Fabio Giovannelli, Massimo Cincotta

Quanto siamo consapevoli delle nostre intenzioni?

Siamo abituati a pensare che sia un’intenzione deliberata a determinare il compimento di un’azione, ma le moderne neuroscienze mettono in discussione questa concezione. Con importanti conseguenze sulla gestione dell’impulsività

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La capacità di decidere consapevolmente se e quando compiere un’azione è un aspetto fondamentale della vita di relazione dell’essere umano. L’idea che sia la volontà cosciente di un individuo a determinare e causare una specifica azione è fortemente radicata nel senso comune. Per esempio, se in questo momento sento l’esigenza di chiamare al telefono un amico, ed effettivamente compio quest’azione, posso pensare che la mia azione sia stata determinata dalla mia libera volontà di compierla. Da qui l’idea che sia un’intenzione deliberata a dare avvio a tutti quei processi neurali responsabili della preparazione e dell’esecuzione dell’atto volontario. Questa concezione è stata messa in discussione dalle moderne neuroscienze; è infatti disponibile un’ampia letteratura che mostra come l’attività cerebrale associata a un’azione volontaria preceda l’esperienza cosciente dell’intenzionalità di un’azione. Dunque il nostro agire sembrerebbe essere il frutto di processi inconsci che si sviluppano prima dell’emergere della consapevolezza. La volontà cosciente potrebbe quindi riflettere una ricostruzione retrospettiva.

Il capovolgimento nella concezione della relazione temporale che intercorre tra le intenzioni coscienti e l’attività neurale correlata all’atto volontario è stato possibile grazie a uno studio pionieristico pubblicato quasi 40 anni fa dal neurofisiologo Benjamin Libet, un lavoro che rappresenta un classico delle neuroscienze. In quello che è ormai noto come il “paradigma dell’orologio”, si chiede a una persona di compiere un’azione semplice (per esempio, flettere un polso o premere un tasto) ogni volta che vuole, facendo in modo che questo movimento sia il più possibile spontaneo e non programmato in anticipo. Nel frattempo il soggetto osserva il quadrante di un orologio sul quale ruota una lancetta che impiega 2.56 secondi per completare ogni giro (nello studio originale si trattava di un punto luminoso di un oscilloscopio). Una volta eseguito il movimento, viene chiesto al soggetto di riferire la posizione della lancetta relativa all’istante nel quale ha avvertito l’impulso a eseguire il movimento (ossia l’instante in cui è divenuto consapevole dell’intenzione di compiere il movimento stesso). In una condizione distinta, viene chiesto di riferire la posizione della lancetta nel momento in cui il movimento è stato effettivamente compiuto. Il tutto avviene mentre si registra, mediante un elettroencefalografo, l’attività cerebrale rappresentata dal cosiddetto Bereitschaftspotential, o potenziale di prontezza, un potenziale di preparazione del movimento descritto per la prima volta non molti anni prima dello studio di Libet. Il risultato caratteristico di questo paradigma sperimentale (illustrato nella figura) è che l’inizio del potenziale di prontezza precede l’istante in cui il soggetto riferisce la consapevolezza dell’intenzione motoria. Dunque l’azione viene preparata in modo non cosciente da aree specifiche a ciò predisposte, prima che i sistemi cerebrali relativi alla consapevolezza dell’intenzione siano attivati.

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Questo articolo è di ed è presente nel numero 286 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui