Daniela Pajardi

La psicologia e la tutela dei figli nei conflitti familiari

Chiamata spesso a orientare le decisioni dei giudici nelle separazioni conflittuali, la psicologia giuridica interviene in caso di controversie sulla custodia dei figli, di contrasti intensi, persistenti e pervasivi, di rischi psicopatologici per i minori.
L’obiettivo è quello di una proficua collaborazione tra psicologia e diritto, necessaria per una famiglia che cambia

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I legami familiari sono da sempre al centro della tutela da parte del diritto, e, di conseguenza, sono uno specifico interesse di studio e di ricerca della psicologia giuridica, branca della psicologia che viene spesso coinvolta dai giudici come supporto alle loro decisioni nei casi particolarmente complessi. Diritto e psicologia devono, quindi, confrontarsi in modo interdisciplinare su diverse problematiche familiari, il cui denominatore comune nei casi di interruzione del legame di coppia è quello della conflittualità.

LA PSICOLOGIA DEL CONFLITTO FAMILIARE

Sono tematiche che la psicologia giuridica deve affrontare sviluppando sia una riflessione teorica, sia una metodologia corretta e rigorosa nella valutazione. È infatti frequente che su casi di particolare criticità il giudice chieda un supporto decisionale ad un esperto, nominandolo come consulente tecnico d’ufficio (CTU), che corrisponde a quella che sul piano internazionale è la valutazione sulla Child Custody, tema che ha una tradizione scientifica e professionale nel panorama internazionale di oltre 35 anni. All’esperto viene richiesta una specifica competenza, non solo in generale sulla psicologia giuridica, ma proprio sulla tematica posta dal giudice. Le valutazioni e le conclusioni proposte al giudice devono essere fondate su riferimenti scientifici, condivisi dalla letteratura nazionale e internazionale. Sul piano metodologico viene raccomandato un approccio cosiddetto multi-metodo, che si basi su diversi strumenti di valutazione, come il colloquio, l’osservazione e reattivi psicodiagnostici di varia tipologia. La richiesta del diritto è quella che gli esperti di cui si avvale, psicologi ma anche psichiatri e neuropsichiatri infantili, abbiano maturato una specifica competenza in ambito forense e che superino un approccio soggettivistico e autoreferenziale.

La formazione specifica e il riferimento a linee guida sul piano metodologico ed etico permettono sia di garantire degli standard qualitativi a tutela delle persone interessate e dei giudici, sia di limitare i rischi professionali degli esperti che svolgono la valutazione (Ackerman et al., 2021).

Il tema della conflittualità genitoriale è intrinseco alle situazioni di rottura dei legami di coppia, ma gli effetti sui figli sono molto differenti a seconda del suo livello: quando la conflittualità diventa di particolare intensità e pervasività il rischio che i minori ne siano coinvolti e ne subiscano le conseguenze desta particolare preoccupazione negli operatori del diritto, perché ravvedono su di loro conseguenze a breve e medio termine. È proprio per questi motivi che i giudici, sulle situazioni più complesse, spesso chiedono l’ausilio a consulenti tecnici: per valutare queste conseguenze sui figli, e per avere un supporto nella decisione più opportuna da prendere, per portare i genitori a rendersi conto del rischio sui figli e per trovare alternative nella gestione del conflitto.

La letteratura psicologica ha indicato alcuni criteri che permettono di individuare le situazioni di più elevata conflittualità e quali sono i rischi per i minori che ne sono coinvolti: esse riguardano la persistenza, la pervasività e l’intensità (Shi, 2003; Pajar­di et al., 2019). Un conflitto persistente è quello che viene portato avanti da molti anni, la cui origine può anche risultare difficile da individuare con chiarezza, poiché ciascun genitore percepisce in modo diverso, anche diametralmente opposto, la dinamica degli eventi. La pervasività porta i genitori a non trovare accordo praticamente su nulla, rendendo difficoltosa ogni decisione sulla vita del figlio: da quelle più rilevanti, come la scelta della scuola o di uno sport, a quelle della vita quotidiana, come la gestione dei compiti o le uscite con gli amici. Il conflitto può diventare intenso quando si caratterizza per forme di aggressività, verbali, fisiche o psicologiche.

Quando la conflittualità è molto elevata, il motivo del contendere non è tanto l’aspetto più eclatante, come la forma di affidamento, le frequentazioni o l’assegnazione della casa, quanto la dinamica stessa tra i genitori, per cui ogni decisione sul minore diventa un pretesto.

L’AFFIDO CONDIVISO E LE ESIGENZE DEI MINORI

La strategia di risolvere il conflitto con una divisione equanime tra i genitori di responsabilità e di tempi di permanenza con i figli presenta comunque dei limiti. In Italia, come già in altri paesi, la legge sull’affido condiviso (n. 54/2006) ha permesso di superare l’affido esclusivo, e quindi l’attribuzione ad un solo genitore di un ruolo legale e simbolico centrale nella vita del bambino, ma non ha certo annullato la conflittualità tra i genitori. Parimenti, la proposta di una imposizione per legge del collocamento dei figli a pari tempo tra i genitori, oltre a essere una indicazione che non tiene conto delle esigenze specifiche dei figli in merito a età, qualità delle relazioni con ciascun genitore, esigenze emotive, porterebbe a spostare comunque su altri temi il contrasto tra i genitori. La soluzione di un collocamento pari tempo è stata descritta in letteratura come proficua soluzione per i figli, in certe specifiche situazioni, che viene positivamente realizzata quando è una soluzione scelta dai genitori e c’è un adeguato livello di collaborazione e comunicazione.

Livelli elevati di conflittualità portano i genitori a focalizzarsi sulla loro interazione, e molto spesso a non valutare adeguatamente i reali bisogni dei minori. L’esperienza degli psicologi giuridici, ma anche dei clinici che si occupano di supporto e terapia sui minori, rileva come che i figli esposti a gravi forme di conflittualità possano arrivare a vivere situazioni di disagio sul piano dell’incertezza per il futuro, dell’identità, del senso di colpa nei confronti dell’uno o dell’altro genitore, dell’attaccamento, della dipendenza affettiva, fino a rischi anche di tipo psicopatologico.

QUANDO UN FIGLIO RIFIUTA UN GENITORE

È molto frequente che in una situazione di conflittualità elevata un figlio arrivi a vivere il rapporto con l’altro genitore con molta difficoltà, se non addirittura a rifiutarsi di incontrarlo. Quando non ci sono motivazioni oggettive e plausibili che possano in qualche modo far comprendere o addirittura giustificare questo rifiuto, ad esempio situazioni di abuso, gravi comportamenti abbandonici di un genitore, si aprono molti dubbi sulle ragioni che abbiano portato questo bambino ad assumere dei comportamenti così estremi. La psicologia si è ampiamente occupata del tema della cosiddetta alienazione parentale, con posizioni che sono andate spesso da un estremo all’altro, cioè dal considerare che l’alienazione non esiste, al ritenere che a fronte di un rifiuto del figlio ci sia necessariamente un genitore che ne manipola i comportamenti. Al di là della disquisizione sulla denominazione di questo fenomeno, e su quanto sia dovuto a un disagio del figlio o a comportamenti induttivi di un genitore, messi in atto a volte anche in modo inconsapevole, la realtà delle aule di giustizia e degli studi degli psicologi è di una casistica molto ampia ed eterogenea di figli che in una situazione di separazione faticano, o a volte rifiutano di frequentare un genitore. Le ragioni possono essere molteplici. Senz’altro incide quanto un figlio si senta portato ad assumere un comportamento protettivo verso il genitore che sente più debole, a rifiutare il genitore che sente più responsabile della separazione (o che in questo modo gli viene descritto), a cercare di ancorarsi almeno a un genitore nel momento in cui sente come troppo faticoso tenere in comunicazione e in contatto il mondo paterno e il mondo materno, che percepisce così fortemente ostili e contrapposti tra di loro. È evidente che una situazione di questo genere sia indice di una modalità di separazione non funzionale tra i genitori, e possa comportare delle conseguenze molto gravi sul piano psicologico, ma anche di rischio psicopatologico nel bambino (Verrocchio e Marchetti, 2017).

LA PSICOLOGIA E IL DIRITTO DI FAMIGLIA

In sintesi, la letteratura internazionale psicologica e l’esperienza forense sottolineano come l’elevata conflittualità tra i genitori rappresenti un elemento non solo di sofferenza ma anche di rischio psicologico per i figli, che possono arrivare anche a compromettere la relazione con un genitore: da qui, la necessità di una corretta valutazione da parte degli esperti, secondo metodi e procedure accreditate, dell’intervento da parte del giudice, del ricorso a strategie di prevenzione e contenimento del conflitto.

Ancora prima di tutto ciò sarebbero auspicabili la diffusione di una diversa cultura della separazione e l’assunzione da parte dei genitori della responsabilità di una vera tutela e difesa dei figli dalle proprie dinamiche di coppia e dalla propria conflittualità: a questo scopo la psicologia contemporanea può dare un contributo essenziale.

IL RUOLO DELLA MEDIAZIONE

Il diritto ha cercato di gestire e di prevenire le forme di conflitto estremo con diverse metodologie di intervento. Il giudice può richiedere una consulenza tecnica che gli permetta di inquadrare la situazione del minore dal punto di vista tecnico, per poter assumere le decisioni più opportune sul bambino. Uno strumento frequentemente utilizzato è quello della mediazione, strumento incentivato anche dalla risoluzione n. 2079/2015 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa che invita i Paesi a «promuovere e, se del caso, sviluppare la mediazione nell’ambito di procedimenti giudiziari in casi che coinvolgono minori, in particolare istituendo una seduta informativa obbligatoria in capo al tribunale, al fine di informare sulle possibilità e i requisiti». Il mediatore interviene per scomporre e ridurre il conflitto, aiutare i genitori a trovare modalità di comunicazione più funzionali e a prendere decisioni sui figli che siano condivise, cosa che le rende anche più solide e durature.

La mediazione veicola anche un diverso approccio alla separazione, quello di un evento complesso e di sofferenza della coppia, ma che può essere vissuto come una possibile evoluzione fisiologica di una relazione affettiva, senza che diventi una frattura e un antagonismo tra genitori.

Si tratta di una delle forme di approccio alternativo ai conflitti giudiziari e sociali che cercano di diffondere una diversa cultura delle relazioni interpersonali nelle situazioni di crisi. La conciliazione, la mediazione penale e la giustizia riparativa sono interventi che cercano di far interagire e lavorare sul loro conflitto parti contrapposte nei processi civili, ma anche vittima e autore di reato nel processo penale, o detenuti, vittima e società civile dopo una condanna.

Un recente strumento, anche questo di matrice statunitense, è la coordinazione genitoriale (Carter, 2014), che prevede l’incarico a un esperto di guidare i genitori nella attuazione di indicazioni ricevute dal giudice, e di assistere la coppia genitoriale nel far fronte alle diverse decisioni o imprevisti della vita del bambino, aiutando la coppia a prendere decisioni, eventualmente anche intervenendo qualora la coppia di genitori non riuscisse a farlo. I temi della conflittualità genitoriale riguardano la tempistica di frequentazione dei figli, l’assegnazione della casa, le decisioni sulla scuola, le scelte dentistiche, fino ai permessi di uscita per gli adolescenti o il tipo di sport. Prima dell’approvazione della legge sull’affido condiviso la conflittualità verteva anche sulla modalità di gestione della responsabilità genitoriale, esclusiva o appunto condivisa.

 

Daniela Pajardi è professore associato di Psicologia giuridica e sociale all’Università degli studi di Urbino Carlo Bo, dove dirige il Centro Ricerca e Formazione in Psicologia Giuridica e il Master in Psicologia giuridica, penitenziaria e criminologica. È inoltre referente del corso magistrale in Psicologia clinica e coordina il Polo Universitario Penitenziario distaccato presso la Casa di Reclusione di Fossombrone (PU).

 

Bibliografia

Ackerman M. J., Bow J. N., Mathy N. (2021), «Child custody evaluation practices: Where we were, where we are, and where we are going», Professional Psychology: Research and Practice, 52 (4), 406-417. 
Carter D. K. (2014), Coordinazione genitoriale. Una guida pratica per i professionisti del diritto di famiglia (trad. it.), Franco Angeli, Milano.
Haynes J. M., Buzzi I. (2012), Introduzione alla mediazione familiare, Giuffrè, Milano.
Pajardi D., La Spada V., Viano A. (2018), «Il collocamento a pari-tempo nelle separazioni», Psicologia contemporanea, 269, 68-69.
Verrocchio M. C., Marchetti D. (2017), «L’intervento nei casi di alienazione genitoriale: una rassegna sistematica della letteratura», Maltrattamento e abuso all’infanzia,1, 67-83.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 287 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui