Giorgio Nardone, Vittorio Porpiglia

Quando le terapie e i terapeuti creano dipendenza

Una galleria di tipologie di psicoterapeuta in cui tratti di personalità e caratteristiche relazionali di quest’ultimo squilibrano il rapporto con il paziente.

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L'antica regola benedettina indica che «errare è umano, perseverare è diabolico». Se quanto affermato fosse vero, la maggioranza degli esseri umani dovrebbe essere considerata diabolica, visto che tutti noi di frequente perseveriamo nei nostri errori, anche se ciò avviene ogni volta sulla base della convinzione di essere nel giusto. I terapeuti, purtroppo, in qualità di esseri umani non sono immuni dall’errore e soprattutto dalla diabolica tendenza al perseverare nell’errore con la convinzione di operare nel modo migliore. Naturalmente va sottolineato che l’errore è umano e che anche il terapeuta può fallire. Al di là delle differenze spesso evidenti fra modelli terapeutici, le caratteristiche personali e relazionali del terapeuta nella loro interazione con quelle del paziente rappresentano un elemento cruciale per l’efficacia della terapia, così come per il suo fallimento.

Nel presente articolo vogliamo tracciare ironicamente il profilo di alcune usuali tipologie di terapeuta, stilato sulla base delle caratteristiche di comunicazione e di atteggiamento assunte da chi si erge al ruolo di curatore dei disagi altrui. Questa classificazione, è ovvio, non dev’essere considerata esaustiva delle infinite possibilità di relazione esistenti nel contesto della comunicazione umana. Ciò nondimeno, con le tipologie che seguiranno riteniamo di poter descrivere gran parte degli stili personali rinvenibili all’interno delle categorie dei cosiddetti “terapeuti della mente”. Resta inteso che, talvolta, una persona può interpretare contemporaneamente o in diversi spazi temporali più d’uno dei ruoli che andiamo a esporre. 

IL CONSOLATORE
Se entrate nello studio del vostro dottore e vi ritrovate di fronte una persona con un atteggiamento serio ma caldo e compassionevole, la quale conduce poi un colloquio teso a far emergere gli aspetti più sofferenti della vostra vita, offrendovi il suo calore e la sua disponibilità accompagnata da buoni e confortanti consigli, allora non vi è dubbio: siete in presenza di un terapeuta consolatore. In effetti, la forma forse più antica di terapeuta dell’anima e della psiche è rappresentata dalla figura di colui che consola l’altro riguardo ai suoi malanni e sfortune.  Comunque, l’attitudine alla consolazione, intesa come sostegno affettivo ed emotivo, è una caratteristica che può essere trovata non solo in ambito terapeutico, ma in seno a qualunque tipologia di relazione affettiva: genitori-figli, marito-moglie, fra amici, spesso tra appartenenti a gruppi di opinione, talora anche fra sconosciuti. Ma quello che non deve sorprendere è che l’attitudine alla consolazione è una caratteristica naturale propria di molte specie animali, e non solo dell’uomo.

Ciò non ne sminuisce certo la talvolta importante funzione terapeutica. Purtroppo, però, ogni medaglia ha il suo rovescio. Nel caso del comportamento consolatorio sussistono conclamate controindicazioni che derivano dall’esperienza empirica in campo clinico. Per esempio, nel caso di una persona depressa, un atteggiamento consolatorio e un comportamento protettivo divengono il modo migliore per alimentare tale disturbo e per incrementare una relazione di dipendenza. Questo perché la persona impara presto che, grazie al suo disturbo, ottiene tutte quelle attenzioni e affettuosità che la fanno sentire finalmente importante e che probabilmente senza la sintomatologia verrebbero meno. Pertanto un terapeuta che assume il ruolo di consolatore può dapprima gratificare il paziente, ma nel prosieguo del trattamento rischia, nella maggioranza dei casi, di diventare complice della patologia che dovrebbe risolvere, alimentando dinamiche di dipendenza.

IL CONFESSORE
Se il vostro terapeuta tende a scavare nei vostri segreti più intimi mettendo in risalto le vostre perverse e colpevoli fantasie, e con atteggiamento inquisitorio ascolta le vostre più nascoste e trasgressive immaginazioni, allora siete di fronte a un terapeuta confessore. Nietzsche affermava nella Gaia scienza che i «migliori psicologi sono i preti». Egli si riferisce, specificandolo in altre parti della sua opera, all’esercizio dell’arte della confessione, per la quale i maestri del culto vengono addestrati. È fuori di dubbio che il ruolo e l’atteggiamento di ascoltatore attento e indagatore in relazione ai profondi segreti e alle debolezze dell’animo umano rappresentino un’importante strategia di potere relazionale e qualche volta di sostanziale effetto terapeutico. 

Ma anche in tal caso c’è il rovescio della medaglia: questo è il caso soprattutto delle forme acute di sintomatologia psicologica quali i disturbi fobici, quelli ossessivo-compulsivi e quelli alimentari, nei quali una terapia basata sulla confessione non solo tende a costruire un legame di dipendenza tra paziente e terapeuta, ma, mancando di intaccare minimamente i gravi disturbi menzionati, ne diviene anche complice, poiché il paziente teme di perdere una relazione così intensa con il terapeuta nel caso in cui dovesse migliorare o guarire. Pertanto va tenuto presente che la guarigione dai propri disturbi non è necessariamente l’espiazione delle proprie colpe presunte.

L’AMICO A PAGAMENTO
Questa, purtroppo, è una tipologia usuale di terapeuta, sia psichiatrico che psicologico, dotato della principale caratteristica di porsi nei confronti del paziente in maniera affettuosamente amicale. Egli di solito assume un atteggiamento non formale, piuttosto dimesso, è caldo nella relazione, si pone al paziente evitando ogni atteggiamento che connoti in modo formale l’esercizio del suo ruolo. Il “dottore della mente” che assume tale ruolo, in realtà, non avrebbe bisogno di alcun training: sono sufficienti attitudine all’ascolto, disponibilità umane e un po’ di senso comune. 

Infatti, questa tipologia di terapeuta usualmente offre consigli che facilmente la persona potrebbe trovare in qualunque amico dotato di buon senso. La differenza risiede nel fatto che uno possiede un’etichetta di ruolo e l’altro no. Con tutto ciò non vogliamo certo dire che questo tipo di ruolo non produca alcun effetto terapeutico; anzi, agli studiosi dei processi di comunicazione e dell’efficacia delle terapie, è ben noto che un 40% circa dell’effetto della maggioranza delle terapie – e in particolare di quelle relative ai disturbi psichici e comportamentali – risiede nel ben noto “effetto placebo”. Questo sta significare che un terapeuta che assume un ruolo amicale e offre disponibilità umane e consigli talvolta banali al proprio paziente, già solo per il fatto di avere l’etichetta di terapeuta e di incontrare il paziente che giunge con le proprie aspettative riguardo alla terapia, di per sé produce effetti terapeutici. Ovviamente, ciò vale tanto più quanto meno è severo il disturbo presentato del paziente. Così come l’effetto placebo è tanto più forte quanto meno forte è il disturbo.

L’AUGUZZINO
Una tipologia non troppo rara di “dottore della mente e del comportamento” è quella della persona che prova un sottile piacere nell’esercizio del proprio potere. E quanto più sente che tale potere sugli altri può essere forte, tanto più ne ricava gratificazione. «Il potere corrompe», indicava un vecchio adagio, soprattutto chi in precedenza non ha potuto esercitarlo. 

Questa tipologia di dottori, al contrario di quella precedente, è ben identificabile, per il suo stretto attenersi agli aspetti formali del ruolo esercitato. Il terapeuta aguzzino mette in risalto tutto ciò che può esaltarne il potere e la desiderabilità, dall’abbigliamento al modo di porsi, formale e distaccato. Elabora diagnosi certe e definitive, ergendosi a colui che sa tutto. Evita qualunque forma di disponibilità, di contatto emotivo con il paziente, a meno che questo non sia un mezzo per confermare la propria desiderabilità. Egli si irrita e si irrigidisce di fronte al paziente difficile che mette in crisi il suo ruolo; e lavora invece molto bene con il paziente osservante e acquiescente, che esalta il suo status.

Di conseguenza, il paziente può trovarsi avviluppato in una relazione di ambigua e talora paradossale dipendenza all’interno della quale, al tempo stesso, può sentirsi consolato e rimproverato, esaltato e squalificato, autonomizzato e coercizzato, desiderato e rifiutato, amato e odiato ecc. 

IL SANTO-MISSIONARIO
All’opposto esatto del terapeuta-aguzzino possiamo trovare il terapeuta-santo. Costui (o costei) ha la passione per il martirio e il suo senso del sacrificio viene prima di ogni altra cosa. Questa tipologia di dottori, non troppo frequente ma nemmeno troppo rara, è rappresentata da quei terapeuti che sono completamente abnegati ai propri pazienti. Tali persone vivono la propria professione come una sorta di missione mistica nella quale gettarsi completamente. Il “santo” dedica ore ad ogni paziente, può essere chiamato a tutte le ore del giorno e della notte, si reca a casa dei pazienti, nel loro luogo di lavoro o dovunque gli venga richiesto.

Questa è sicuramente la categoria di terapeuti più amata dai pazienti, poiché la loro disponibilità e pazienza appare infinita. Purtroppo, però, il “santo” spesso si coinvolge così tanto nei problemi dei pazienti da perdere il reale potere terapeutico. L’atto del curare non presuppone affatto la sofferenza congiunta di dottore e paziente. È già abbastanza quella del paziente. 

Il terapeuta-santo, a prescindere dalla specifica terapia utilizzata, produce in buona parte dei pazienti notevoli miglioramenti, ma, nei confronti di patologie psichiche e comportamentali particolarmente ammorbanti o di pazienti con atteggiamenti ricattatori, manifesta chiaramente il suo limite e la sua controindicazione. Inoltre la più marcata controindicazione per il ruolo del “santo” è nei confronti degli stessi terapeuti, i quali rischiano seriamente di entrare nel burn-out, cioè in una grave forma di stress da esercizio esasperato di una professione di aiuto, che conduce alla manifestazione di pesante sintomatologia psicosomatica e comportamentale. È questo il caso del dottore che si ammala della propria cura. È chiaro che tale tipologia di rapporto induce a una relazione di dipendenza reciproca fra paziente e terapeuta. 

IL PROFETA
Nella composita schiera delle tipologie personali di terapeuta è presente anche colui che si sente il portatore prediletto di una verità: il profeta della terapia. È la persona che esercita la sua professione con il doppio ruolo di curare e di indottrinare i pazienti o i suoi proseliti al suo eccelso sapere. Anzi, il profeta-terapeuta spesso è molto più attento all’indottrinamento diretto e alla costituzione di un vasto gruppo di fedeli alla sua verità che agli effetti dei suoi interventi terapeutici. Ciò, il più delle volte, non per una deliberata scelta di noncuranza terapeutica, ma per il fatto che è talmente preso dal suo ruolo di predicatore della dottrina da divenire cieco su tutto il resto, compreso quello che sarebbe il ruolo richiestogli dai pazienti arrivati da lui per farsi curare.

Di profeti della terapia ne possiamo trovare di differenti, e talvolta dalle forme pittoresche. Per esempio il “santone spirituale”, il quale si sente prediletto da un qualunque dio nell’esercizio del proprio ruolo. Oppure lo “scienziato” che ritiene di avere scoperto i segreti dell’organismo umano e che, puntualmente, trova conferma di ciò nell’acquiescenza dei pazienti alle sue idee. Egli riconduce qualunque eventuale miglioramento della loro condizione al potente effetto del suo intervento, anche quando esso, in realtà, non ha nulla a che vedere con lui e con le sue cure. Del resto, lui per primo ha bisogno di confermare a sé stesso l’importanza delle proprie teorie. La costante che si osserva in tale tipologia di terapeuta è il continuativo e diretto sforzo di indottrinamento esercitato nei confronti di chi si rivolge alle sue cure. Anche qui, il rischio maggiore è quello di creare una relazione di forte dipendenza. 

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CONCLUSIONI

In sintesi, si può affermare che lo stile particolare del ruolo esercitato dallo psichiatra e dallo psicoterapeuta, sulla base delle proprie caratteristiche personali, nelle sue varianti esposte, manifesta una marcata influenza sull’esercizio dell’attività terapeutica. Sovente la persona che si rivolge a un “dottore della mente”, senza rendersene conto, fa le spese di tale realtà. Un buon dottore dovrebbe, elasticamente, giocare tutti e nessuno di questi ruoli, a seconda del momento e delle necessità del paziente. Probabilmente, egli dovrebbe anche svolgere qualche ruolo ulteriore, come per esempio quello attivo del persuasore, secondo quanto riferisce J. D. Frank, noto studioso dei processi di guarigione, nel suo articolo del 1974 «Therapeutic components of psychotherapy»; o quello del seduttore intellettuale carismatico e affascinante, secondo quanto suggerisce qualche altro autore. 

Appare dunque evidente come un terapeuta esperto debba essere al contempo scienziato e artista, rigoroso esecutore e creativo performer. La terapia non è mai la mera ripetizione di un protocollo; mai può essere la rigida replica di fredde procedure all’interno di una sequenza prefissata, bensì una continua interpretazione “artistica” di un copione drammatico ove l’improvvisazione non è una eccezione ma la regola. 

Ma per sapere improvvisare bene, come ci insegnano tutti i grandi artisti, prima bisogna padroneggiare la tecnica. Senza un apprendimento tecnico assai raffinato, l’improvvisazione è solo irresponsabile incoscienza.

 

Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzla-wick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.

Vittorio Porpiglia è psicologo e psicoterapeuta, ricercatore e docente associato del Centro di Terapia Strategica di Arezzo.

Riferimenti bibliografici 
Frank J. D. (1974), «Therapeutic components of psychotherapy: A 25-year progress report of research», Journal of Nervous and Mental Disease, 159 (5), 325-342.
Nardone G. (1994), Manuale di sopravvivenza per psico-pazienti, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone G., Milanese R. (2018), Il cambiamento strategico. Come far cambiare alle persone il loro sentire e il loro agire, Ponte alla Grazie, Milano.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 273 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui