Umberto Galimberti

Straniero

“Strano” ed “estraneo”, due parole che oggi qualificano lo “straniero”, qualcuno che riusciamo a tollerare solo se rinuncia alla propria identità originaria.

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Straniero, come scrive il filosofo Hans Jonas, è chi proviene da un altro luogo e a quelli del luogo appare strano, non familiare, incomprensibile. Allo stesso modo, il luogo che lo straniero si trova ad abitare è per lui estraneo e perciò carico di solitudine. Angoscia e nostalgia della patria sono parte del destino dello straniero, che, non conoscendo le strade del Paese estraneo, girovaga smarrito. Se poi impara a conoscerle troppo bene, allora dimentica di essere straniero e si perde in un senso più radicale perché, soccombendo alla familiarità di quel mondo non suo, diventa estraneo alla propria origine. Nell’alienazione da sé l’angoscia sparisce, ma comincia la tragedia dello straniero che, dimenticando la propria estraneità, dimentica anche la propria identità.

Per questo quando sento parlare di “integrazione dello straniero” leggo, sotto queste parole, una sorta di mancanza di rispetto, dato che ciò che allo straniero si chiede è di rinunciare alla sua differenza, in cui affondono le radici della sua identità. Allo straniero si può chiedere senz’altro di ottemperare alle leggi del Paese in cui è giunto, ma non di “integrarsi” rendendosi estraneo alle origini proprie. 

Se lo straniero ha l’esigenza di difendere la propria identità in un contesto dove convivono molte culture, forse la strada da percorrere non è quella della gelosa e unilaterale custodia della propria identità, ma quella del reciproco riconoscimento, una via segnalata da Jürgen Habermas, Charles Taylor e, qui da noi, da Carmelo Vigna e Stefano Zamagni; secondo questi autori è possibile raggiungere il reciproco rispetto e il reciproco sostegno delle rispettive identità culturali alla condizione che «si riconosca non soltanto l’identità originaria (quella intravista dalla tradizione illuministica), ma anche l’identità utopica che guarda a un futuro da compiere, a un destino di buona vita e libertà. Per tutti gli esseri umani e nella loro identità itinerante (storica)».

Si tratta di un’identità itinerante non immune da nostalgia, la quale, rispetto alla depressione, ha acquisito una sua autonomia diagnostica nel 1668 ad opera dello studente Johannes Hofer, il quale nella sua Dissertatio medica de nostalgia ne introdusse il termine, risultante da due parole greche, “nostos” (ritorno) e “algos”
(dolore), impiegate per esprimere il dolore connesso al desiderio di tornare in patria. Il termine ebbe fortuna sia in ambito scientifico – dove fu ripreso da Albrecht von Haller, medico e scienziato considerato, insieme a Lazzaro Spallanzani, il fondatore della fisiologia, e da Philippe Pinel, che in Francia, alla scuola medica di Montpellier e di Parigi, inaugurò la psichiatria scientifica – sia in ambito filosofico, con Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant. Quest’ultimo spostò il riferimento del dolore nostalgico dall’ordine spaziale (la patria, il paese natio, la casa di famiglia) all’ordine temporale, ossia al tempo della giovinezza in cui si sono conosciuti quella patria, quel paese natio, quella casa di famiglia.

Se queste considerazioni hanno una loro plausibilità, io non avrei alcuna difficoltà a condividere l’affermazione che “l’Occidente è una civiltà superiore”, sempre però che sapesse accogliere gli stranieri come “persone” e non solo come “produttori di merci e di servizi”, con una possibilità di circolazione decisamente limitata e comunque inferiore ai beni che producono, per i quali non esistono frontiere. Neppure avrei difficoltà ad accogliere le “radici cristiane dell’Europa”, se trattassimo gli stranieri come vuole il precetto evangelico «Ama il prossimo tuo come te stesso». In assenza di queste due condizioni, mi viene da dire che le radici cristiane si sono rinsecchite e non hanno generato nemmeno un misero arbusto. Se poi la superiorità dell’Occidente la dovessimo misurare sulla sua potenza economica e militare, allora dovremmo concludere che, al pari dei primitivi, anche noi continuiamo ad assumere l’aggressività come misuratore di valore di un popolo, di una nazione, di una civiltà. Nessun passo avanti, come si vede, dall’origine dei tempi. Solo un incremento esponenziale dell’innata e mai attenuata potenza distruttiva.

Ma forse questo cammino non è più perseguibile poiché, per effetto dei processi migratori (che solo coloro che non hanno studiato la storia pensano sia un fenomeno dei nostri tempi), si confonderanno i confini dei territori su cui si orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contamineranno e, se “etica” vuol dire “costume”, è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche, fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine, in favore di un’etica che, dissolvendo recinti e certezze, va configurandosi come etica del viandante che non si appella al diritto, ma alla diversità dell’esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nel «cielo stellato» e nella «legge morale», e che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione. 

Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo, che non siano punti occasionali, il viandante, con la propria etica, può essere il punto di riferimento dell’umanità a venire, se appena la storia accelera i processi di recente avviati, che sono nel segno della de-territorializzazione, dove il “prossimo”, sempre meno specchio di me, e sempre più “altro”, obbligherà tutti a fare i conti con la differenza, come un giorno, ormai lontano nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la proprietà. La diversità sarà il terreno su cui far crescere le decisioni etiche, mentre le leggi del territorio si attorciglieranno come i rami secchi di un albero inaridito.

Fine dell’uomo come l’abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà, del confine e della legge, e nascita di quell’uomo più difficile da collocare, giacché viandante inarrestabile, in uno spazio che non è garantito neppure dall’aristotelico “cielo delle stelle fisse”, visto che anche questo cielo è tramontato per noi.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 270 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui