Moira Chiodini, Patrizia Meringolo

Quando la comunicazione promuove resilienza

La resilienza non è una capacità innata, può essere costruita: non solo grazie alle relazioni supportive, ma anche per mezzo della loro percezione. Ecco perché la comunicazione è parte di questo processo.

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Parlare di resilienza crea sempre qualche imbarazzo in virtù della difficoltà a darne una definizione chiara e certa. Da una parte è sempre più attuale – basti pensare che il termine compare anche nel nome del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” che dovrebbe guidare gli interventi per superare e affrontare le conseguenze economiche e sociali causate dal Covid-19 –, dall’altra è sempre più soggetta a interpretazioni differenti.

Dal nostro punto di vista la resilienza non è una condizione, o una caratteristica individuale, ma piuttosto un processo (Vaillant, 1993). Resilienti non si nasce, ma si diventa in virtù dell’esperienza, e non è una competenza che si acquisisce una volta per tutte. A differenza della resistenza e del recovery, permette di generare valore e capacità in virtù dell’esperienza traumatica o di difficoltà affrontata, attraverso l’uso flessibile delle strategie di coping nelle diverse circostanze (Bonanno, 2004; et al. 2010).

Se la comunità scientifica non presenta una definizione univoca di resilienza, appare evidente come nell’opinione pubblica l’immagine ad essa associata sia ancora più varia, se non addirittura contraddittoria. Le parole che utilizziamo per descrivere la resilienza possono far ritenere, per esempio, che questa sia una capacità individuale innata, sottostimando, così, l’importanza delle risorse individuali e collettive al fine di incrementare una risposta adattiva. La rappresentazione sociale che diamo della resilienza influenza i comportamenti e orienta l’azione.

PAROLE CHE APRONO OPPORTUNITÀ

Iniziamo il nostro viaggio sul rapporto fra resilienza e comunicazione con il primo studio che ha tracciato la rotta per la comprensione della resilienza.

Nel 1955 Emmy Werner e Ruth Smith iniziarono uno studio sperimentale e pionieristico su 700 bambini dell’isola di Kua. I bambini vennero divisi in due gruppi: uno a basso rischio, in cui i minori appartenevano a famiglie stabili, e uno ad alto rischio, in cui le famiglie potevano presentare difficoltà sociali, economiche o disagi quali l’alcolismo di uno dei genitori. Lo studio longitudinale, durato oltre quarant’anni, portò le due studiose ad utilizzare, per la prima volta, il termine “resilienza” per riferirsi alle caratteristiche di quei bambini, ormai divenuti adulti, che nonostante le condizioni di svantaggio e di disagio avevano mostrato una traiettoria di sviluppo sano, costruendosi una vita equilibrata e soddisfacente. A 40 anni avevano una buona qualità della vita, un lavoro, e nessuno di loro era disoccupato o aveva bisogno di rivolgersi ai servizi sociali. Le studiose misero in evidenza come cruciale fosse stata la presenza di legami di vicinanza e di una relazione di interessamento sincero. Tale relazione aveva, infatti, rappresentato un fattore protettivo formidabile contro il disagio. Per la prima volta si inizia a intravedere come la possibilità di riprendere il controllo della propria vita e del proprio destino sia facilitata dalla presenza di una relazione di vicinanza emotiva. Anche se tale relazione non può essere esperita all’interno della famiglia, con i propri genitori, altre figure adulte possano svolgere questo ruolo significativo: nonni, vicini di casa, insegnanti (Werner e Smith, 1982).

In uno dei suoi testi (2005) Cyrulnik evidenzia come i bambini possano soffrire non tanto per la situazione di svantaggio, a volta anche molto estrema, quanto per le parole che vengono utilizzate per riferirsi alla loro condizione. Affermazioni troppo perentorie rischiano di cristallizzare il bambino nell’identità di maltrattato, pesando come un macigno sul suo futuro, e non consentendo al passato di restare nel passato. Le parole che promuovono resilienza, viceversa, devono aprire nuove opportunità, evitando la creazione di vicoli ciechi o di strade da cui non è possibile scostarsi. Il grande studioso Heinz von Foerster (1987) chiamava imperativo etico proprio la necessità di «agire per aumentare sempre le possibilità di scelta».

Nel celebre caso dell’«uomo di febbraio» Milton Erickson (1992) racconta come in ipnosi abbia creato, nella memoria di una sua paziente, la figura di un uomo, appunto l’uomo di febbraio, che, come una sorta di zio, diviene una presenza costante nella vita della donna. Grazie a tali ricordi le viene data la possibilità di sperimentare un legame di vicinanza che, con i suoi genitori, le era stato precluso. Fare esperienza di un legame e di una relazione significativi è fondamentale affinché la persona possa sviluppare le proprie abilità di coping, la propria autostima e resilienza. Non si tratta di giudicare se la relazione sia effettivamente e oggettivamente supportiva, quanto se sia percepita e vissuta come tale.

Diversi studi, sia della psicologia sociale e di comunità sia clinici, hanno messo in evidenza come la comunicazione sia una parte del processo di resilienza. Attraverso il linguaggio che utilizziamo con noi e con gli altri possiamo creare uno scenario di possibilità in cui la persona si muove all’interno di confini flessibili, in cui nulla è deterministicamente definito. Come ci ricorda Aldous Auxley, «La vita non è quello che ci accade, ma ciò che facciamo con ciò che ci accade». Tali parole, più di ogni ragionamento, ci permettono di comprendere e di sentire che nonostante ciò che ci capita abbiamo sempre la possibilità, e forse il dovere, di scegliere.

NON SCUDI MA SPRONI

Certamente tale opportunità non è indolore, ma la sofferenza non può essere considerata una malattia da combattere o un pericolo da rifuggire. I termini “dolore”, “sofferenza”, “malattia”, “morte” per tanto tempo sono stati banditi dai discorsi pubblici e privati, nel vano tentativo di cancellarne l’esistenza solo evitando di pronunciarne il nome. I modelli di famiglia attuali (Nardone, 2012; Nardone et al., 2001) sono sempre più caratterizzati da uno stile comunicativo e relazionale di tipo protettivo, in cui i genitori si specializzano nel divenire scudi contro ogni avversità e dolore del figlio. Se proteggere è uno dei compiti dei genitori, l’iperprotezione, spesso conseguente all’incapacità emotiva di sostenere la sofferenza del figlio – per piccola che sia – diviene il terreno su cui crescono fragilità e infelicità. Paradossalmente proprio il tentativo di proteggere i figli dal dolore e dalla sofferenza li condanna all’incapacità e all’infelicità.

I genitori con le loro parole e i loro gesti di protezione danno ai figli due messaggi: il primo è «Ti voglio bene e ti aiuto perché non voglio vederti soffrire»; il secondo, più implicito, è «Ti aiuto perché credo che tu non sia in grado di gestire le difficoltà». Proprio questo secondo messaggio, con il tempo, diverrà sempre più forte fino a intrappolare il ragazzo in un meccanismo in cui il timore conduce all’evitamento delle difficoltà e alla richiesta di aiuto. Sappiamo bene come queste siano due delle tentate soluzioni che mantengono i disturbi legati alla paura patologica (Nardone, 2003; 2016).

Una comunicazione che spinga verso i due estremi, l’evitamento di una situazione difficile o la delega della responsabilità ad altri e la richiesta di successo senza l’adeguata preparazione (pensiamo a quando si richiede al figlio di primeggiare nello sport o a scuola), è foriera di malessere. Viceversa, una comunicazione che incoraggi a esporsi gradatamente e a livelli controllati di stress può essere un utile incentivo a fronteggiare le avversità nel corso della vita (Meringolo et al., 2016; Southwick et al., 2011). Ancora più delicata appare la comunicazione all’interno della famiglia nel momento in cui questa si trovi ad affrontare un momento difficile, come la separazione dei genitori, o drammatico, come la morte di uno dei genitori.

Per proteggere il bambino dalla sofferenza si può cercare di isolarlo all’interno di una sorta di bolla protettiva, dove la realtà delle cose viene edulcorata, se non addirittura nascosta. Ciò, se nelle intenzioni è apprezzabile, negli effetti è deleterio in quanto incrementa la sofferenza. Il bambino si trova a vivere all’interno di una perenne contraddizione in cui da un lato percepisce, attraverso gli atteggiamenti, che qualcosa non va, ma dall’altro gli viene detto che tutto va bene e che non deve preoccuparsi.

Paul Watzlawick in Pragmatica della comunicazione umana (1971) ha dimostrato come ogni comunicazione abbia un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione. All’interno dei sistemi familiari la metacomunicazione rappresenta la modalità con cui si mantengono e si sviluppano i ruoli. I cosiddetti conflitti generazionali, spesso, hanno a che vedere non tanto con il contenuto, ma con la messa in discussione delle regole gerarchiche fino a quel momento stabilite e ritenute valide. L’adolescente non accetta più di essere in posizione subordinata e vorrebbe essere alla pari dei genitori che, viceversa, non gli riconoscono ancora questo ruolo. Le famiglie saranno in grado di affrontare e gestire questi momenti di criticità quanto più la comunicazione si basi su un sistema di valori condiviso che funge da collante e da barra stabilizzatrice.

In un sistema di valori condiviso i membri possono fare affidamento gli uni sugli altri, percependo un forte senso di appartenenza e di supporto reciproco. Le relazioni, anche se non scevre di conflitti, sono incentrate sull’interessamento reciproco che, come abbiamo visto, è un importante fattore di resilienza.

LA RESILIENZA NEGLI STUDI, NEL LAVORO E NELLE EMERGENZE

Come la comunicazione familiare sia in grado di aprire opportunità e sostenere abilità è forse più evidente negli studi su quella che viene definita “resilienza accademica”. Per resilienza accademica si intende la capacità degli studenti di raggiungere successi formativi e scolastici, nonostante la presenza di difficoltà di tipo sia personale che famigliare o sociale (Wang et al., 1998; Catteral, 1998).

Le caratteristiche essenziali che si possono rintracciare riguardano 3 dimensioni: uno stile che incoraggia la partecipazione e il confronto; la presenza di messaggi comunicativi orientati a far emergere le risorse e competenze (resource oriented); la creazione di scenari positivi dove, attraverso l’impegno e la passione, è possibile raggiungere i risultati desiderati.

Tale stile comunicativo, per quanto attiene all’approccio allo studio, ma non solo, è in grado di promuovere resilienza, costruendo credenze che divengono dei punti di riferimento per il futuro.

1. Le difficoltà si possono incontrare, fanno parte del gioco, ma di ogni difficoltà si può parlare per trovare una soluzione. Esiste un contesto di supporto familiare e sociale su cui la persona può contare.

2. Non esistono problemi irrisolvibili, ma soluzioni inadeguate. Spostare il focus da ciò che non siamo in grado di fare a ciò che possiamo realizzare permette di riattivare le risorse, spostando l’ottica dal problema alle soluzioni.

3. Per raggiungere un risultato, qualsiasi esso sia, e costruire il proprio senso di autostima e autoefficacia occorre saper accettare la fatica che l’apprendere e il migliorarsi comportano e il dolore della sconfitta e del fallimento.

Appare ancor più importante la comunicazione, e il suo grado di funzionamento, nelle situazioni in cui i giovani devono fronteggiare situazioni di stress acuto o traumatiche. La qualità della comunicazione, infatti, sembrerebbe svolgere un ruolo protettivo anche rispetto alla possibilità di insorgenza di un disturbo post-traumatico (Acuña e Kataoka, 2017). La comunicazione e la relazione che sviluppa resilienza le troviamo all’interno di ogni contesto umano: da quello familiare a quello lavorativo, a quello sociale. Non a caso vari studi dimostrano come la capacità dei lavoratori di rispondere in modo resiliente dipenda non solo da caratteristiche individuali, ma anche dai comportamenti del leader. Non stupisce che una comunicazione finalizzata a promuovere le abilità e le competenze di auto-gestione dello staff, insieme a un supporto concreto nel fronteggiare le sfide, sia un fattore predittivo della capacità di resilienza dei lavoratori (Nguyen et al., 2016).

Il supporto fornito, ricevuto e percepito è veicolato dal tipo di relazioni di cui la persona dispone dentro e fuori la famiglia. Sapere di poter contare su qualcuno consente di sperimentare un senso di appartenenza e collegamento, quello che in psicologia sociale di comunità viene chiamato capitale sociale di tipo bonding e di tipo bridging. Il sostegno sociale è particolarmente rilevante se consideriamo l’impatto che una difficoltà può avere in persone già fragili. L’emergenza sanitaria connessa alla pandemia da Covid 19 e le conseguenti misure restrittive hanno aumentato il rischio connesso alla diminuzione dei contatti sociali, soprattutto per quelle persone (come gli anziani) che avevano visto già ridursi la propria rete sociale. La relazione è comunicazione e l’uomo, essere relazionale, ne ha bisogno per poter resistere, adattarsi o uscire rafforzato dalle difficoltà.

L’UMORISMO

Terminiamo questa breve esposizione dando spazio a uno degli aspetti della comunicazione spesso sottovalutati quando si parla di resilienza e benessere, ovvero l’umorismo. L’umorismo aiuta a fare i conti con il dolore e con la sofferenza gettando uno sguardo indulgente sui limiti e sulle miserie umane. Si rivela in quella che Pirandello chiama la contraddizione fra la vita reale e la vita ideale, fra aspirazioni e miserie, esprimendosi in quel confine tenue fra il pianto e il riso. Possiamo considerare l’umorismo come una forma di intelligenza, che fa parte delle competenze del nostro cervello più arcaico e permette una risposta immediata, senza bisogno della mediazione della ragione. Ci consente di prendere le distanze dal dolore, e di utilizzare il riso per scaricare la tensione. In circostanze estreme, dove non c’è via d’uscita, l’umorismo può divenire elemento di sopravvivenza. Sembra che nei campi di concentramento l’umorismo fosse uno degli ultimi baluardi a difesa della vita, una sorta di sistema per non cedere di fronte alle avversità.

L’umorismo è riconosciuto come uno dei principali fattori protettivi soprattutto in persone che per lavoro sono esposte a eventi anche estremamente traumatici: pensiamo al personale dei servizi di emergenza o sanitario in questo momento storico. Ricorrere all’umorismo consente di ridurre la tensione, dare sfogo ai propri sentimenti, fronteggiare lo stress e agire efficacemente anche sotto pressione (Rowe e Regehr, 2010). Prendendo a prestito le parole di Hermann Hesse potremmo dire che l’umorismo ci permette di vivere esperienze appartenenti a un’altra saggezza: «Vivere nel mondo come se non fosse il mondo, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se non si fosse in rinuncia».

Utilizzare l’umorismo o una comunicazione orientata alla soluzione non significa semplicemente far affidamento su un pensiero positivo. Se questo può avere un effetto sul benessere, incrementando l’idea che manteniamo sempre una possibilità di scelta, tuttavia vediamo come il pensiero positivo funzioni solo se non deliberatamente costruito, ovvero se inconsapevole. Altrimenti, lo sforzo intenzionale di vedere o far vedere le cose migliori di quelle che sono, o cercare di contrastare volontariamente il senso di tristezza, finisce per renderci ancora più depressi o angosciati.

Come ha osservato Epitteto, non sono i fatti che ci preoccupano, ma l’opinione che abbiamo dei fatti, opinione che si costruisce di concerto con le parole che usiamo per comunicarla. Le parole che usiamo per rappresentare gli eventi evocano sensazioni che costruiscono percezioni, rendendoci capaci di reagire o bloccando la nostra risposta resiliente.

Moira Chiodini, psicologa e psicoterapeuta, e docente presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è responsabile dello studio clinico affiliato di Firenze, dove svolge attività di psicoterapia e consulenza.

Patrizia Meringolo, psicologa, è docente di Empowerment di comunità e Metodi qualitativi di ricerca all’Università di Firenze. Autrice di molte pubblicazioni scientifiche, i suoi interessi di ricerca riguardano la promozione della salute e la prevenzione della radicalizzazione violenta.


Bibliografia

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Questo articolo è di ed è presente nel numero 285 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui