Gennaro Romagnoli

Le nuvole e il temporale

Il cervello alle prese con i bias cognitivi

Ci sono scorciatoie mentali – chiamate bias o euristiche – che ci aiutano a districarci in situazioni complesse dove non è sempre possibile ragionare a freddo. L’importante è che tali meccanismi non configurino un solo problem-solving, diventando degli stereotipi.

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Correva l’anno 2000, ero tra il primo e il secondo anno di Psicologia presso l’Università di Padova e mi accingevo a studiare per uno degli esami che più mi hanno affascinato nel corso dei miei studi: psicologia della personalità. Un corso tenuto dal professor Rino Rumiati, il quale, oltre al manuale dedicato a tutte le teorie della personalità, aveva inserito altri libri: uno tra questi si intitolava Psicologia della decisione e al suo interno trattava un argomento molto interessante: le euristiche di pensiero. Etimologicamente, il termine “euristica” significa “trovare”, “scoprire”, ed è stato utilizzato per spiegare aspetti di epistemologia della scienza, cioè di come scopriamo ciò che sappiamo.

EURISTICHE O BIAS

In psicologia fu il premio Nobel Herbert Simon a introdurre questo termine, indicandolo come un effetto particolare del “satisficing” (un neologismo coniato dallo stesso Simon che unisce “soddisfazione” e “sufficienza”), cioè del fatto di sentirci soddisfatti di una modalità grazie alla quale risolviamo un determinato problema. Secondo Simon, essendo il nostro cervello limitato (e pigro), non appena scopre una modalità per risolvere un problema si accontenta (da qui il termine “satisficing”) e continua a utilizzare le stesse regole, implicite o esplicite, ogni volta che si trova davanti a un problema simile.

A questo punto, forse, il lettore si starà chiedendo perché abbia iniziato questo articolo parlando del mio esame di “psicologia della personalità”: perché in quel libro era già presente la maggior parte delle euristiche, e in particolare il lavoro di due successori di Simon: Amos Tversky e Daniel Kahneman. Forse il primo nome non sarà noto a tutti, ma il secondo sicuramente sì, perché Kahneman vincerà poi il premio Nobel per l’economia a sua volta, proprio dimostrando che il comportamento umano, di fronte a decisioni economiche, non è razionale, abbattendo l’idea dell’homo oeconomicus, cioè razionale e ragionevole. Tversky avrebbe potuto vincere anch’egli il Nobel, ma purtroppo mancò prima dell’assegnazione del premio.

Oggi quelle scorciatoie mentali che studiai con tanto interesse più di vent’anni fa sono ormai sulla bocca di tutti e vengono definite “bias”, che significa “tendenza”, “inclinazione”, “distorsione”. Per spiegare i bias (che sono tipi specifici di euristiche), Tversky e Kahneman riprendono le ipotesi di Simon cercando di dimostrare che, nonostante non ce ne rendiamo conto, noi esseri umani non pensiamo in modo algoritmico, ossia razionale, come farebbe un computer, ma lo facciamo affidandoci a scorciatoie che ci consentano di risparmiare energia. Come sappiamo, questo tentativo di risparmio non rema contro di noi, anzi: è un meccanismo evolutivo che ci ha concesso di applicare le nostre risorse per sopravvivere; e tuttavia tale tendenza al risparmio è rimasta anche in situazioni in cui non ne abbiamo bisogno.

La storia è davvero molto semplice: immaginiamo un nostro antenato di qualche millennio fa che scopra d’un tratto una riserva di animali e piante da cui attingere. Magari scopre uno o due sentieri per raggiungere quel luogo che gli consente di mangiare e di sostentarsi; il nostro antenato la preserva e insegna a tutti i membri del proprio clan come raggiungerla. Un giorno, però, arriva un violento temporale che causa alcune frane pronte a interrompere gli unici due sentieri battuti dall’uomo, rendendo impossibile l’accesso a quella “oasi”. Se il nostro antenato avesse ragionato in modo “algoritmico”, cioè cercando di vedere ogni singolo passaggio che gli ha consentito di raggiungere quel luogo, avrebbe di certo scoperto altre strade per raggiungerlo. Avrebbe capito bene in quale posizione geografica si trovasse rispetto al proprio villaggio, come arrivarci più velocemente nei giorni caldi e come proteggersi dal sole seguendo sentieri più coperti in estate. Insomma, avrebbe vagliato ogni possibilità; ma, come si è detto, il cervello risparmia energia e si accontenta, proprio come aveva detto Simon «si appaga di ciò che sa», perché cercare oltre sarebbe uno spreco di energia. Alcune di queste euristiche o bias (da ora utilizzerò i termini in modo intercambiabile) sono, per così dire, apprese, impariamo una certa strada e ci accontentiamo, mentre la maggior parte di loro potremmo dire che sono strutturali al nostro modo di pensare.

Tale coessenzialità deriva dal fatto che tendiamo all’economia cognitiva, la quale da un lato sembra ostacolare il nostro modo di vedere il mondo, impoverendolo (se non riusciamo a vedere tutte le strade, ci manca sempre un pezzetto), ma dall’altro lato consente di muoverci in un mondo che non conosciamo completamente e questo è un vantaggio incredibile! Tali bias, dunque, non sono solo negativi, ma molte volte ci aiutano ancora oggi, anche se spesso non abbiamo bisogno di risparmiare energia. Ciò capita soprattutto in quelle situazioni in cui dobbiamo riconoscere delle ricorrenze, ossia dei pattern; il nostro cervello riconosce strutture che si ripetono e se ne avvantaggia. Per esempio, ogni volta che vediamo delle nuvole in lontananza sappiamo che potrebbe arrivare un temporale; dunque se siamo fuori a fare una passeggiata iniziamo a tornare a casa. Ora, è vero al 100% che arriverà il temporale? No, anche perché un forte vento potrebbe diradare le nuvole o le stesse potrebbero prendere di colpo un’altra direzione; tuttavia cominciare a tornare verso casa (o verso una grotta o una palafitta) è sicuramente il modo migliore per evitare un eventuale acquazzone.

Questa abilità di riconoscimento di pattern è alla base anche di quella che definiamo “competenza” in un determinato ambito. Immaginiamo questa scena: un meccanico che aspetta il proprio cliente fuori dalla propria officina, gli è appena stato detto che l’auto ha dei problemi: “tende a saltellare”. Se il meccanico ha molta esperienza, è probabile che osservando l’auto, provandola e ascoltando i vari suoni, riesca a capire il problema. Ora so che questa scena può sembrare del tutto naturale, ma non è così, nel senso che se il meccanico non avesse “ascoltato e aggiustato” moltissime auto che presentavano quello stesso andamento, non riuscirebbe a capire il guasto immediatamente. Dovrebbe agire in modo algoritmico, il che significa smontare tutta l’auto per capire in quale punto esatto si trovi il guasto.

Questa, se ci pensi, è la differenza tra un meccanico con esperienza (quindi competenza) e uno alle prime armi, il quale dovrà ogni volta smontare tutto, con evidente spreco energetico rispetto al primo. È dunque proprio la capacità di riconoscere delle ricorrenze da parte del professionista a fargli saltare molto lavoro: sono queste regole implicite che formano le euristiche, così come è chiaro che possono anche ostacolare. Perché se il meccanico basasse il proprio giudizio su una singola ipotesi, e questa non fosse corretta, dovrebbe ripartire con un ragionamento di tipo algoritmico. E, come sappiamo, più una persona è esperta o pensa di esserlo e meno accetta di affidarsi alla strada più lunga e analitica. 

LA FLUIDITÀ COGNITIVA

Come vediamo, siamo di fronte a una sorta di paradosso gnoseologico, ovverosia della conoscenza. Da un lato, abbiamo il super-potere di scoprire delle ricorrenze praticamente in ogni cosa, e dall’altro questo potere, se viene mitizzato (usato come unica via di problem-solving), può diventare un grosso limite e ostacolo. Ad oggi, lo studio dei bias non serve solo in ambito psicologico per capire come diamo forma alla realtà oppure come tendiamo a costruire le nostre competenze, ma anche per capire quali potrebbero essere le nostre tendenze per cercare di tamponarle.

Facciamo un altro esempio: uno dei bias più frequenti è quello legato alla “fluidità cognitiva”, cioè al tasso di facilità con cui un certo concetto può essere afferrato. In alcuni studi venivano intervistati esperti broker per decidere su quali azioni investire; ovviamente era tutto fittizio, le azioni non esistevano, ma i ricercatori avevano creato un vero portafoglio con tanto di indici e valutazioni. Così prendono questi esperti e chiedono loro di valutare 2 tipi di azioni: le prime, che per comodità chiamiamo A, avevano un nome semplice e familiare (tipo: «Casa nostra»), mentre le seconde, le B, avevano un nome molto complesso (tipo: «Akrobsdazus834»).

L’ipotesi dei ricercatori era che, nonostante l’esperienza di tali esperti nel valutare i valori azionari, essi si sarebbero lasciati ingannare dalla “fluidità cognitiva”, e così fu! La maggior parte dei broker sostenne che fossero le azioni A quelle maggiormente promettenti, mentre – come si può immaginare – erano proprio le B. Ovviamente i ricercatori avevano fatto sì che le B fossero solo leggermente migliori della A, altrimenti gli esperti si sarebbero subito resi conto della differenza. La cosa impressionante, tuttavia, è che furono proprio gli esperti a farsi fregare. Ricordi cosa dicevamo prima? Che è proprio chi si affida da anni a quelle scorciatoie che rischia di restarci più invischiato e sottovaluta il potere del pensiero algoritmico, non solo per motivi di risparmio ma anche per motivi di abitudine. Il fatto che siano proprio gli esperti a cascarci ha dato vita a una valanga di studi in questo senso; sì, perché se l’esperto di turno è il tuo medico o il pilota del tuo aereo, ecco che capire cosa potrebbe farlo sbagliare diventa vitale in tutti i sensi. 

Studiare i bias non è solo un modo per prevenire eventuali incidenti, ma anche un modo alquanto interessante per capire come funziona la mente umana. Infatti, cercare di capire come mai tendiamo a pensare in un certo modo svela sia la nostra natura evolutiva che la nostra forma mentis. Una delle euristiche più note si chiama “bias della disponibilità” e, come dice il nome stesso, è la tendenza a basarci sulle informazioni che abbiamo più facilmente a disposizione per risolvere un problema o formulare una qualche ipotesi. È un errore tipico che gli esperti tendono a non vedere: dato che hanno in memoria già molte soluzioni, tendono ad affidarsi a quelle più velocemente reperibili. Se ciò accade quando cerco di aggiustare la tua auto, di certo non è bello; ma se accade prima di un’operazione chirurgica o prima di un volo, la cosa diventa ancora meno bella. Ed è per questo motivo che medici e piloti (come molte altre professioni delicate) hanno interminabili check-list da spuntare prima di mettersi in moto. Check-list che spesso ai lavoratori sembrano solo metodi di controllo del loro operato, ma che in realtà sono studiate per evitare di cadere in uno o più bias, primo tra tutti quello della disponibilità.

Riconoscere tali problematiche, studiarle e tenerle presenti, quindi, è un modo eccezionale di migliorare le nostre presentazioni, evitare gli errori più comuni e, cosa non meno importante, imparare a conoscere un po’ meglio noi stessi. Svolgendo spesso formazione specifica nell’ambito della sicurezza, mi sono accorto che tante volte gli operai sono annoiati dal dovere stilare queste liste, ma quando riesco a trasmettere loro l’importanza di tali procedure, magari parlando loro dei vari bias e di quanto possano essere pericolosi, spesso sono molto felici di aver compreso qualcosa in più su sé stessi, ed è da lì che emerge anche la motivazione a seguire le procedure. 

LA SOSTITUZIONE DI ATTRIBUTO

Esistono numerosi studi e teorie che hanno cercato di capire perché usiamo tali scorciatoie (bias, pregiudizi, stereotipi), ma essenzialmente puntano tutti all’economia cognitiva. Per esempio, Kahneman e Frederick hanno avanzato l’ipotesi della “sostituzione di attributo”, secondo la quale tendiamo a prendere in considerazione ciò che per noi è più familiare, disponibile e facilmente computabile e lo sostituiamo al vero oggetto da analizzare. Questa sostituzione, cioè una scelta cognitivamente più economica, sarebbe alla base di tali errori, ma dobbiamo stare attenti a credere che basti concentrarsi di più per superare meccanismi del genere. In realtà, li adottiamo inconsciamente, di certo possiamo diventarne più consapevoli, impostare meglio i problemi, disegnare meglio gli ambienti (sociali, personali, reali e virtuali); ma se la nostra evoluzione ci ha condotti a tali meccanismi è perché sono realmente utili, soprattutto quando non abbiamo a disposizione tutte le informazioni. Per esempio, sono in molti a sostenere che spesso avere meno informazioni, o non prenderle tutte in considerazione, potrebbe portarci a fare scelte migliori. 

Quindi, non esiste una soluzione? Di certo il fatto di sapere quali potrebbero essere i nostri limiti e i nostri errori ci rende esseri umani migliori, non solo perché ci consente di capire che determinati intoppi possono non derivare da mancata preparazione o distrazione, bensì da meccanismi mentali generalizzati. Per questo studiamo con attenzione come disegnare meglio gli ambienti, soprattutto in quelle situazioni nelle quali gli errori costano assai cari, e come impostare al meglio i problemi. Conoscere i bias può dunque aiutarci a migliorare determinate situazioni, come per esempio quando siamo di fronte a decisioni complesse o quando siamo in uno stato emotivo attivato (paura, ansia ecc.) che può farci ragionare peggio. Oltre a conoscere i bias, un buon modo è quello di avere strategie di regolazione emotiva come, per esempio, la pratica di meditazione, che oltre a regolare le nostre emozioni è in grado di renderci più consapevoli. In questo stato meta-cognitivo siamo maggiormente pronti a riconoscere i nostri meccanismi mentali, cosa che spesso accade in ritardo (ci accorgiamo dopo di aver sbagliato), per cui serve anche una buona dose di “umiltà e gentilezza verso noi stessi”, altrimenti non saremmo disposti a riconoscere l’errore migliorandoci di volta in volta. 

La pratica della consapevolezza ha dimostrato più volte di essere efficace contro alcuni bias, in particolare quelli che riguardano gli errori di valutazione o giudizi stereotipati. Per esempio, un noto esperimento ha dimostrato che la meditazione è in grado di depotenziare il bias implicito, cioè la tendenza ad attribuire stati negativi a persone diverse da noi (per cultura, estrazione sociale o colore della pelle). Ciò non ci rende immuni dai bias, ma ci aiuta a capire che è possibile limitare la loro azione e nel tempo costruire strategie efficaci per gestirli al meglio nella nostra vita, lavoro compreso.

Gennaro Romagnoli, psicologo e psicoterapeuta, è autore di Psinel, il podcast di psicologia e crescita personale più ascoltato in Italia. Si occupa di divulgazione online dal 2007.

Bibliografia

Parks S., Birtel M. D., Crisp R. J. (2014), «Evidence that a brief meditation exercise can reduce prejudice toward homeless people», Social Psychology, 45 (6), 458-465.
Rumiati R., Bonini N. (2001), Psicologia della decisione, Il Mulino, Bologna.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 286 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui