Giorgio Nardone

Aiutarsi a chiedere aiuto

Auto-aiutarsi è positivo finché riusciamo ad evitare che il disagio che ci attanaglia ci inibisca nella vita di tutti i giorni. Allora diventa necessario ricorrere al terapeuta.

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L’auto-aiuto, oggi anglisticamente ribattezzato “self-help”, è un argomento dibattuto sin dall’apparire delle prime forme di terapia psicologica, poiché, a un polo, ci sono coloro che lo ritengono impossibile e, all’altro polo, quelli che non solo vi credono, ma che addirittura lo auspicano. La psicoanalisi più ortodossa rifiuta categoricamente questa possibilità, benché Freud prima e Jung poi abbiano praticato l’auto-analisi.
Paul Watzlawick, da postazioni decisamente alternative a quelle psicoanalitiche, assume la stessa posizione riguardo alle possibilità di un’auto-terapia. La psicologia umanistica, all’opposto, propone nella sua versione più vicina alla Beat generation e alla New age numerose versioni di pratiche fra l’esoterico, il naturista e lo spirituale come forme liberatorie di self-help. Da non dimenticare la versione “techno-parasessuale” di Wilhelm Reich, il quale anticipò addirittura i tempi con il suo accumulatore di orgone universale: una sorta di cabina, simile a quelle telefoniche del tempo, ove il soggetto doveva stare per un certo tempo, attraendo su di sé questa energia. Da ricordare che Reich finì i suoi anni negli Stati Uniti in carcere per truffa proprio a causa della commercializzazione di tale attrezzatura “terapeutica”. (CONTINUA...)

Aiutarsi a chiedere aiuto

Al di là delle dispute teoriche e delle talora grottesche espressioni di come auto-aiutarsi psicologicamente, la questione può essere risolta semplicemente valutando l’obiettivo dell’intervento di aiuto, cioè quando e in quali circostanze di disagio psicologico è più vantaggioso aiutarsi da soli, utilizzando pratiche idonee allo scopo, e quando è indispensabile rivolgersi allo specialista della terapia psicologica. Ho affrontato il tema oltre vent’anni fa nel testo che dà il titolo a questa stessa rubrica, impiegando un criterio che può ricordare l’“uovo di Colombo” per la sua apparente semplicità: ci si può aiutare da soli praticando specifiche tecniche psicologiche di problem-solving e di autocontrollo emotivo solo nel caso in cui il disagio esistente non sia invalidante. Ciò sta a indicare che se il soggetto soffre di un’effettiva patologia che lo invalida nell’esprimere sé stesso e le proprie capacità personali, allora è strettamente necessario l’intervento dello specialista in psicoterapia.

Pertanto, la possibilità di auto-aiutarsi è facile da discriminare: il disagio che mi affligge è tale da impedirmi di agire come vorrei? La risposta a questo semplice quesito propone la scelta corretta. Certo, vi sono possibili sfumature tra l’essere totalmente invalidati e l’esserlo solo in parte, ma anche questo può essere facilmente valutato considerando se talvolta riusciamo a tenere a bada o addirittura a superare il disagio, oppure se non vi riusciamo mai. Nei primi due casi potrà essere sufficiente acquisire autonomamente strumenti e tecniche che, insieme allo sforzo personale, permettano di fronteggiare con successo le proprie difficoltà; nel terzo caso, quando non vi è alcuna eccezione all’incapacità di superare il disagio invalidante, farcela da soli risulta impossibile.

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Se ho paura di guidare l’auto ma in situazioni di estrema necessità riesco a farlo, rientro nei primi casi, se invece, anche in emergenza, non riesco a superare il mio limite, siamo nel secondo caso. Per essere ancor più precisi nella valutazione possiamo avvalerci di un’altra analogia. S’immagini di essere caduti dentro una buca nel terreno: se essa è poco profonda, possiamo facilmente uscirne, a patto di non esserci fatti troppo male, il che ce lo impedirebbe; qualora la buca sia profonda ma non oltre la nostra altezza, se siamo agili possiamo tirarcene fuori, mentre se non lo siamo abbastanza avremo bisogno di aiuto – lo stesso se, cadendo, ci siamo prodotti lesioni che limitano le nostre capacità; se siamo caduti in una buca ancora più profonda, la possibilità di esserci provocati gravi danni fisici, tali da impedirci di risalire la parete, è decisamente alta, ma anche se al riguardo ci fosse andata bene, per uscire dovremmo comunque essere agili e forti, altrimenti la scalata risulterebbe impossibile. In questo caso, se non siamo severamente lesionati, avremmo bisogno di qualcuno che ci lanciasse una fune e che ci aiutasse a tirarci fuori dalla disagevole situazione. Ma se cadendo ci siamo fatti decisamente male, tanto da renderci incapaci di sforzi, avremo bisogno non solo di una fune e di un aiuto blando, bensì di qualcuno che ci tiri su di peso o addirittura che scenda nella buca per prelevarci e portarci in salvo.

Questa semplice valutazione delle condizioni in cui ci troviamo e delle risorse a nostra disposizione ci consente di valutare se possiamo auto-aiutarci o se dobbiamo farci aiutare. Infatti, non si deve sparare con il cannone ai moscerini. Quindi valga la reale psicoterapia solo quando è strettamente necessaria – ma in questo caso, non si può offrire una spremuta da bere a chi sta annegando.

Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 275 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui