delle parti più antiche del nostro cervello e una forte attivazione del sistema neurovegetativo: benché violenta, l’aggressione di tipo emotivo è di breve durata. Ma la socialità negativa può, negli esseri umani – e solo in noi, a causa delle nostre specifiche capacità cognitive –, diventare odio, cioè trasformarsi in sentimento stabile e duraturo, nel cui sviluppo il linguaggio e la cultura svolgono un ruolo decisivo.

Tramite il pensiero si trovano spiegazioni plausibili, si costruiscono teorie cognitivamente elaborate, a giustificazione di rapporti primitivi di dominanza sugli altri, siano essi singoli individui o ampi gruppi umani. Il pensiero viene così asservito alle emozioni primitive, negando l’umanità che ci accomuna ai nostri conspecifici. In tal modo si costruiscono sistemi valoriali e ideologie che giustificano l’odio, individuando categorie di esseri non più umani, ma subumani, nei confronti dei quali la violenza diventa lecita. Poiché le disposizioni prosociali sono fondate su rapporti personali e individualizzati, l’annullamento dell’individuo in una categoria astratta (razziale, religiosa, politica ecc.) consente di attuare comportamenti violenti superando le barriere dell’identificazione; ciò spiega perché persone alquanto solidali all’interno della propria famiglia o clan possano risultare molto violente verso chi è estraneo. 

La socialità positiva può anch’essa esprimersi in forme caratterizzate da forte attivazione emotiva, come lo slancio impulsivo di partecipazione verso un’altra persona, oppure in sentimenti duraturi d’amore che sfidano le difficoltà e le sconfitte, e in azioni di aiuto complesse e organizzate nel tempo, con la mediazione del pensiero. Il pensiero può elaborare valori d’equità e d’amore per gli altri, con cui teorizziamo di condividere la stessa umanità. Va sottolineato che questa elaborazione è in accordo con gli aspetti costitutivi della socialità umana, che si caratterizza per essere positiva e non aggressiva, basata com’è sul riconoscimento dell’altro come proprio simile. Al contrario, le giustificazioni della violenza rappresentano una corruzione del pensiero al servizio delle parti preumane della nostra socialità, non specifiche della nostra specie, radicate nelle parti più primitive del nostro cervello. 

Come ho approfondito in particolare a proposito delle relazioni tra uomo e donna (Bonino, 2015), la cultura può favorire le nostre disposizioni positive di altruismo, collaborazione, empatia, amore, che sono specificamente umane, oppure quelle primitive di socialità negativa, che sono preumane. In concreto, essa può elaborare teorie e fornire messaggi (per esempio, attraverso i media) che privilegiano la violenza, la vendetta, la sopraffazione, a danno della solidarietà, dell’aiuto e della cooperazione. Oggi, in particolare meritano attenzione le interazioni sociali virtuali, in primo luogo le cosiddette reti sociali, che sfruttano la socialità umana per propri fini economici, ma non permettono la relazione faccia a faccia (Bonino, 2018).

Bisogna ricordare che le disposizioni di socialità positiva sono nate, nella filogenesi, nella relazione concreta di incontro con l’altro; per svilupparsi nel corso dell’età evolutiva, e per mantenersi e rafforzarsi lungo tutto il ciclo di vita, esse richiedono l’incontro reale con le altre persone: senza questo contatto fisico, non si sviluppano oppure si perdono. La violenza – da quella emotiva e impulsiva fino all’odio per intere categorie –, così frequente sulle reti sociali, non è un fatto accessorio, ma discende direttamente dalle caratteristiche intrinseche di tali strumenti, che non permettono di realizzare l’unica vera socialità umana: quella faccia a faccia. Questa assenza impedisce l’identificazione e l’empatia, stimola la costruzione di gruppi sociali contrapposti, mentre l’anonimato favorisce la sfiducia e l’irresponsabilità. Esercitate nel mondo virtuale, le modalità aggressive di relazione possono venire facilmente trasferite nella vita reale. 

 

Riferimenti bibliografici

Bonino S. (2012), Altruisti per natura. Alle radici della socialità positiva, Laterza, Roma-Bari.

Bonino S. (2015), Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia, Laterza, Roma-Bari.

Bonino S. (2018), «Asocial media? Coinvolgimento, consumo, dipendenza: l’impatto delle nuove tecnologie sulle relazioni», Quaderni di Gruppoanalisi, 21, 76-92.

Bowlby J. (1969), Attaccamento e perdita, vol. 1: L’attaccamento alla madre (trad. it.), Boringhieri, Torino, 1972.

Eibl-Eibesfeldt I. (1970), Amore e odio. Aggressività e socialità negli uomini e negli animali (trad. it.), Mondadori, Milano, 1977.

Harlow H. F. (1958), «The nature of love», American Psychologist, 13, 673-685.

Panksepp J. (1998), Affective neuroscience. The foundation of human and animal emotions, Oxford University Press, Oxford.

Tomasello M. (2009), Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli (trad. it.), Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

Silvia Bonino è professore onorario di Psicologia dello sviluppo nell’Università di Torino. Fra le sue tante pubblicazioni ricordiamo Empatia. I processi di condivisione delle emozioni (con A. Lo Coco e F. Tani, Giunti, 2010).

Questo articolo è di ed è presente nel numero 272 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui