Gennaro Romagnoli

Alla notte segue sempre un’alba

Anche le situazioni più drammatiche, come sono stati i primi mesi dell’anno, non devono farci dimenticare che possiamo optare per un atteggiamento ottimista e costruttivo. Per il bene nostro e di tutti.

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Ore 14:30 del 28 aprile 2020: mentre sto scrivendo queste parole, siamo in piena crisi Coronavirus, il governo sta avviando la famosa “fase 2”, ma l’incertezza regna sovrana.

Scommetto che se avessi scritto questa frase l’anno scorso sui miei social, qualcuno avrebbe pensato che stessi facendo riferimento a qualche film di fantascienza: ricorda un po’ la famosa “data astrale”, il sistema di datazione utilizzato in Star Trek, o l’incipit di una pellicola per ragazzi di qualche anno fa. Purtroppo, invece, ciò che ho scritto è realmente la situazione in cui mi trovavo mentre stavo cercando di raccogliere le idee e i dati per la stesura di questo articolo, che ha come tema centrale proprio l’epidemia e i suoi risvolti psicologici. Ed è essenziale mettere una data alla creazione del presente articolo perché, come abbiamo imparato a nostre spese, una delle cose più difficili di questo periodo è fare delle previsioni su ciò che accadrà nel futuro e anche delle congetture sulle cause del fenomeno Covid.

UNA RICERCA TEMPESTIVA

Il mondo della ricerca in psicologia non è rimasto a guardare e lo scorso 26 febbraio è stato pubblicato un primo articolo molto interessante sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet (Brooks et al., 2020). Lo studio condotto dal dipartimento di Psicologia medica del King’s College di Londra aveva come titolo: «Gli effetti psicologici della quarantena e come ridurli: una rapida rassegna delle evidenze». Ovviamente il 26 febbraio era un po’ presto per avere dati concreti sulla situazione psicologica delle persone a contatto con questa sfida, pertanto i ricercatori si sono affidati a pubblicazioni precedenti che avessero esaminato da vicino gli effetti psicologici di chi aveva vissuto la quarantena in altre epidemie del passato (SARS, MERS, H1N1, Ebola ecc.).

In ogni caso, come sono riusciti a muoversi così rapidamente? I motivi sono diversi, ma, di fondo, non tutti sanno che nel mondo della ricerca il pericolo “pandemia” non era così remoto come possiamo immaginarlo. Lo dimostra chiaramente un libro, Spillover (alla lettera, “salto di specie”), scritto dal giornalista David Quammen (2012), che ha seguito da vicino le diverse epidemie del passato. Il testo viene pubblicato per la prima volta nel 2012 e parla di un possibile virus (per l’appunto, un Coronavirus) che sarebbe potuto comparire in Cina, più precisamente nei mercati di animali vivi e che da un pipistrello avrebbe fatto il salto di specie.

No, non sto scherzando il giornalista aveva già previsto tutto! Ma come ha fatto?

Ha parlato con i ricercatori sul campo, i quali sapevano come si sarebbe potuta sviluppare una nuova malattia. 

Lo so, sembra assurdo che lo sapessimo da così tanto tempo e credo che questo sia un esempio del fatto che si debba prestare maggiore attenzione alla ricerca sotto molti punti di vista. Perché è importante sottolineare questo aspetto della ricerca? Perché le prime volte che ho parlato nei miei social dell’articolo su The Lancet molti mi hanno detto: «Ma com’è possibile che si sia fatta una ricerca così in fretta?». Ecco, una delle risposte è che la ricerca commentava i dati di altre pandemie, un’altra risposta è legata alla metodologia utilizzata, quella delle meta-analisi, cioè l’aver preso in considerazione studi già effettuati, nello specifico 3166 ricerche che sono state filtrate per rilevanza e metodo fino a estrarne le 24 più rappresentative.

Com’è facile immaginare, i risultati sono stati eterogenei, mostrando una parte di popolazione con poche conseguenze fino a una percentuale significativa di sintomi da disturbo da stress post-traumatico, con ricadute dirette nella fase di ripresa. Alcune variabili sono risultate più importanti di altre nel predire gli effetti negativi e anche positivi: tra quelli negativi, vi sono stati una corrispondenza tra giovane età ed effetti collaterali (nella fascia tra i 16 e i 24 anni), il basso grado di scolarizzazione, il genere (le donne sono state maggiormente colpite) e la presenza o meno di una famiglia alle spalle. Uno degli aspetti peggiori è stato quello legato all’incertezza della durata dell’isolamento e alla sua modalità: in particolare, è stata evidenziata la differenza tra “quarantene forzate” e “libere”. Chi ha scelto di isolarsi volontariamente ha avuto minori danni psicologici rispetto a chi è stato obbligato all’isolamento, e ciò era legato a sua volta al grado di chiarezza delle comunicazioni da parte dei vari governi. Meno le disposizioni erano chiare e più la situazione peggiorava, compresa quella relativa alla notizia che tutti aspettano durante momenti del genere: quanto durerà l’emergenza?

Nella rassegna di The Lancet il primo consiglio è stato quello di far durare il meno possibile l’isolamento, cosa che ovviamente non dipendeva solo dai governi, ma anche e soprattutto dalla diffusione del virus. Abbiamo visto tutti quanto sia stata sottovalutata tale situazione; all’inizio anche noi italiani l’abbiamo presa sottogamba: «Cosa vuoi che sia, non è altro che una sorta di influenza, e soprattutto si trova in Cina, da noi non arriverà mai!». Lo stesso pensiero credo sia stato fatto dalla maggior parte degli Stati che in un qualche modo sono stati raggiunti dal virus, salvo che poi quelli che si sono mossi più velocemente nell’affrontarlo sono stati gli stessi che ne hanno tratto maggior beneficio. Non si parla tanto di questo aspetto sui media, ma la Grecia, non potendo sostenere economicamente l’epidemia, si è mossa rapidamente e ad oggi è infatti uno dei Paesi con il minor numero di infetti e di vittime. 

L’IMPOTENZA APPRESA

La ricerca pubblicata su The Lancet arriva a conclusioni apparentemente semplici, ma che in realtà devono farci riflettere. Tra di esse annoveriamo: che vi siano informazioni chiare da parte dello Stato sull’entità oggettiva del problema e sulla necessità delle misure da prendere; che la quarantena duri il meno possibile compatibilmente con le esigenze sanitarie; che vi siano un buon sistema sanitario e un sistema di sostentamento economico; e che si abbia un occhio di riguardo nei confronti del personale medico. Sì, non è stata una profezia che si autoavvera, purtroppo il personale sanitario è sempre tra i più colpiti in epidemie analoghe, pertanto dovevamo aspettarci che ciò accadesse anche in quella da Covid-19. Tra gli effetti negativi di emergenze del genere evidenziati dalla ricerca vi è il fatto che le persone che già soffrono di patologie psichiatriche tendono a peggiorare, mentre altre sviluppano ex novo fobie, attacchi di panico e disturbi dell’umore.

Ora, se prendiamo una persona e la mettiamo nella condizione di non poter agire sulla realtà, di non poter prevedere per quanto tempo sarà costretta a restare in casa e le attribuiamo alcune responsabilità specifiche, come per esempio il fatto di non uscire per non infettare il prossimo, ecco che ci troviamo di fronte a uno dei paradigmi della storia della psicologia: mi riferisco alla nozione di «stile esplicativo» di Martin Seligman. In uno dei suoi libri più noti, Imparare l’ottimismo (1991), Seligman presenta la famosa teoria dell’«impotenza appresa», che consiste proprio nel mettere un soggetto nella condizione di non poter agire sulla realtà circostante.

Uno degli studi più noti e oggi criticabili (a causa della sofferenza causata agli animali) è stato condotto negli anni Sessanta sui cani, i quali erano posti su delle griglie elettrificate e potevano, in alcune condizioni, interrompere la scossa. Quando però la situazione era strutturata in modo che non potessero fermare la scossa o non vi potessero sfuggire, ecco che i cani tendevano a sviluppare una “incapacità” che non era presente in precedenza.

In altre parole, era come se il cane capisse che ogni suo sforzo era inutile per fermare la scossa, motivo per cui i poveri animali si accasciavano. Seligman scopre, tuttavia, che alcuni animali sono più resilienti di altri, cioè si arrendono con maggiore difficoltà alla situazione. All’inizio non riesce a dare una spiegazione a questa cosa, fino a quando non ripete i test con esseri umani. State tranquilli, nessuna scossa, bensì rumori persistenti, stanze chiuse che non si possono aprire e cose simili: tutte situazioni che conducono le persone a risposte analoghe di impotenza appresa. Con la differenza, però, che gli esseri umani possono essere intervistati e così Seligman scopre che coloro i quali tendevano ad arrendersi più facilmente avevano un atteggiamento mentale simile, caratterizzato dalla sensazione che la situazione sarebbe durata per sempre (persistenza), che avrebbe inciso non solo su quella specifica situazione ma su tutta la loro vita (pervasività) e che tale incapacità era dovuta esclusivamente a sé stessi (personalizzazione). Una teoria che a volte viene riassunta come “teoria delle 3 p”. Per converso, i soggetti resilienti vedevano la cosa in modo opposto: la situazione critica era momentanea, era relegata a quell’ambito specifico di apprendimento e probabilmente non era dovuta esclusivamente a sé stessi. Che cosa ci dice questa teoria, sempre attuale benché datata? Che nelle “giuste condizioni” tutti possiamo esperire stati di incapacità appresa, con sensazioni di inadeguatezza, di impossibilità, di tristezza e conseguentemente aprire le porte a molte problematiche psichiche. 

Altri ricercatori, invece, attribuiscono gli effetti peggiori di questa situazione al famoso sistema di “attacco-fuga-freezing” che abbiamo al nostro interno: quando siamo minacciati da qualcosa di reale o d’immaginario il nostro sistema di difesa entra in funzione portandoci ad attaccare, a scappare o a immobilizzarci. Una situazione continua di stress attiva tali meccanismi peggiorando il nostro stato psicofisico.

DECISIONE E GRATITUDINE

Fondiamo i due esercizi tratti dalla ricerca nel campo della psicologia positiva e appartenenti agli studi di Martin Seligman e di Ellen Langer.

1. Tutte le sere, prima di cenare o dopo cena, prendi carta e penna o un quaderno adibito a questo tipo di esercizi.

2. Fa’ mente locale su ciò che hai fatto durante la giornata e cerca 3 cose che hai deciso tu. Devono essere 3 cose piccole, per esempio: «Ho deciso di leggere un articolo»; «Ho deciso di guardare una puntata di quella serie TV» ecc. Più le scelte sono piccole e più l’esercizio funziona.

3. Subito dopo aver scritto le 3 decisioni, passa a 3 cose accadute per le quali ti senti grato. Vale lo stesso principio: devono essere cose piccole e devono essere scelte a fine serata.

4. Non è un esercizio facile come sembra, molto spesso si tende a sovrapporre decisioni ed eventi verso i quali ci sentiamo grati. Con un piccolo sforzo è possibile trovare 6 eventi separati: 3 decisioni e 3 eventi per cui siamo grati.

5. È possibile fare questo esercizio in coppia o anche in gruppo: si può coinvolgere il proprio partner o farlo come gioco in famiglia dopo cena, chiedendo ai familiari di esprimere a turno 3 decisioni e 3 cose per cui sono grati.

PRENDERE IN MANO LA SITUAZIONE

Per fortuna, non ci sono solo notizie negative e vorrei proprio partire da questo aspetto fisiologico che molti stanno chiamando in causa per spiegare gli effetti negativi della pandemia sulla psiche. Perché, in realtà, si rivela un’altra tendenza umana durante le emergenze, una tendenza ancora più evidente, così tanto sotto il nostro naso da essere quasi schivata. È quella chiamata anche “risposta di legame” (o “di bonding”), che si attiva proprio nelle situazioni in cui diverse parti della popolazione entrano in crisi. Durante i terremoti, per esempio, le persone non provano solo immobilità e desiderio di fuggire, ma provano anche il bisogno di aiutare il prossimo, di essere utili, di unirsi alla comunità che le circonda. Non è quindi un caso che negli scorsi mesi ci si sia ritrovati ad applaudire i medici sui terrazzi, che ci si sia sentiti particolarmente patriottici quando si ascoltava l’inno nazionale o che si sia avvertito il desiderio improvviso di fare volontariato e aiutare il prossimo.

Questa risposta non è stata antitetica rispetto a quella di “attacco-fuga”: infatti, possiamo provare sensazioni devastanti, ma allo stesso tempo avere il desiderio di unirci, aiutarci e abbracciarci. E sono molte le evidenze legate al fatto che se ci occupiamo degli altri stiamo meglio, sentiamo ripartire dentro di noi la sensazione di “agency”, cioè una sensazione contraria all’impotenza descritta da Seligman. Se a ciò aggiungiamo che non esiste solo la risposta che ci porta a traumatizzarci e a finire nel disturbo da stress post-traumatico, ma che esiste pure il suo opposto – la crescita post-traumatica –, possiamo già iniziare a intravedere che nelle situazioni difficili non tutti resteranno colpiti in negativo, ma anzi una parte della popolazione “crescerà” a causa delle condizioni avverse.

Sembra una barzelletta, ma non è così: le persone che hanno vissuto situazioni di emergenza, una volta passato un primo periodo di shock (che solitamente va dai 4 ai 6 mesi) iniziano a rivalutare la propria vita, a dare maggiore valore a cose che precedentemente davano per scontate.

Vorrei concludere con alcune indicazioni pratiche mirate a farci riappropriare il più rapidamente possibile della nostra capacità di “agire sulla realtà”.

Al di là del mindset descritto da Seligman, quindi, dobbiamo pensare che le cose prima o poi finiranno, che tale situazione non rovinerà ogni aspetto della nostra vita e che non tutto dipende da noi. Oltre a ciò ci sono altri semplici studi che possono aiutarci, studi nel solco di quelli di Seligman, come il filone inaugurato dalla psicologa Ellen Langer (1989), nota per molti esperimenti bizzarri e interessanti. Tra questi vi è un semplice esercizio che tutti possiamo mettere in pratica: la Langer, studiando le condizioni di vita degli anziani all’interno degli ospizi, si rese conto che più libertà decisionale si dava a queste persone e più esse si sentivano vive, con conseguenze dirette sul proprio stato di salute. In pratica, ha iniziato facendo loro decidere cosa mangiare, cosa guardare alla televisione, quali attività ludiche svolgere nel pomeriggio, e si è resa conto che quelle semplici scelte erano in grado di aumentare il senso di agency degli individui. Al punto da decidere di applicare quell’osservazione al di fuori delle residenze assistite con una semplice prescrizione alla portata di tutti noi: scrivere ogni giorno su un diario 3 cose che abbiamo deciso. Verso sera, prendere questo quaderno e scriverci sopra le 3 cose che, pensando a ritroso alla giornata trascorsa, abbiamo deciso (più o meno) consapevolmente.

Più queste cose sono piccole e più l’esercizio è efficace, quindi non dev’essere qualcosa del tipo: «Oggi ho salvato una vita umana»! Certo, sarebbe meraviglioso, ma basta anche solo scrivere una cosa del genere: «Oggi ho deciso di leggere un articolo della rivista Psicologia contemporanea e ho deciso di fare un piccolo esercizio che potrebbe aiutarmi a sentirmi maggiormente protagonista della mia vita. Una cosa di cui dovrò ricordarmi anche quando la situazione non sembrerà darmi alcun tipo di scelta».

Gennaro Romagnoli, psicologo e psicoterapeuta, è autore di “Psinel”, il podcast di psicologia e crescita personale più ascoltato in Italia. Si occupa di divulgazione online dal 2007.


 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Brooks S. K., Webster R. K., Smith L. E., Woodland L., Wessely S., Greenberg N., Rubin G. J. (2020), «The psychological impact of quarantine and how to reduce it: Rapid review of the evidence», The Lancet, 395, 912-920, DOI: https://doi.org/10.1016/S0140-6736(20)30460-8

Langer J. E. (1989), Mindfulness. La mente consapevole (trad. it.), Corbaccio, Milano, 2015.

Quammen D. (2012), Spillover. L’evoluzione delle pandemie (trad. it.), Adelphi, Milano, 2017.

Seligman M. E. P. (1991), Imparare l’ottimismo. Come cambiare la vita cambiando il pensiero (trad. it.), Giunti, Firenze, 2018.

 

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 280 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui