Anna Oliverio Ferraris

Senza soluzione?

L’odissea di Renato, fin da adolescente catturato dalla droga, senza che genitori e Stato possano far nulla per aiutarlo, a fronte del suo rifiuto di cura. In casi del genere, un primo principio di soluzione sarebbe poter riconoscere una “ridotta capacità di intendere e di volere”.

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Renato ha cominciato a drogarsi nel cortile della scuola, su sollecitazione di un compagno, Sergio, che poi ha fatto carriera come spacciatore. Prima lo spinello, poi l’ecstasy, infine il crack. Gli piaceva, le prime volte, quell’atmosfera di proibito e di trasgressivo che si creava tra loro. Si appartavano in un angolo nascosto del cortile e insieme consumavano quello che Sergio riusciva a procacciarsi, allora sottraendolo a suo padre, che era un estimatore delle cosiddette droghe leggere. «Mio padre dice che dalla vita bisogna saper prendere il meglio», era il leitmotiv di Sergio. 

La prima volta era stato lui a passare il suo spinello, già acceso, a Renato. Ben presto questi aveva imparato a portare del denaro da casa affinché l’amico gli procurasse «qualcosa di veramente eccitante».

«Qualcuno dice che fa male, ma sono tutte balle. Basta non esagerare. Non avrai mica paura?», lo aveva provocato Sergio quella prima volta, e lui, un po’ per amicizia, un po’ per curiosità, un po’ per non sembrare un fifone, aveva accettato. Aveva subito avuto sensazioni fisiche molto piacevoli e per alcune ore il suo umore si era completamente trasformato: da introverso e vagamente melanconico, come era lui quasi sempre, era diventato ciarliero al limite della spavalderia. Tanto che in classe, durante un’interrogazione per cui si era offerto volontario, l’insegnante di Lettere, colpita dall’insolita disinvoltura, si era congratulata – «Bravo, Renato, ti vedo preparato e sicuro!» – e lo aveva premiato con un bell’8, un voto che fino a quel momento Renato mai aveva preso in quella materia. Così, quando Sergio gli propose di ripetere l’esperienza non se lo fece dire due volte.

A cinque anni di distanza, Sergio spaccia tra i suoi coetanei droghe sia leggere che pesanti e Renato è ormai diventato un tossicodipendente incapace di fare a meno della dose giornaliera. Per procurarsela è pronto a tutto, da rubare in casa a prostituirsi in incontri occasionali con uomini, lui che non ha mai mostrato alcuna inclinazione omosessuale. La poca argenteria che c’era in casa è sparita e con essa anche un prezioso servizio da caffè in porcellana perlata bavarese e due tovaglie di pizzo ricamate a mano dalla bisnonna, cui la mamma era molto affezionata. E quando i genitori si rifiutano di dargli il denaro per procurarsi la droga, lui reagisce con urla, insulti e minacce.

Papà e mamma non riconoscono più in Renato il figlio affettuoso, docile e obbediente che avevano adottato all’età di 4 anni e con il quale, per tutta la sua infanzia, avevano avuto una vita serena, costellata di tante gioie e soddisfazioni. Renato, pensoso e riflessivo, cresceva come gli altri bambini. Era il loro unico figlio e gli volevano un gran bene. Ora, distrutti, si chiedono in cosa hanno sbagliato, ma non riescono a darsi una risposta. 

Fin dall’inizio il bambino si era rivelato sensibile e portato per la musica, tant’è che avevano deciso di coltivare quella sua inclinazione facendogli studiare chitarra classica. Tutto era andato a gonfie vele fino a quando, intorno ai 17 anni, Renato non aveva smesso improvvisamente di suonare e pure di studiare. Non era mai stato un ragazzo gioioso, ma ora aveva degli alti e bassi inspiegabili. Da principio papà e mamma non capirono quell’improvviso cambiamento di rotta e lo attribuirono a uno sbandamento temporaneo tipico degli anni adolescenziali; quando poi si accorsero che fumava spinelli e si faceva di crack, cercarono di dissuaderlo con le buone maniere: facendolo ragionare, spiegandogli a cosa stava andando incontro, a come stava rovinando la vita sua e di loro stessi. Lo inviarono da uno psicologo cognitivista, il quale fornì una serie di spiegazioni, logiche e plausibili, connesse anche all’adozione, che in adolescenza può essere vissuta da alcuni come un vuoto da colmare; ma non riuscì a tirarlo fuori dalla dipendenza dalla droga, ormai già ben consolidata.

Dopo i furti in casa e gli innumerevoli tentativi di convincerlo a trovarsi un lavoro, a non trascorrere le notti fuori casa insieme ad altri tossici e a tornare a un tipo di vita accettabile, i genitori, sperando di renderlo responsabile e di far leva sul suo senso di dignità, gli tolsero le chiavi di casa e non gli aprirono più la porta quando Renato cercava di rientrare fra le 3 e le 4 del mattino. Questa strategia, però, ebbe il solo effetto di rendere sempre più conflittuali e rabbiosi i rapporti fra loro. La madre cominciò a deprimersi e il padre a disinteressarsi.

Il ragazzo non modificò il suo stile di vita e quando trovava la porta chiusa cercava freneticamente ospitalità da conoscenti, non sempre propensi ad accoglierlo, soprattutto nelle ore notturne. 

Inserire Renato in una comunità terapeutica per tossicodipendenti divenne allora l’obiettivo dei genitori, che speravano che il giovane rispettasse le regole e vi rimanesse fino alla guarigione, o quantomeno fino al raggiungimento di una condizione più gestibile. Egli, tuttavia, nonostante le promesse e i buoni propositi, sentiva il forte richiamo del suo ambiente e degli amici dediti alla droga, così, essendo maggiorenne, prese a decidere, senza preavviso, di abbandonare la comunità per tornarsene a casa. 

Col passare del tempo gli effetti delle droghe pesanti e dei farmaci tranquillanti utilizzati per far fronte alle sue crisi avevano lasciato tracce permanenti sul suo cervello che lo portavano a uno stato quasi soporifero e a comportamenti di distacco. Tornando in famiglia ricominciava poi l’inferno di sempre, tanto che come extrema ratio capitava che fossero i genitori ad andarsene di casa.

Quello di Renato non è un caso isolato, bensì emblematico. Purtroppo, come lui ce ne sono molti altri che a un certo punto lasciano la comunità che li ospita, sia per il desiderio di riacquistare la propria indipendenza sia per andare alla ricerca della droga. In quanto maggiorenni, questi giovani tossicodipendenti non possono essere trattenuti in comunità contro la loro volontà. Le famiglie non sono in grado né di curare il figlio né di fronteggiarlo nei momenti di crisi. Il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) lo prende in carico per qualche giorno, poi lo lascia alla sua vita di prima. 

Di fronte a casi del genere, ci si domanda se la legge non potrebbe contemplare uno stato di “ridotta capacità di intendere e di volere”, simile a quella di un minorenne, tale da consentire un congruo periodo di permanenza in una comunità o casa famiglia e da evitare, così, “fughe” improvvise che rappresentano un pericolo per l’incolumità di Renato e uno stress insostenibile per i suoi genitori.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 270 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui