Enrico Grassi, Pasquale Palumbo

Un approccio neuroestetico alla bellezza

Alcuni esperimenti hanno dimostrato che la bellezza è qualcosa che esiste, tramite i sensi, nonostante le sue svariate manifestazioni artistiche e naturali. In quanto tale, essa è quantificabile

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L’esperienza del bello è sempre qualcosa di più di una semplice affermazione dei sensi. La percezione della bellezza dispone di una dimensione affettiva che viene avvertita soggettivamente come piacere estetico associato a modulazioni cognitive, coinvolgimenti emozionali e conseguenze comportamentali pratiche. In molte lingue il concetto di bellezza non rappresenta solamente la caratteristica centrale di una valutazione estetica, ma contiene già in sé un’accezione positiva.

LA QUESTIONE DEL BELLO

Qualsiasi nostra esperienza, conoscitiva, sociale, amorosa, religiosa, politica, artistica passa attraverso un’attivazione di specifiche aree cerebrali. Oggi, grazie alle tecnologie del neuroimaging, è possibile visualizzare quali zone del cervello si attivano o si disattivano quando un soggetto è impegnato in una qualche attività di quelle sopra esposte.

Quando guardiamo qualcosa che troviamo bello si stimola direttamente il circuito dopaminergico del Reward (il circuito della ricompensa o del piacere; Fig. 1), un circuito filogeneticamente antichissimo su base dopaminergica che si attiva per stimoli edonicamente rilevanti molto diversi fra loro. È una risposta che accomuna stimoli diversissimi, come una pralina di cioccolato che si scioglie in bocca, una sniffata di cocaina, un rapporto sessuale, una vincita di soldi, la visione di un’opera di Michelangelo o l’ascolto di una sonata di Mozart. È un circuito che origina dall’Area Tegmentale Ventrale (VTA) mesencefalica e si proietta tramite lo striato ventrale (nucleo accumbens) fino alla corteccia orbitofrontale (OCF) dopo aver comunicato l’informazione ad altre strutture fondamentali del cervello limbico, quali l’amigdala e l’ippocampo.

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Il cervello, dunque, risponde rapidamente e automaticamente alla bellezza.

Per Platone e per tutta la società dell’antica Grecia, la bellezza è un valore che si approssima assai più al bene che all’arte, riguarda i comportamenti e le azioni assai più che i prodotti artistici; è un’idea che vive al di là di ogni sua incarnazione terrena, alla quale si può ascendere mediante un esercizio di progressiva spiritualizzazione. Questo spiega perché l’attrazione estetica sia alla base anche di un bias cognitivo come quello di giudicare intelligente a prima vista un individuo di bell’aspetto. Quindi, alla bellezza si associa un’idea morale di bontà complessiva, con tutti i risvolti pratici (e inconsci) che ciò comporta (persino sulle decisioni giudiziarie).

Una delle questioni più dibattute in estetica è se la bellezza possa essere definita da parametri oggettivi o se dipenda interamente da fattori soggettivi. Nonostante i criteri soggettivi giochino un ruolo importante nelle esperienze estetiche di ciascuno, oggi sappiamo che esistono dei principi specifici con una base biologica che possono facilitare la percezione del bello. In uno studio del gruppo guidato da Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese la presenza di un parametro specifico, ossia la proporzione aurea, negli stimoli presentati ha determinato delle attivazioni cerebrali diverse da quelle evocate dagli stimoli in cui questo parametro era stato violato (Fig. 2).

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Nel 2011 Semir Zeki, uno dei padri fondatori della neuroestetica, in una ricerca condotta presso il Wellcome Laboratory of Neurobiology dell’University College di Londra (Ishizu e Zeki, 2011) ha dimostrato che il nostro cervello dedica alla bellezza una specifica area che si attiva quando sperimentiamo il piacere di un’opera d’arte pittorica o di un brano musicale. In questo studio su 21 soggetti di culture ed etnie diverse, gli autori hanno valutato una serie di dipinti e di brani musicali classificandoli come «belli», «brutti» o «indifferenti», mentre l’attività cerebrale veniva controllata con una Risonanza Magnetica funzionale (fMRI).

Zeki ha così scoperto che quando i soggetti ascoltavano un brano o visualizzavano un quadro classificati come «belli» si attivava maggiormente un’area nota come field A1 della corteccia orbitofrontale mediale (mOFC). L’attività di questa parte di corteccia è direttamente correlata alla bellezza, quindi quanto più forte è l’esperienza estetica della bellezza, tanto più si attiverà quest’area. In tal modo la bellezza è quantificabile. Questo esperimento ci dice due cose: la prima, che la bellezza è qualcosa di astratto, che esiste al di là delle sue differenti manifestazioni artistiche e naturali attraverso le varie porte dei sensi (come già i filosofi avevano predetto); la seconda, che la bellezza è, appunto, quantificabile.

Di fatto, una venerabile tradizione del pensiero occidentale concorda nell’attribuire alla bellezza i caratteri dell’equilibrio, della proporzione, della misura. Aristotele nella Poetica connetteva il bello agli ideali di grandezza e disposizione regolare tra le parti, mentre nella Metafisica poteva affermare: «Le supreme forme del bello sono: disposizione (táxix), simmetria (symmetría) e il definito (tohorisménon), e le matematiche le fanno conoscere più di tutte le altre scienze».

Lo stesso Zeki (et al., 2014), in una ricerca successiva, ha voluto registrare la reazione del cervello dei matematici quando vedono una formula “bella”. Ha scoperto così che le formule “belle” attivano la stessa area cerebrale, la corteccia orbitofrontale, coinvolta nella fruizione di esperienze estetiche emotivamente coinvolgenti, come la visione di un’opera d’arte. Durante lo studio è stato chiesto a 16 matematici di valutare 60 equazioni secondo una scala di giudizi, da «orribile» a «bella», trovando che tanto più l’equazione veniva giudicata «bella», maggiore era l’attività del cervello nella corteccia orbitofrontale.

Quindi, fondamentalmente, la differenza tra la bellezza matematica e quella musicale o artistica è che la seconda può essere colta da tutti, anche dalle persone che non sono in grado di comprenderle appieno, mentre per cogliere la bellezza matematica bisogna conoscerne il linguaggio.

LA BELLEZZA DEI VOLTI

I volti sono di gran lunga la più importante categoria di riconoscimento di oggetti, perché sono la via principale attraverso cui riconosciamo gli altri individui e persino l’immagine di noi stessi. Per questo il cervello ha un raffinatissimo meccanismo per il riconoscimento dei volti, meccanismo che resiste alla deformazione che avviene nelle caricature o nelle immagini a bassa risoluzione.

La morfologia facciale varia moltissimo nella popolazione umana e ciò è usato per il riconoscimento individuale. L’esistenza di un sistema neurale specifico per le facce è stata suggerita da 3 evidenze sperimentali:

  1. una doppia dissociazione tra il riconoscimento dei volti e il riconoscimento degli oggetti;
  2. l’esistenza di neuroni selettivi per le facce organizzati in aree specifiche;
  3. la presenza di Potenziali Evento-Correlati (ERP) specifici.

Un secolo fa, l’antropologo, esploratore, nonché cugino di Charles Darwin, sir Francis Galton (a cui si deve l’invenzione dell’eugenetica, prima delle sue tragiche derive razziste) mise a punto un sistema fotografico per creare volti grazie alla fusione di più facce reali. Quando Galton produsse i primi visi ibridi fu sorpreso dal fatto che questi fossero ritenuti più belli. Tale osservazione è stata ripetuta e perfezionata utilizzando le moderne tecniche di computer-grafica. Quanto maggiore era il numero dei visi utilizzati per costruire il viso composito, tanto più questo veniva percepito come attraente; al contempo nessuno dei visi reali utilizzati per creare il composito veniva giudicato più attraente del viso composito. Molti ricercatori hanno suggerito che le caratteristiche dei volti rientranti nella media riflettono stabilità nello sviluppo e sono ottimali in termini funzionali soprattutto per la resistenza alle malattie. La normalità è quindi espressione delle qualità positive del partner (Little et al., 2011). Al riguardo, è significativa la diffusa preferenza per i volti di soggetti nati da genitori di razze diverse, che dimostrano un aspetto più sano rispetto agli altri volti; questo è possibile perché i geni si adattano ai diversi ambienti con una maggiore resistenza alle malattie rispetto a quelli di coloro che hanno genitori provenienti dalla medesima razza.

Altre fonti di attrazione in un volto sono rappresentate dalla simmetria facciale come segnale di qualità del partner e dal dimorfismo sessuale (cioè la differenza morfologica tra individui appartenenti alla medesima specie ma di sesso differente), che aumenta con la pubertà, dove i tratti sessualmente dimorfici segnalano la maturità del potenziale riproduttivo del partner.

IL BELLO MUSICALE

La musicalità è un’abilità naturale del cervello umano. Ognuno di noi – anche la persona che non abbia ricevuto una sola ora di educazione musicale – mostra sofisticate abilità nella decodifica dell’informazione musicale che permettono l’acquisizione e la conoscenza di una specifica sintassi e la processazione della stessa informazione al fine della sua comprensione e del suo godimento. Il cervello dei neo­nati, infatti, è già predisposto a elaborare una struttura musicale.

Nel 2001 il gruppo di Montreal di Robert J. Zatorre (Blood e Zatorre, 2001) dimostrò per la prima volta, con un articolo su PNAS, l’attivazione del reward circuit mesencefalico a seguito dell’ascolto di un brano musicale. Lo stesso gruppo leader nella ricerca neuro-musicale dimostrò, dieci anni dopo, con un lavoro (Salimpoor et al., 2011) su Nature che anche nella risposta neurale al piacere musicale (come negli altri tipi di piacere meno astratti, come cibo, sesso o droga) c’erano una fase di piacere appetitivo, “wanting”, legata all’aspettativa che l’ascolto della musica innescava, e una fase consumatoria, “liking”, legata al consumo edonistico del brano, che si manifestava fisicamente in quello che gli autori inglesi chiamano “chills”, i francesi “frissons” od “orgasmi cutanei”, cioè gli indefinibili, impagabili brividi nella schiena che ci invadono all’ascolto, per esempio, dell’Adagetto della Quinta sinfonia di Mahler.

Del resto, nella definizione della musica nell’Encyclopédie, Jean-Jacques Rousseau era stato chiaro: «La musica […] è l’arte di disporre e di condurre i suoni in modo tale che dallo loro consonanza, dalla loro successione e dalle loro durate relative abbiano origine sensazioni gradevoli».

CONCLUSIONI

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Quindi la bellezza oggettiva esiste, fornisce informazioni giudicate affidabili su età, fertilità, salute, e il nostro cervello è ben allenato a riconoscerla. Il giudizio estetico è allora una miscela complessa di fattori genetici, culturali e oggettivi, che hanno avuto bisogno di milioni di anni per evolversi.

La lunga durata e affidabilità di questi criteri estetici è dimostrata dalla rappresentazione della regina Nefertiti; in questo busto custodito a Berlino e prodotto tremilatrecento anni fa, appare bellissima e seducente in virtù di caratteristiche ancora oggi molto attuali: labbra carnose, zigomi alti, occhi allungati.

Come ha scoperto Darwin, il senso degli esseri umani per la bellezza si radica nel contesto biologico della riproduzione e le preferenze estetiche hanno codeterminato in modo decisivo l’intero sviluppo delle forme fisiche nell’insieme del regno degli esseri viventi sessuati. Da quanto abbiamo finora osservato possiamo dire che nell’esperienza del bello non sono in gioco un valore astratto, un piacere raffinato ma superfluo – qualcosa come un lusso di cui si può fare a meno –, bensì almeno una traccia di ciò che si sottrae per essenza ad ogni riduzione: il proprium della dignità dell’essere umano.

 

 

 

Enrico Grassi è coordinatore del Gruppo nazionale di ricerca Neuroestetica della Società Italiana dei Neurologi, Neurochirurghi e Neuroradiologi Ospedalieri (SNO). Lavora nella SOC Neurologia – Ospedale di Prato.

Pasquale Palumbo è direttore della SOC Neurologia – Ospedale di Prato.

 

Bibliografia

Blood A. J., Zatorre R. J. (2001), «Intensely pleasurable responses to music correlate with activity in brain regions implicated in reward and emotion», Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 98 (20), 11818-11823.
Di Dio C., Macaluso E., Rizzolatti G. (2007), «The golden beauty: Brain response to classical and renaissance sculptures», PLoS One, 2 (11).
Ishizu T., Zeki S. (2011), «Toward a brain-based theory of beauty», PLoS One, 6 (7), e21852.
Little A. C., Jones B. C., DeBruine L. M. (2011), «Facial attractiveness: Evolutionary based research», Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences, Jun.
Miller J. M., Vorel S. R., Tranguch A. J., Kenny E. T., Mazzoni P., Van Gorp W. G., Kleber H. D. (2006), «Anhedonia after a selective bilateral lesion of the globus pallidus», The American Journal of Psychiatry, 163 (5), 786-788.
Salimpoor V. N., Benovoy M., Larcher K., Dagher A., Zatorre R. J. (2011), «Anatomically distinct dopamine release during anticipation and experience of peak emotion to music», Nature Neuroscience, 14 (2), 257-262.
Zeki S., Romaya J. P., Benincasa D. M., Atiyah M. F. (2014), «The experience of mathematical beauty and its neural correlates», Frontiers in Human Neuroscience, 8, 68.

 

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 286 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui