Stefano Gheno

Una pausa nel lavoro

Le pause che vorremmo concederci in tutti gli ambiti sono quelle scelte in nome di un nostro desiderio e non quelle obbligate dal contesto: ecco il lato peggiore delle quarantene.

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Per diversi mesi abbiamo vissuto, e per certi versi stiamo tuttora vivendo, in un tempo sospeso. Il lockdown prima, ma anche la fase di progressiva e cauta ripartenza da maggio, con il suo “release” oscillante tra un “liberi-tutti” e un “tra poco si richiude”, hanno modificato profondamente il nostro rapporto con il tempo. È un po’ come se da qualche tempo si fosse tutto congelato. Nei primi mesi, giornate tutte uguali tra equilibrismi di gestione famigliare, desideri di socializzazione che si mischiavano a paure di un contatto infetto, un susseguirsi di call lavorative e non. In quella fase, le percezioni sono state diverse: talvolta le giornate sembravano infinite, altre volte ci si sorprendeva a scoprire quanto poco di quel che ci eravamo prefissi eravamo riusciti a combinare, e in entrambi i casi non sapevamo spiegarcene il perché.

UN TEMPO IN PARTE ANCORA SOSPESO

Oggi le cose sono cambiate, eppure per chi ha un lavoro la preoccupazione costante rimane: cosa cambierà ancora? Cosa cambierà come conseguenza ancora pendente dei primi maledetti mesi del 2020? La paura legata a questa gamma di cambiamenti possibili, a tutt’oggi non comprensibili, o almeno non interamente comprensibili, è palpabile. Dalle paure più gravi – «Chissà se riuscirò a non perdere il mio lavoro» – a quelle magari meno drammatiche ma comunque fortemente stressogene, del tipo: «Come sarà rientrare in ufficio?»; «Potrò tornare a prendere la metro in sicurezza?». Insomma, i normali elementi della quotidianità, che pensavamo di aver risolto con una buona organizzazione, si riaffacciano prepotentemente, stavolta come fonte di ansia. Ansia rispetto alla quale le nostre energie sembrano però meno disponibili.

Perché una cosa è certa: tutto sommato, nella fase dell’emergenza abbiamo dimostrato una grande e diffusa resilienza. Tutti, la comunità, le organizzazioni, le persone hanno dimostrato di sapersi adattare. In fondo, ci dicevamo, sarà solo per un periodo, no? E così, via a diffuse dimostrazioni di creatività, di senso di comunità, di filosofia spicciola sul necessario “downshifting” (si veda qui sotto "downshifting"). Adesso però, in fase di post-emergenza si spera senza ondate di ritorno, bisogna fare attenzione. Si potrebbe pensare che la resilienza umana funzioni un po’ come il moto perpetuo: una volta avviata, la macchina non si arresterà più, potrà muoversi all’infinito. Purtroppo non è così: come ci ricordava Max Planck, il moto perpetuo non esiste, «Non esiste un motore che lavori continuamente e produca dal nulla lavoro o energia». 

Così, quasi senza accorgercene, per un po’ di tempo siamo scivolati in una modalità di “risparmio energetico”, siamo entrati in pausa nel tentativo di conservare le energie residue, di farle durare il più possibile. E qui sta una prima questione: a cosa servono pause del genere? Sono solo un procrastinare l’inevitabile “arresto” che possiamo temere seguirà all’esaurirsi delle nostre energie emotive (come nel caso del burnout), oppure sono il momento che consente di ripristinarle, recuperando risorse che ci consentano di fronteggiare la componente di stress che persiste anche nella fase accidentata della ripresa?

Downshifting: mettere in pausa lo sviluppo

«Il mondo non sarà più lo stesso!»: l’idea di dover fare un passo indietro rispetto allo sviluppo forsennato e aggressivo è emersa spesso nel tempo “congelato” che abbiamo vissuto negli scorsi mesi e che ci auguriamo di non dover rivivere. Si può essere felici anche senza sfruttare troppo noi stessi e il nostro ambiente? Certamente sì, a patto che questa “felice” decrescita non ci porti a interrompere il nostro percorso evolutivo personale, ma sia piuttosto l’occasione per riscoprire ciò che conta davvero per noi, tenendo conto che la realtà è in continuo cambiamento. E mettendo un attimo tra parentesi le conseguenze economiche, specie nell’immediato, di questa decrescita.

PRENDIAMOCI UNA PAUSA, MA ANCHE NO

Un’amica che nella sua azienda dirige un folto gruppo di collaboratori, raccontandomi di come, almeno in apparenza, il suo team avesse reagito bene alla riorganizzazione del proprio lavoro in seguito all’emergenza sanitaria, mi ha riferito una proposta che, con qualche esitazione iniziale, è stata in breve ben accolta dalle persone: la “pausa caffè” virtuale. Perché la pausa – al lavoro – non è solo il momento in cui interrompiamo la nostra attività, ma è anche il momento per ristorarsi, con un caffè o uno snack, ma anche con due parole scambiate con un collega. In tal modo riusciamo ad allontanarci da un compito ripetitivo e noioso e a recuperare, socializzando, la dimensione relazionale che la mansione su cui eravamo concentrati aveva, per così dire, congelato. 

La pausa, però, non è sempre vissuta con questo valore positivo. È negativa, per esempio, quando abbiamo fatto molta fatica a concentrarci sull’obiettivo da raggiungere e ora che finalmente abbiamo trovato il ritmo giusto per affrontare un compito impegnativo che magari ci pesava pure, qualcuno ci interrompe. Anche questa è una pausa, ma certamente non viene considerata piacevole. Al contrario, rappresenta una fatica irritante, quando non addirittura distruttiva. A volte poi, anche sul lavoro, ci troviamo in una condizione nota come flow (Csikszentmihalyi, 1990), un particolare stato di coscienza in cui la persona si trova completamente immersa nell’attività che sta svolgendo. Si tratta quindi di una condizione di esperienza ottimale, in cui la motivazione, la concentrazione, la soddisfazione dell’individuo sono al massimo. È anche una condizione in cui ci è molto difficile spostare l’attenzione da ciò che stiamo facendo, proprio perché essa risulta interamente assorbita dall’esperienza in atto. 

La persona in flow non ha quindi particolare necessità di ristoro, dato che è l’attività in sé a produrle benessere, e l’essere distolta dal proprio compito, invece che farle piacere, le provoca contrarietà, se non addirittura disagio.

In sintesi dobbiamo riconoscere che la pausa, sul lavoro ma non solo, può essere un momento positivo se ci permette riposo e favorisce la socializzazione. Addirittura, in alcuni casi, potrebbe essere un modo per affrontare un problema o una situazione difficile in una prospettiva divergente, allargando l’orizzonte del nostro lavoro interno per cercare nuove connessioni che ci permettano di ristrutturare il nostro campo portandoci a un insight. Mentre, lo abbiamo visto, la pausa può essere un momento spiacevole quando ci distrae o ci irrita perché esperita come interruzione di un potenziale “flusso” ottimale.

Anche perché mettere in pausa non significa spegnere il motore. Un po’ come quando lo smartphone o il PC vanno in stand-by: sembra tutto spento, ma in effetti il consumo energetico, seppur in modo ridotto, prosegue. 

Questo fenomeno riguarda, almeno per analogia, pure il nostro funzionamento. Entriamo in pausa perché siamo stanchi o magari perché vogliamo un po’ evadere da una situazione impegnativa che produce molto stress, ma qualche “rotella” continua a girare e, invece di rilassarci davvero, una parte di noi rimane agganciata alla situazione dalla quale volevamo almeno temporaneamente uscire. È il caso della ruminazione e del rimuginio, che non sono proprio la stessa cosa, ma che portano entrambi a un’elaborazione insistente di pensieri negativi che continuano ad affollare la nostra mente senza che si riesca a interromperne il flusso e non di rado diventando così prodromi dell’ansia. Ansia che non ci abbandona nemmeno quando siamo in pausa (talvolta neppure quando dormiamo!), ma che ci accompagna impietosa impedendoci di godere del nostro momento di riposo.

Potremmo quindi vivere le nostre pause come l’ingresso in una comfort zone in cui tutte le nostre preoccupazioni, ansie, pericoli scompaiono. Niente di male, per carità! Solo facciamo attenzione, perché alla lunga questa ricerca di uno spazio franco dove rifugiarsi per sentirsi protetti potrebbe smettere di corrispondere a una pausa nelle normali fatiche dell’esistenza, per diventare invece un miraggio di benessere legato all’assenza di stressor, oppure una “bolla” esistenziale dove vivere in apnea. Non dobbiamo dimenticare la lezione del grande fisiologo Hans Selye che sosteneva come lo stress fosse anche, appunto, «il sale della vita». Vale per lo stress quel che vale per il sale, il cui abuso può provocare l’ipertensione, ma la rinuncia al quale certamente riduce il gusto dell’esistenza. 

Facciamo quindi attenzione alle nostre pause, per evitare che prendano il posto della dimensione attiva e generativa della nostra esistenza. Le pause migliori sono, senza dubbio, quelle che contribuiscono al nostro essere generativi.

Comfort zone: il rischio di una pausa senza fine

Tutti noi dobbiamo in qualche modo difenderci dall’aggressione degli stressor; una delle possibilità che abbiamo al riguardo è trovare un luogo dove riposare al sicuro, dove non contino le prestazioni, dove ci siano buone relazioni e assenza di conflitto, dove sappiamo cosa e come fare. È confortevole un luogo così. Attenzione, però, a non rimanerci troppo: noi siamo fatti per l’azione e in ciò giocare le sfide che ci occorrono ha l’indispensabile funzione di stimolare la nostra crescita. 

COME RIPARTIRE

Così, senza demonizzare la possibilità che la pausa ci serva essenzialmente per tirare il fiato, l’ideale è un altro. Vorremmo prenderci una pausa che sia figlia del nostro desiderio, più che della necessità. Potremmo dire che essa dovrebbe essere una possibilità di sviluppo, più che un perimetro di difesa. Infatti, sempre per mantenere l’analogia con i diversi dispositivi elettronici che affollano la nostra vita, se vado in pausa per risparmiare energie, significa che non ne ho a sufficienza, o magari che altri pensano che io non ne abbia a sufficienza. Talvolta sul lavoro il mobbing comincia proprio con la sensazione di “essere messi in pausa”. Non è una bella sensazione: porta a interrogarsi sul proprio valore, avviando un processo di squalifica che va ad avvitarsi in un circolo vizioso, per cui il non fare è legato al non valere e giustifica il maltrattamento.

È quindi molto diverso se ci prendiamo una pausa perché desideriamo un momento di ristoro oppure se lo facciamo perché non riusciamo a procedere oltre. Si tratta in fondo della consueta dialettica tra bisogno e desiderio: dalla relazione tra l’io e l’ambiente di vita emergono continue esigenze, vissute come bisogni dalla persona. Ma ciò che muove quest’ultima nella propria azione promozionale è il desiderio, più che il bisogno. Entrambi originano dalla mancanza di qualcosa, ma mentre il bisogno fissa lo sguardo su tale mancanza, il desiderio si esprime come tensione al superamento della mancanza, verso una destinazione ulteriore.

Così è generativa una pausa motivata dal desiderio: di vedere gli amici, di recuperare le energie, di allargare i propri orizzonti, di uscire dalla propria rassicurante zona di comfort. Messa in questi termini, prendersi una pausa (l’inglese take a break) è cosa ben diversa, e migliore, rispetto a entrare in pausa (pause).

DA “SI DEVE CAMBIARE” A “POSSIAMO CAMBIARE”

Certo è che, dopo una buona pausa, dobbiamo ripartire, e questo non è sempre facile. Anche perché, come dicevamo all’inizio, una pausa è in fondo un momento in cui il lavoro si “congela”. Pare dunque utile recuperare il contributo originale di Lewin (1947) relativamente alla dinamica del cambiamento possibile. Ricordiamo che modificare la condizione precedente è il grande obiettivo del cambiamento richiesto, oggi più che mai, più volte evocato dal mantra «Niente sarà come prima!» riecheggiante ovunque riguardo allo scenario post-pandemico. In effetti, però, sappiamo che l’uomo è un soggetto estremamente “resistente” al cambiamento, così vorrei concludere con qualche suggerimento circa il perfezionamento della nostra ripartenza dopo la pausa obbligata, sul lavoro e non solo, nei primi cinque mesi dell’anno.

Secondo il modello lewininiano, successivamente adattato da Schein (2000) alla realtà delle organizzazioni di lavoro, il cambiamento avviene tramite un processo caratterizzato da una dinamica unfreezing-refreezing: in una prima fase si assiste a uno “scongelamento” della situazione precedente, si supera l’inerzia relativa all’abitudine e alla mentalità consolidata; iniziano ad affiorare nuove idee e nuove condotte e ci si trova così in una seconda fase, di trasformazione, in cui la novità è ancora confusa, non ben definita, e ci si sente in una condizione di provvisorietà; tale condizione sarà superata nella terza fase, in cui avviene un “ricongelamento” e il nuovo quadro si consolida. 

Un po’ come ci è successo negli scorsi mesi con la fase della reclusione in casa: la nostra vita quotidiana, con il suo sistema di abitudini consolidate, è entrata in crisi, si è andata trasformando con tutto il suo portato di incertezza, incomprensione, fatica, per “ricongelarsi” in un nuovo stile di vita – il quale ha retto per un po’ di tempo, entrando poi a sua volta in crisi e richiedendo con i primi di maggio una nuova trasformazione. Per agevolare il processo si dovrà facilitare lo scongelamento iniziale, mettendo in evidenza la necessità di cambiare («È necessario, non si può andare avanti così»), riducendo il senso di colpa legato al lasciare ciò che c’era prima («È un’assunzione di responsabilità, le circostanze lo richiedono»), sostenendo la percezione della capacità di cambiare («Puoi farcela, sei in grado di cambiare»), quindi sostenendo un’esplorazione di nuove ipotesi e possibilità («Come potrebbe essere, cosa potremmo fare?», ma anche: «Cosa ci sarà mai di male nel provare a farlo?») per arrivare a consolidare la nuova ipotesi a fronte di una verifica personale e sociale della sua efficacia.

Per non soccombere alle pause è utile sviluppare un’«agilità emotiva» (David, 2016) che ci consenta di affrontare ciò che ci accade senza fermarci al congelamento, ma lasciando andare ciò che non serve e introducendo ciò che serve in una diversa prospettiva. In questa direzione è utile provare a vedere la nostra “pausa”, la “pausa” che abbiamo drasticamente vissuto negli scorsi mesi e che qualcuno sta più o meno ancora vivendo, come un’opportunità di cambiamento, ricollocandola in una prospettiva differente: da “si deve cambiare” a “possiamo cambiare”. 

È questa la logica dell’empowerment, l’aprire nuove possibilità per sé, ricostruendo la nostra realtà a partire dal desiderio possibile e sfruttando la nostra competenza primaria nell’apprendere (Bruscaglioni e Gheno, 2000). È proprio tale processo di sviluppo del nostro sentimento di “potere” che potrà aiutarci a ripartire con energia e speranza, impedendo che questa “pausa” nella nostra normalità quotidiana si protragga senza fine, ma impedendo anche che sia trascorsa invano.

Non si tratta, dunque, di fuggire dalla realtà, mettendola in “pausa”, ma piuttosto, dopo esserci “presi una pausa”, di riscoprire il proprio personale protagonismo e le sue conseguenze organizzative e sociali. Potrà essere proprio questo ad aiutarci a vivere le nostre interruzioni come dei ristoratori pit-stop a bordo pista che ci permetteranno di riprendere il percorso di gara con migliori possibilità di successo.

Stefano Gheno, psicologo del lavoro e delle organizzazioni, insegna all’Università Cattolica di Milano. Si occupa di sviluppo personale e organizzativo. Ha fondato wello.online, piattaforma che offre counseling, coaching e formazione.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Bruscaglioni M., Gheno S. (2000), Il gusto del potere. Empowerment di persone ed azienda, Franco Angeli, Milano.
Csikszentmihalyi M. (1990) Flow: The psychology of optimal experience, Harper & Row, New York.
David S. (2016), Agilità emotiva. Non restare bloccato, accogli il cambiamento e prospera nella vita e nel lavoro (trad. it.), Giunti, Firenze, 2018. 
Lewin K. (1947), Field theory in social science, Harper & Row, New York.
Schein E. H. (2000), Culture d’impresa. Come affrontare con successo le transizioni e i cambiamenti organizzativi (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 280 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui