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Alienazione genitoriale: mito o realtà?

Una dinamica diffusa ai nostri giorni, quella della Parental Alienation Syndrome: convincere il figlio della negatività o comunque inaffidabilità dell’altro genitore, allontanandolo quindi da lui.

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Negli anni Ottanta del secolo scorso Richard Gardner descrisse la PAS, Parental Alienation Syndrome, caratterizzandola come disturbo psicopatologico che insorge in età evolutiva all’interno di conflitti giuridici implicanti l’affidamento dei figli. Gli elementi fondanti della PAS sono un processo d’indottrinamento (definito programmazione, anche se spesso non consapevole) del figlio da parte di uno dei genitori (alienante) che induce sentimenti negativi ai danni dell’altro, e l’allineamento acritico, per nulla ambivalente e intimamente convinto del figlio – che si presenta come “pensatore indipendente” – contro il genitore connotato negativamente.

Questa animosità si trasferisce di solito anche sulla famiglia del genitore alienato. Certamente esistono situazioni relazionali genitori-bambino che producono gli effetti descritti nella PAS. Da tempo sono noti gli esiti deleteri del coinvolgimento, nei conflitti di coppia, dei figli minorenni: essi di frequente sono arruolati come alleati nella guerra contro l’altro coniuge e finiscono col trovarsi al centro di conflitti di lealtà e aperte strumentalizzazioni.

Il coinvolgimento dei figli nel conflitto genitoriale ha indotto diversi autori a studiare i processi di “triangolazione disfunzionale”, definiti «triadi rigide» da Minuchin e «triangoli perversi» da Haley. 

Si giustifica la diagnosi di un’apposita sindrome, o ci sono aspetti delle nosografie già esistenti in cui gli effetti di relazioni perturbate possono rientrare? Si tratta di una sindrome patologica vera e propria, oppure dell’estremo di una condizione comune durante i conflitti familiari? Inoltre, in quale misura questi effetti sono rilevanti nelle separazioni ai fini delle decisioni giuridiche sull’affidamento dei figli?

Il DSM-5 non ha accolto la proposta di William Bernet, che ne proponeva l’inserimento a pieno titolo fra le categorie diagnostiche psicopatologiche; si è ritenuto improprio etichettare come disturbo individuale quello che coinvolge non soltanto le persone, ma piuttosto la relazione tra più persone. Si tratta di un aspetto della disfunzione del sistema familiare nella fase di disgregazione, i cui protagonisti sono il genitore “programmatore”, il genitore bersaglio e il figlio, spesso con il coinvolgimento anche delle famiglie estese dei due coniugi.

Nello stesso DSM-5 esistono però condizioni associabili a quelle che Gardner definiva PAS, all’interno di quelli che il manuale definisce «problemi relazionali tra genitori e figli»: per esempio, problemi cognitivi quali attribuzioni negative alle intenzioni altrui, ostilità e «sentimenti non giustificati di alienazione», ossia estraniamento dalla realtà.

Nel manuale diagnostico-statistico tanto usato anche per le perizie, si definisce che il bambino è affetto da stress nelle relazioni genitoriali quando gli alti livelli di conflitto producono effetti negativi su di lui, compresi possibili disturbi mentali o fisici. Inoltre viene riportato un “Disturbo fittizio imposto da una persona a un’altra” quando, con inganno accertato, in un’altra persona si inducono falsificazioni di segni o sintomi fisici o psicologici, lesioni o malattie.

Infine il DSM-5 categorizza come “Sintomi deliranti in partner di una persona con disturbo delirante” la situazione che anticamente veniva definita “follia a due”: nell’ambito di una relazione, i contenuti deliranti di una persona (in questo caso il genitore alienante) forniscono contenuti per convinzioni deliranti nell’altra persona (il figlio). Definizioni aventi a che fare con quella che viene definita “PAS”: a condizione di non chiamare così situazioni reali di trascuratezze o  violenze, o una patologia del genitore alienante che produce accuse infondate nei confronti dell’altro.

In realtà, la Sindrome di Alienazione Parentale, o come la si voglia definire, costituisce l’estremo (per fortuna meno frequente di quanto certi avvocati e psicologi prospettino ai giudici) di un continuum frequente nelle controversie delle coppie che si separano in modo conflittuale: il condizionamento del bambino, che finisce col pensare, ed esternare, forte negatività nei confronti di uno dei genitori. Se il bambino è piccolo, la naturale suggestionabilità lo renderà tanto più condizionabile quanto più insistenti e convincenti riescono ad essere gli influenzanti (genitori, nonni, altri familiari).

Spetta allo psicologo, perito d’ufficio o di parte, studiare e valutare la suggestionabilità del bambino e la forza di pressione di chi influenza, e offrire al giudice non tanto un’etichetta in più rispetto alle molte già esistenti, quanto dati rilevanti sui soggetti coinvolti e sulle loro relazioni, e interpretazioni di questi dati, utili per la valutazione giudiziaria.

Spetta allo psicologo intervenire con gli strumenti propri della sua professione per ridurre le conseguenze dannose del condizionamento: anche in tal caso, a prescindere da come esso è definito a livello diagnostico-psichiatrico e da come è sanzionato giuridicamente. Uno di questi interventi è la mediazione, intesa come riorganizzazione del campo familiare catalizzato dalla figura terza e neutrale del mediatore: purché accettata dalle parti, e non imposta dal giudice con discutibili conseguenze sull’attendibilità e la compliance della partecipazione di alcuni o tutti i membri della famiglia coinvolta.

Specifici programmi sono diffusi nei Paesi anglosassoni, pensiamo al Transitional Site Program, che lo stesso Gardner proponeva per la PAS, il programma Family Bridges di Warshak e Rand, i “campi famiglia per famiglie conflittuali”, un modello psico-educativo proposto da Deutsch, Sullivan e Ward. Progetti tutti finalizzati a sostenere le famiglie nel trovare un nuovo assetto interpersonale che consenta di ridurre le componenti disfunzionali della relazione e di raggiungere un nuovo equilibrio cooperando a un progetto di co-genitorialità e reintegrando le componenti sane delle parti coinvolte nel conflitto.

Non si tratta di una nuova terapia per una nuova patologia, ma di un supporto che la psicologia può offrire per evitare che le conseguenze dei conflitti familiari coinvolgano e danneggino la personalità dei figli e il suo sviluppo.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 267 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui