Paola A. Sacchetti

Se il bullismo lascia segni indelebili

Per molti ragazzi vittime di bullismo, gli anni della scuola sono stati un incubo, però da adulti sono riusciti a trovare un equilibrio e un proprio posto nel mondo. 

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Ma davvero ne sono usciti “incolumi”? E se gli anni di angherie e soprusi avessero lasciato “segni” indelebili? È noto da tempo che subire atti di bullismo determina nelle vittime conseguenze nel lungo periodo, tra cui bassa autostima, scarso senso di autoefficacia, difficoltà relazionali, un rischio maggiore di sviluppare ansia e sintomi depressivi. Ma non solo: i ripetuti atti di bullismo subiti potrebbero aver determinato dei veri e propri cambiamenti a livello di struttura cerebrale. È quanto emerge dal recente studio condotto dai ricercatori del King’s College di Londra, il primo a dimostrare che la vittimizzazione cronica durante l’adolescenza può avere un impatto sulla salute mentale attraverso alterazioni strutturali cerebrali. 

L’équipe guidata da Erin Burke Quinlan ha analizzato i dati raccolti su 682 adolescenti tra i 14 e i 19 anni provenienti da Inghilterra, Irlanda, Francia e Germania, che partecipavano alla ricerca longitudinale IMAGEN, il cui scopo era valutare lo sviluppo del cervello e la salute mentale degli adolescenti. I ragazzi hanno risposto a una serie di questionari per rilevare alcuni indici di benessere e salute mentale, tra cui i livelli di ansia, depressione, iperattività, e sono stati sottoposti a scansioni cerebrali a 14 e 19 anni; inoltre hanno compilato, a 14, 16 e 19 anni, un questionario sul bullismo, per rilevare se ne fossero vittime, con quale frequenza e gravità.

I dati hanno mostrato che 36 ragazzi del campione avevano subito bullismo cronico, cioè quotidiano o quasi, negli anni dell’adolescenza. I ricercatori hanno quindi associato le traiettorie di vittimizzazione individuate nei 36 soggetti e le variazioni del volume cerebrale con i livelli di depressione, ansia generalizzata e iperattività rilevate a 19 anni. Dai risultati è emerso un più alto livello di ansia generalizzata a 19 anni nelle vittime rispetto agli altri; inoltre, quei ragazzi avevano dimensioni ridotte in due regioni del cervello – il nucleo caudato sinistro e il putamen sinistro – che risultavano significativamente più piccole rispetto alle scansioni fatte a 14 anni e la cui riduzione era associata negativamente al livello di ansia (per cui, più era elevata l’ansia, minore era la dimensione cerebrale). Tali aree non sono mai state associate direttamente ai sintomi ansiosi, tuttavia, secondo gli autori, probabilmente contribuiscono a regolare comportamenti correlati, come la motivazione, la sensibilità alla ricompensa, l’attenzione e l’elaborazione emotiva.

Lo studio non ha risposte, per ora, sulla stabilità o reversibilità di tali cambiamenti: sono necessarie ulteriori indagini, seguendo i ragazzi fino all’età adulta per verificare se la riduzione delle aree sia permanente ed esaminare le variazioni nell’attività cerebrale, che potrebbero spiegare i meccanismi tramite cui il bullismo cronico agisce sulla salute mentale, e se gli effetti persistono qualora le modifiche strutturali fossero fermate o invertite. Ma, prima e oltre a nuovi studi, è essenziale aumentare gli sforzi volti a impedire il bullismo o a intervenire appena viene identificato. Prevenire è meglio che curare: agire su questi aspetti è di certo più semplice che cercare di invertire i cambiamenti cerebrali anni dopo, quando potrebbero aver già minato seriamente il benessere e la salute mentale delle giovani vittime.

Quinlan E. B., Barker E. D., Qiang L. et al., IMAGEN Consortium (2018), «Peer victimization and its impact on adolescent brain development and psychopathology», Molecular Psychiatry, 12 december, doi: 10.1038 / s41380-018-0297-9

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