Al centro del ciclone. Come la mindfulness può calmare una mente turbolenta
Gli ambiti di validità della mindfulness sono vari, ma alla base possiamo individuare meccanismi neuropsicologici comuni che consentono di focalizzare l’attenzione nel momento presente inibendo il vagare della mente.
Il termine “mindfulness” deriva dal concetto buddista in lingua pali “sati” che fa riferimento a raffinate abilità di consapevolezza, attenzione e memoria. Si considerano 2 componenti fondamentali della mindfulness: la prima è l’autoregolazione dell’attenzione, focalizzata sull’esperienza presente; la seconda è l’orientamento attitudinale, ossia un atteggiamento aperto, curioso e ricettivo, privo di giudizio.
La mindfulness viene descritta come una forma di addestramento mentale utile a sviluppare una modalità di risposta contemplativa, piuttosto che reattiva, a stimoli esterni e interni; Shapiro et al. (2006) hanno ampliato il modello includendo una terza componente, cioè l’intenzione. Ritroviamo le 3 componenti nella famosa definizione di “mindfulness” di Jon Kabat-Zinn: »Porre attenzione (attenzione) in un modo particolare (attitudine): intenzionalmente (intenzione), nel momento presente e in modo non giudicante« (Kabat-Zinn, 1994).
LA MINDFULNESS E IL DEFAULT MODE NETWORK
Diverse review hanno evidenziato i benefici psicofisici della mindfulness in ambito clinico e non, per problematiche molto differenti, come dolore cronico, depressione, disturbo da uso di sostanze, sintomatologia ansiosa, disturbi alimentari, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo da stress post-traumatico; inoltre sono stati dimostrati effetti sulla flessibilità e prestazioni cognitive e sulla regolazione emotiva. La mindfulness si è rivelata efficace sia con soggetti adulti sia con bambini e adolescenti.
I suoi ambiti di utilizzo sono assai vari, ma possiamo riconoscere i medesimi meccanismi neuropsicologici sottostanti. In particolare, la meditazione riduce l’attivazione del Default Mode Network (DMN), una rete cerebrale di grande scala costituita da regioni cerebrali interagenti. Tra queste, le principali sono: la corteccia cingolata posteriore, la corteccia prefrontale (mediale e dorso-laterale), la giunzione temporo-parietale, il giro angolare e la corteccia temporale (laterale e anteriore). Il DMN è maggiormente attivo quando non siamo concentrati su un compito specifico, tanto che spesso viene considerato come lo stato della mente a riposo (nonostante il consumo energetico del cervello rimanga pressoché stabile, indipendentemente dall’attività).
Le principali funzioni del DMN sono 3:
1) funge da base neurobiologica del Sé (per esempio, rielaborazione dei ricordi di eventi, stati emotivi e comportamenti della propria vita): potremo così dire che il DMN contribuisce a farci sperimentare un senso di Sé stabile;
2) permette di rappresentare la mente altrui, per esempio comprendere gli stati emotivi ed entrare in empatia con altre persone;
3) indulge a far pensare al futuro, anticipando mentalmente eventi che potrebbero accadere.
Il prodotto di queste funzioni è quello che viene definito “mind-wandering”, ovverosia il vagare della mente di quando ci si perde nei propri pensieri. Questo stato mentale è molto comune, tanto da occupare circa il 50% della nostra vita da svegli, ma sembrerebbe associato a bassi livelli di contentezza (Killingsworth e Gilbert, 2010). Esiste, quindi, un’evidente correlazione tra attivazione del DMN, mind-wandering e umore basso. L’attivazione frequente del DMN è inoltre associata a diversi disturbi, come la Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) e la demenza tipo Alzheimer. Per questo motivo stiamo assistendo a un crescente interesse per gli interventi volti a ridurre l’attività del DMN, tra cui, appunto, la mindfulness.
La funzione della meditazione mindfulness, infatti, è quella di rimanere consapevoli del momento presente, agganciandosi a un’ancora che può essere rappresentata dal respiro o dal corpo, e di riconoscere quando la mente inizia a vagare per riportarla senza giudizio al presente. In tal modo l’attenzione viene focalizzata sull’ancora scelta, non consentendo l’attivazione del DMN e, di conseguenza, dei processi autoreferenziali.
Il DMN è strettamente connesso al network linguistico, probabilmente in virtù dell’attivazione della rete semantica; tale network mette in relazione i concetti acquisiti da un individuo nel corso della sua vita, perciò viene considerato una sorta di rappresentazione verbale della conoscenza. In effetti, utilizzando le immagini di risonanza magnetica funzionale, si è riscontrato che in condizione di riposo i meditatori esperti mostrano un significativo aumento dell’attivazione della corteccia visiva e una contemporanea riduzione dell’attività del DMN rispetto ai meditatori naive. Come abbiamo visto, le pratiche di meditazione utilizzano soprattutto i canali sensoriali, riducendo l’elaborazione di contenuti verbali.
IL PENSIERO RIPETITIVO: RIMUGINIO E RUMINAZIONE
Rimuginio e ruminazione sono due processi cognitivi che consistono in una modalità di pensiero ripetitivo, disfunzionale e maladattivo. Il rimuginio solitamente implica uno stile di pensiero analitico e rivolto al futuro, che corrisponde a quello che comunemente definiamo preoccupazione (worry) e spesso caratterizzato da un discorso verbale interiore del tipo »e se...?«. La ruminazione, invece, è intesa come un’attività mentale ripetitiva incentrata prevalentemente sul passato e su di sé, in particolare sulle ragioni del proprio malessere, ed è caratterizzata da forme verbali del tipo »perché…?«. Volendo semplificare, potremmo definire il rimuginio come il pensiero ripetitivo che contraddistingue gli stati ansiosi, mentre la ruminazione si ritrova maggiormente negli stati depressivi.
Il rimuginio, considerato anche una forma ansiosa di mind-wandering, è costituito da preoccupazioni elaborate verbalmente, prive di dettagli e talvolta seguite dalla comparsa di immagini relative a possibili scenari ansiogeni. Questo stile cognitivo è caratterizzato dalla ripetitività dei pensieri, costituiti da previsioni catastrofiche, che vengono vissuti come incontrollabili e intrusivi. Durante il rimuginio l’individuo è talmente coinvolto dalle preoccupazioni da disconnettersi dal momento presente e risultare scarsamente reattivo rispetto agli stimoli esterni. Coloro che rimuginano si sentono incapaci di controllare gli eventi incerti, per questo cercano di utilizzare le preoccupazioni per anticipare e controllare il possibile verificarsi di un evento temuto.
Il pensiero ripetitivo rappresenta dunque una strategia di coping disfunzionale, sostenuta da quelle che Wells (2018) definisce »credenze metacognitive«, vale a dire un insieme di convinzioni, per lo più implicite, relative al funzionamento della mente. In particolare, le credenze metacognitive positive riguardano convinzioni, di cui siamo scarsamente consapevoli, rispetto ai benefici della preoccupazione: »Se mi preoccupo, riuscirò ad anticipare ed evitare i problemi« »Preoccuparmi mi aiuta a organizzarmi« »Preoccupandomi mantengo tutto sotto controllo« »Se non mi preoccupassi, sarei un irresponsabile« ecc. Tali credenze sostengono la preoccupazione e impediscono di darle una fine, poiché in fondo ne sottendono un’illusoria utilità.
Il pensiero ripetitivo è un processo transdiagnostico che accomuna diversi disturbi, in particolare ansia e depressione. Diversi studi mostrano inoltre che il rimuginio aumenta il rischio di insorgenza di Alzheimer, poiché è un fattore predittivo del peggioramento della memoria episodica e della cognizione globale, entrambi domìni correlati alla demenza. Coerentemente, alcune indagini hanno riscontrato prestazioni cognitive peggiori in adulti con elevata ruminazione e preoccupazione. Il ruolo dello stress cronico potrebbe spiegare l’associazione tra ruminazione e presenza di proteine beta-amiloide e tau, queste ultime presenti nel cervello con demenza di Alzheimer. Infatti, il pensiero ripetitivo, oltre ad associarsi a indicatori precisi, come elevata pressione sanguigna e produzione di cortisolo, è un marker comportamentale che può attivare cronicamente la risposta fisiologica allo stress, aumentando la vulnerabilità alla stessa malattia di Alzheimer.
DMN, PENSIERO RIPETITIVO E MINDFULNESS
Le neuroimmagini raccolte durante il rimuginio mostrano il coinvolgimento del DMN e di aree cerebrali connesse alle emozioni, nello specifico le strutture corticali mediali e l’insula anteriore. Si evidenzia una forte correlazione tra la tendenza a rimuginare e un elevato grado di connettività del precuneo destro (la regione del lobulo parietale superiore posta davanti al cuneo del lobo occipitale), un nodo chiave del DMN. Le ricerche attraverso neuroimaging sottolineano il generale coinvolgimento del DMN durante processazioni autoriflessive associate a rimuginio.
Una recente metanalisi di studi che mettono a confronto ruminazione vs. distrazione/controllo attentivo identifica nel DMN il principale substrato neuronale della ruminazione. In sostanza, il DMN risulta maggiormente attivo durante i processi di mind-wandering e pensiero ripetitivo, mentre viene inibito durante l’esecuzione di compiti che richiedono la focalizzazione dell’attenzione. Sulla base della letteratura, pensiero ripetitivo e attenzione focalizzata sembrerebbero quindi due processi mutuamente escludentisi; in quest’ottica, la mindfulness rappresenta un allenamento a portare l’attenzione nel presente, riducendo la frequenza del mind-wandering e attenuando l’impatto dei contenuti mentali in forma verbale.
Tramite la meditazione mindfulness focalizziamo l’attenzione su elementi interni o esterni, colti attraverso i sensi, svincolandoci dall’elaborazione verbale; ciò consente di disattivare i processi di pensiero ripetitivo autoreferenziale, riducendo la relativa sintomatologia. Inoltre, coerentemente con l’inibizione del DMN, la meditazione mindfulness attenua il senso di sé, generando quella tipica esperienza di espansione trascendentale che possiamo riscontrare in diverse pratiche meditative.
CONCLUSIONI
Da un punto di vista evoluzionistico, l’attivazione del DMN, con i relativi processi di pensiero (mind-wandering e pensiero ripetitivo), ha la funzione di preparare l’individuo ad affrontare situazioni future, mediante l’elaborazione di esperienze passate e la prefigurazione di scenari possibili. In un contesto pericoloso e imprevedibile, come poteva essere quello in cui ci siamo prevalentemente evoluti (definito EEA – Environment of Evolutionary Adaptedness), tale processo poteva risultare fondamentale per la sopravvivenza. Oggi, però, viviamo in un ambiente estremamente diverso dall’EEA e siamo dotati di un linguaggio complesso che permea il nostro pensare; quando gli stili di pensiero collegati al DMN divengono cronici ci si possono ritorcere contro, contribuendo all’insorgenza di numerosi disturbi (Fistarollo e Faggian, in corso di pubblicazione).
Il pensiero ripetitivo può dunque essere considerato come un effetto collaterale di una mente estremamente complessa, plasmata dal linguaggio. In tal senso, la mindfulness può risultare una preziosa risorsa poiché interviene in maniera concreta nell’inibire i processi neurobiologici che sottendono forme di pensiero disfunzionali, quali rimuginio e ruminazione, allenando la nostra mente a trovare uno spazio di calma, come al centro di un ciclone.
Silvia Faggian, psicologa e psicoterapeuta, lavora presso il Servizio Dipendenze dell’AULSS 3 Serenissima.
Alberto Fistarollo, psicologo dello sport e psicoterapeuta, lavora come libero professionista ed è consulente del Progetto regionale per il contrasto del Disturbo da Gioco D’Azzardo presso AULSS 3 Serenissima.
Bibliografia
Fistarollo A., Faggian S. (in corso di pubblicazione), Come pesci fuor d’acqua, Franco Angeli, Milano.
Goleman D., Davidson R. J. (2017), Altered traits, Avery, New York.
Kabat-Zinn J. (1994), Dovunque tu vada, ci sei già. Una guida alla meditazione (trad. it.), TEA, Milano.
Killingsworth M. A., Gilbert D. T. (2010), «A wandering mind is an unhappy mind», Science, 330, 6006, 932.
Shapiro S. L., Carlson L. E., Astin J. A., Freedman B. (2006), «Mechanisms of mindfuness», Journal of Clinical Psychology, 62 (3), 373-386.
Wells A. (2018), Terapia metacognitiva dei disturbi d’ansia e della depressione (trad. it.), Erickson, Trento.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 286 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui