Primo Gelati

Il lutto e la colpa

Anziché tormentarci per le colpe che riteniamo di aver commesso verso chi è morto, impariamo piuttosto a far meglio con i vivi.

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Nel romanzo La donna dal kimono bianco di Ana Johns, si legge: «Come eravamo arrivati a quel punto? Avevamo studiato le terapie più adatte, tentato qualsiasi rimedio domestico, consultato uno specialista, eppure non era bastato. La confusione e il senso di colpa gravavano sulle mie spalle, e mi sentivo schiacciata da quel peso». Il senso di colpa è un’emozione complessa la cui natura intima (quali sono, cioè, i meccanismi grazie ai quali il senso di colpa può essere generato) è ancora in parte misteriosa.

La psicoanalisi, nelle sue varie elaborazioni teoriche, colloca nella prima infanzia, verso i 2-3 anni, la sua genesi, totalmente inconscia e alimentata dalle fantasie aggressive e distruttive che il bambino nutre verso i genitori. A partire dallo stesso periodo e fino alla tarda adolescenza, il senso di colpa viene organizzato nel Super-Io, il quale evolve fino alla compiuta definizione dei concetti di giusto/sbagliato, buono/cattivo, bene/male ecc., che formeranno il sistema valoriale di quell’individuo. Ogni trasgressione a quel sistema, anche solo intenzionale, riattiverà il senso di colpa.

Alcuni autori cognitivisti hanno invece un approccio dualistico al senso di colpa, per il quale esistono due tipi di senso di colpa: quello altruistico, che si prova quando si è convinti di avere avuto una fortuna immeritata rispetto agli altri, e quello deontologico, quando si è convinti di essere la causa di un danno arrecato ad altre persone.

Per quello che riguarda il presente articolo, considererò il senso di colpa come la reazione all’idea di aver causato del male a un’altra persona. Questa convinzione è, durante un lutto, esperienza comunissima, universale direi, anche se declinata in forme e intensità assai diverse.

PERCHÉ CI SI SENTE IN COLPA DURANTE IL LUTTO

Naturalmente, il senso di colpa può essere del tutto svincolato dalla realtà, nel senso che frequentemente ci si sente in colpa per atti mai commessi (omissioni).

Ci si può sentire in colpa per la semplice constatazione di essere ancora vivi e di respirare, di camminare e di continuare a fare le cose che fanno le persone vive. Ci si sente in colpa perché si avverte che questa ottusa vitalità, rispetto alla morte per esempio della persona amata, è una sorta di tradimento nei suoi confronti. I genitori in lutto per la perdita di un bambino sperimentano in modo straziante vari sensi di colpa: per essergli sopravvissuti, per non averlo saputo proteggere, per aver generato un bambino destinato a perire. Questi sensi colpa confluiscono in un devastante vissuto di impotenza, inutilità e incapacità.
I familiari di un suicida dovranno presumibilmente fare i conti per tutta la vita con terribili sensi di colpa: per non aver capito, per aver trascurato, per essere stati qualche volta troppo duri o troppo permissivi. Nel lavoro terapeutico con loro, emerge talvolta come, nel suicida, insieme alla spinta autodistruttiva coesista una terribile carica aggressiva: un finale atto d’accusa rivolto proprio ai familiari.

Il senso di colpa nel lutto può originare da vere e proprie colpe, piccole o grandi, di cui ci si è macchiati nei confronti della persona amata. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di episodi o pensieri che appartengono alla dinamica relazionale costrui­ta negli anni, in piena reciprocità, tra gli attori della relazione. Questo tipo di senso di colpa tende a diluirsi con il passare del tempo e con l’avanzare del processo del lutto: il dolente impara a perdonare e a perdonarsi. 

Non bisogna dimenticare che il senso di colpa è un attributo relazionale estremamente importante, che a volte può trasformarsi in un vincolo che costringe alla paralisi il sistema relazionale. Gli attori di una relazione possono talora alimentare, con condotte manipolatorie, il senso di colpa dell’altro al fine di ottenere un vantaggio nella relazione. Questa manipolazione – lo vedremo – potrà essere sottile e “innocua”, come nel caso di Alberto, più grossolana, come nel caso di Gianni, oppure inconsapevole, come nel caso di Carlo. Quando muore uno dei membri di un sistema che “utilizza” il senso di colpa come strumento sommerso di manipolazione più o meno reciproca, l’elaborazione del lutto sarà certamente piuttosto complessa. Farò alcuni esempi, tratti dalla mia esperienza clinica.

TRE CASI: ALBERTO, ADELE, GINEVRA

Alberto è un cinquantenne giovanile, vedovo da quattro mesi. Katia è morta all’improvviso, per un attacco cardiaco. «Avrei preferito che avesse avuto il cancro», mi dice Alberto. Di fronte alla mia espressione stupita, chiarisce: «Sì, so che sembra una bestialità quello che ho detto, ma, mi creda, è proprio così, lo penso davvero… Il cancro non me l’avrebbe portata via così all’improvviso, ed io avrei potuto assisterla, rassicurarla, dirle quanto l’amavo… non riesco a perdonarmi di non averglielo detto…». Mentre parla, Alberto si commuove e racconta che Katia si lamentava spesso della sua scarsa espansività: «Diceva sempre che ero un musone, che non le facevo mai un complimento, una carineria, che non le dicevo mai di amarla… e pensare che io proprio non so stare senza di lei…». Nel corso del breve percorso terapeutico, Alberto accetterà il fatto che il rapporto con la moglie si era costruito negli anni in quel modo, anzi realizzerà che proprio queste sue caratteristiche di “serietà”, di uomo “tutto d’un pezzo” sono state quelle che avevano attratto Katia.

Il senso di colpa per non aver detto alla persona amata cose molto importanti sul loro rapporto d’amore è tra le emozioni più diffuse, insieme a quella, di segno opposto, di aver detto cose assai spiacevoli in un momento di rabbia, e di non averle potute ritrattare a causa della morte.

Adele è una ragazza di 21 anni, molto esuberante. Vive con la madre separata, Alice, e vede il padre assai di rado. Tra lei e la mamma, come succede spesso tra madre e figlia, c’è un rapporto a volte burrascoso, ma sono pronte dopo ogni litigio a rappacificarsi e a giocare come due ragazzine. Una mattina litigano in modo furibondo a causa dell’abbigliamento di Adele, giudicato troppo disinvolto dalla madre. Volano parole grosse da entrambe le parti. Adele esce di casa sbattendo la porta e va a scuola. Nel corso della mattinata Alice, sola in casa, muore per un attacco cardiaco: nessuno sospettava che avesse problemi al cuore.

Il senso di colpa di Adele rischia di trasformare in patologia psichiatrica il lutto per la perdita della madre. Sarà necessario un lungo lavoro di esplorazione e di ricostruzione del loro rapporto (conflitti anche più intensi di quello della mattina fatale c’erano già stati nella loro storia, senza peraltro determinare alcuna conseguenza cardiaca in Alice) affinché Adele possa accettare che la morte della mamma è stata determinata dalla malattia e non dal loro litigio. Resterà il rimpianto di non averla potuta abbracciare un’ultima volta.

Ginevra si presenta in studio con largo anticipo sull’orario dell’appuntamento. È vestita in modo dimesso e trasmette una vaga sensazione di trascuratezza, pur non essendoci alcun particolare che confermi questa impressione. È una donna minuta, sulla sessantina, che mi dice subito di non riuscire più a dormire di notte: è tormentata dalla convinzione di essere lei la causa della morte di suo padre, deceduto ormai un anno fa. Negli ultimi tempi è molto spaventata perché si accorge dell’insofferenza di suo marito, che non vuole più sentir parlare di quella cosa. Teme che il marito voglia lasciarla. Man mano che il colloquio procede, scopro che Ginevra ha solo 48 anni: è impressionante la patina di vecchiaia che si è fatta calare addosso. È sposata e ha due figli, di 15 e 18 anni. Suo padre, che era divorziato e viveva da solo a poche centinaia di metri da lei, è morto a 75 anni, a causa di un carcinoma gastrico inoperabile e metastatizzato. Il senso di colpa di Ginevra nasce in seguito a un episodio particolare: qualche tempo prima della diagnosi, una mattina il padre le aveva telefonato un po’ in apprensione perché era stato male tutta la notte, con tre o quattro episodi di vomito e forti dolori allo stomaco. Ginevra gli aveva chiesto cosa avesse mangiato la sera prima, se avesse preso freddo, se avesse bevuto del vino, e poi lo aveva tranquillizzato: «Sarà stata un’indigestione, papà; nei prossimi giorni stai riguardato e mangia poco». La sera gli aveva chiesto come andasse e il padre aveva risposto che era tutto passato e che ora stava bene. Ginevra aveva dimenticato l’episodio. Del resto, per qualche tempo ancora, suo padre non aveva riferito di alcun disturbo: era un uomo ancora attivo, con molti interessi e impegnato nel volontariato. Solo verso febbraio a Ginevra apparve evidente che il padre non stava bene, che era dimagrito e aveva un colorito malsano. Si erano succeduti degli esami e infine una diagnosi con prognosi infausta. A quel punto, l’uomo aveva confessato alla figlia di avere avuto altri episodi simili a quello della telefonata, e di non aver mai detto nulla perché non voleva «essere di disturbo».

Da quel momento, Ginevra non ha più pace: si accusa di aver trascurato il padre, di aver sottovalutato quel primo episodio riferitole. Si rimprovera perché, dice, «Se mio padre temeva di disturbarmi, evidentemente è perché io, sempre indaffarata, in qualche modo gli ho mandato il messaggio che non doveva disturbare…».

Qui ci troviamo di fronte al tipico senso di colpa di chi è convinto di non aver fatto tutto il possibile per aiutare la persona cara, aggravato dalla convinzione di essere una «cattiva figlia». Questa emozione nasce in Ginevra dalla errata convinzione che fosse suo dovere occuparsi come una specie di caregiver del padre, che peraltro era un uomo del tutto autonomo e perfettamente in grado di fare le proprie scelte. Saranno necessarie numerose sedute prima che il senso di colpa di Ginevra si attenui e le consenta di ritrovare un modo più equilibrato di vivere il lutto per il padre.

LE STORIE DI GIANNI E DI CARLO

A volte un lutto offre l’occasione per una rilettura salvifica delle proprie relazioni.

Gianni ha 45 anni e da poco ha perso la madre, con la quale viveva. A parte qualche sporadica relazione sentimentale di breve durata, che aveva sempre chiuso lui, Gianni non ha mai avuto un rapporto stabile. Figlio unico, è rimasto orfano di padre a 10 anni per un incidente stradale. Con grande delusione della madre, Gianni ha deciso di interrompere gli studi dopo la seconda superiore per andare a lavorare. Lei avrebbe voluto che lui si laureasse: «Aveva in mente di farmi diventare dottore». Del resto, grossi problemi economici non ne avevano, nonostante la vedovanza: il padre aveva un’azienda e alla sua morte la mamma aveva venduto la propria quota ai soci di minoranza, entrando in possesso di una buona somma. Gianni ha sempre fatto l’operaio elettricista, lavoro che gli piace e del quale non si è mai lamentato. A lamentarsi era la mamma, che a volte, ancora da adulto, lo rimproverava aspramente per le sue scelte lavorative. A volte Gianni si arrabbiava con lei per questa «lamentela infinita», come diceva lui, ma poi alzava le spalle e se ne andava nella sua stanza oppure usciva con gli amici. La signora è morta a causa del riacutizzarsi di una grave patologia di cui soffriva da anni, assistita in tutto e per tutto da Gianni, il quale non ha nulla da rimproverarsi su questo fronte. No, quello che lo fa stare male è una penosa sensazione di indegnità, un acuto senso di colpa per non essere stato un buon figlio.

Appare evidente che Gianni ha per tutta la vita “pagato” quello che forse è stato il suo unico atto di emancipazione: la decisione di non proseguire gli studi. Emergerà poi, nel corso del trattamento, che la mattina del proprio incidente il padre, prima di uscire, gli aveva lanciato a mo’ di saluto un «E mi raccomando, non fare arrabbiare la mamma!»: ahimè per Gianni le sue ultime parole: una sorta di dettato comportamentale da parte del padre, che un bambino di 10 anni, turbato e addolorato per la morte di quest’ultimo, ha ben potuto prendere come un mandato da non trasgredire (anche perché la madre ogni tanto gli intimava: «Ricordati cosa ti ha detto tuo padre!»).

Gianni ha rispettato il mandato finché l’adolescenza non lo ha messo di fronte alla necessità di individuare un proprio modo di pensare a sé stesso e lui non ha preso una decisione, consapevole che avrebbe disubbidito alla prescrizione del padre. La sua emancipazione non era però contro il padre, ma contro la madre, la quale, con il proprio arrabbiarsi oppure no, di fatto deteneva le redini del destino del figlio.

Naturalmente questo tipo di dinamica relazionale non si instaura in seguito a un solo episodio: sono necessari anni di mosse e contromosse tra i vari attori della relazione, in questo caso Gianni e la madre. Entrambi ne escono sconfitti: Gianni, perché incapace di portare avanti la propria ribellione dopo la decisione adolescenziale di non proseguire gli studi, e la madre perché incapace comunque di guidare il figlio in un percorso di autonomia che probabilmente sarebbe stato molto soddisfacente anche per lei. Una volta chiarito da dove proveniva il suo senso di colpa e di indegnità, per Gianni è stato abbastanza semplice conquistare un equilibrio che gli sembrava di non avere mai avuto. Dopo un anno, è andato a convivere con una donna conosciuta durante un’escursione in montagna.

Carlo è un giovane uomo di 27 anni, che da poche settimane ha perso il padre. Chiede di vedermi perché è divorato da un particolare senso di colpa: non ha mai accettato la propria omosessualità, della quale, conoscendo perfettamente l’opinione del padre al riguardo, si vergogna profondamente e non è a conoscenza nessuno. Qualche volta Carlo, anzi, millanta con gli amici e con i genitori delle avventurette senza importanza con qualche ragazza. La vergogna e il conseguente senso di colpa per le proprie inclinazioni sessuali sono pervasivi. Quando il padre, a cui era molto affezionato, muore, Carlo, in modo del tutto inaspettato per lui, anziché dolore prova un profondo senso di liberazione: non ha più paura che la propria omosessualità possa essere scoperta dal padre. Quel senso di colpa viene però sostituito dal senso di colpa per non provare tutto il dolore «che si dovrebbe provare quando muore un padre». Carlo potrà prendere contatto con il dolore da cui si stava difendendo solo nel momento in cui affronterà il complesso tema della propria omosessualità, imparando ad accettarsi e a perdonare il padre per i suoi pregiudizi.

Primo Gelati, psicologo, specializzato in psico-oncologia e in terapia familiare, è docente allo EIST (European Institute of Systemic-relational Therapies) e alla SIMPA (Scuola Italiana di Medicina e Cure Palliative).

Questo articolo è di ed è presente nel numero 284 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui