Filippo Di Pirro

Psicologia e terza età

Quella degli anziani è una fascia anagrafica sempre più estesa e rappresentata a livello demografico: qual è e come si evolve il rapporto tra la psicologia (e la psicoterapia) e la terza età?

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Il paese sta invecchiando, gli anziani ormai sono circa il 23% della popolazione e rappresentano un mondo che una società sempre più narcisista cerca di offuscare, connotandolo di uno stigma silenzioso e marginalizzante. Quello dell’anzianità è un argomento vasto, di interesse multidisciplinare che afferisce anche alla psicologia, il cui contributo ha consentito di superare una concezione dell’invecchiamento come momento di perdite e di ritiro dalla vita, individuando possibilità di attivazioni, ampliamenti funzionali e abilità solo apparentemente compromesse dall’avanzare dell’età.

LA TERZA ETÀ

Si considera anziana una persona che abbia compiuto il 65° anno di età, tuttavia, causa l’allungamento della vita media, si è creata una nuova distinzione, differenziando gli ultrasessantacinquenni in terza età (persone in buone condizioni di salute, inserite socialmente e con disponibilità di risorse) e quarta età (persone con dipendenza dagli altri e decadimento fisico). L’invecchiamento si manifesta con notevole variabilità individuale tanto da rendere artificioso basarsi solo su un principio cronologico. Nei paesi con sviluppo avanzato si invecchia più tardi, cosicché è stato anche proposto di far slittare questo passaggio da 65 a 75 anni.

Ciò malgrado prevale la tendenza a connotare negativamente l’anzianità dal momento che il valore di una persona oggi si misura nella sua capacità di produrre beni, di mantenere un’efficienza in tal senso. Si esalta l’eternamente giovane, e ciò può indurre sia il rischio di emarginare chi diventa anziano sia, viceversa, di edulcorare l’invecchiamento, esaltandone gli attributi positivi e rendendo quasi evanescenti quegli aspetti involutivi che comunque lo caratterizzano. Allora può accadere che si arrivi a fare di tutto per non apparire e per non sentirsi vecchi, per vivere nell’illusione di quel mito della giovinezza che visualizza la senescenza come anticamera della morte. In un modo o nell’altro, si tratta di tentativi di difendersi sia dal sentimento di perdita di un ruolo e di una posizione sociale attiva, che dall’angoscia di un futuro sempre più abbreviato, sentendosi un po’ “con le spalle al muro”.

L’invecchiamento è un processo che, inevitabilmente, riguarda tutti gli essere viventi e dipende da una serie di cause genetiche, ambientali e stocastiche. «Riferito all’uomo indica il complesso delle modificazioni cui l’individuo va incontro, nelle sue strutture e nelle sue funzioni, in relazione al progredire dell’età» (Cesa-Bianchi, 1987). È parte del processo di sviluppo e di evoluzione, che inizia dal momento in cui comincia a formarsi un essere vivente fino al momento della sua morte. Le attuali conoscenze hanno evidenziato che, pur prevalendo una regressione delle funzioni, le caratteristiche involutive non sono assolute, smentendo, in parte, quell’antitesi ancora fin troppo radicata nella cultura comune: evoluzione-involuzione («senectus ipsa est morbus» scriveva Terenzio nel 160 a.C.). L’invecchiamento è legato anche a fattori psicologici, di personalità, e a differenti tipologie caratteriologiche corrispondono diverse modalità di invecchiare. Ma una persona è pure in stretta connessione con l’ambiente e le sue modalità comportamentali e adattative dipendono da questa interdipendenza, che vale a tutte le età ed è impossibile da spezzare senza incorrere in riduzionismi che sono sempre parziali e falsi. Perciò i cambiamenti nella senescenza vanno ricondotti anche all’ambiente culturale e sociale che, così come può intorpidire questa fase della vita, può anche offrire prerogative per attribuirle un significato meno invalidante.

PSICOLOGIA E TERZA ETÀ

Per molto tempo, la psicologia si è occupata prevalentemente degli aspetti deficitari dell’invecchiamento, risentendo di un orientamento focalizzato più sullo studio delle singole funzioni/disfunzioni. Così come le altre scienze, anche la psicologia della terza età si è evoluta per rispondere alle esigenze più diversificate, arricchendosi di una visione umanistica, di una componente antropologica e di una concezione olistica, in cui prevale la centralità dell’individuo nel suo complesso. È stata evidenziata l’importanza di una visione centrata sulla persona e sulla valorizzazione delle sue risorse, in una fase della vita in cui si assiste non solo al progressivo instaurarsi di aspetti involutivi e di perdita, ma anche di attiva ridefinizione del proprio ruolo e delle proprie possibilità individuali e sociali. Alla luce di ciò la psicologia offre anche gli strumenti per sostenere l’individuo a mentalizzare i cambiamenti, gestire gli aspetti involutivi, riconoscere le potenzialità e le risorse necessarie per ritrovare un giusto equilibrio e un sano livello di autonomia, anche attraverso interventi mirati a rimodulare il rapporto con l’ambiente. James Hillman sosteneva che solo durante l’anzianità è possibile raggiungere la piena espressione ed è in quegli anni che diventiamo quello che siamo davvero.

L’invecchiamento comporta modificazioni dell’assetto cognitivo e psicologico della persona, anche se questa distinzione è piuttosto artificiosa e mai netta. Il progressivo declino delle funzioni cognitive che caratterizza la senescenza è più correlato ad alterazioni strutturali e funzionali del cervello (perdita neuronale, riduzione delle connessioni interneurali, modificazione dell’assetto dei neuromediatori). In condizioni fisiologiche, tuttavia, dette alterazioni possono essere in parte compensate dal fenomeno della plasticità neuronale e dalla continua e mirata stimolazione ambientale. La componente psicologica si rapporta alla personalità, alla storia individuale, allo stile di vita, alle interazioni con l’ambiente, agli eventi. Un invecchiamento fisiologico si caratterizza per alcune modificazioni statisticamente normali per l’età del soggetto. Si apprezza un globale rallentamento sia psicosensoriale che motorio, che si traduce in un calo della elaborazione cognitiva, dell’ideazione, dell’attenzione, della capacità di ragionamento e della produzione delle risposte. Si assiste a una graduale compromissione della memoria e della capacità di apprendimento con un diverso impegno delle capacità mnesiche: l’anziano apprende più facilmente dal fare, dall’azione. Tendono via via a prevalere stili di coping passivi e poco mirati.

Per quanto attiene agli aspetti psicologici, con l’invecchiamento generalmente si evidenzia un’accentuazione delle caratteristiche di personalità: il comportamento si fa più rigido, talvolta connotato da ostilità, rancore, facile suscettibilità e diffidenza. Molto meno si osserva una moderazione dei tratti caratteriali, con atteggiamenti connotati da pacatezza, maggiore tolleranza, distacco dalle convenzioni.

La senescenza induce anche una diversa percezione del tempo, prevalendo una dilatazione del passato, una coartazione del presente e una forte limitazione del futuro. Il passato è vissuto come come rifugio ideativo ed affettivo che, però, può anche indurre sofferenza, in quanto fonte di rimorsi e rimpianti. La percezione limitata del futuro condiziona il significato attribuito alla speranza, che assume connotazioni sempre più vaghe, sfumate e basate soprattutto su bisogni immediati e concreti.

Tutte le suddette modificazioni possono articolarsi in un sinergismo negativo che comporta il progressivo declino delle preesistenti caratteristiche e abilità. Un fattore fondamentale per contrastare questo quadro involutivo è quello della stimolazione e dell’esercizio.

Già dopo i 65 anni e prima dei 75, circa la metà delle persone convive con una patologia cronica (malattie cardiovascolari, respiratorie, neoplasiche, metaboliche) e la percentuale sale ulteriormente col progredire dell’età. I confini tra ciò che è fisiologico e ciò che è patologico non sono sempre netti, ma costituiti da un’ampia zona di disagio, di situazioni di instabilità che si alternano a momenti di apparente benessere. Se poi una patologia si manifesta in modo sfumato, magari integrata nell’assetto esistenziale senile, può essere facilmente sottostimata e interpretata come prevedibile modalità di essere dell’anziano. Una vecchiaia patologica è segnata da compromissioni funzionali e di personalità più o meno gravi, con limitazioni delle capacità adattative della persona, che si trova in una condizione esistenziale nuova, in cui si modificano i rapporti con l’ambiente, con il corpo, con il mondo. Si possono apprezzare disagi lievi e transitori, ma anche condizioni di maggiore gravità e complessità. I quadri psicopatologici maggiormente riscontrati afferiscono alle demenze (termine che descrive una vasta gamma di sintomi, associati a deficit della memoria e delle altre funzioni cognitive). Nella senescenza si osservano anche il delirium (noto pure come sindrome confusionale), le malattie psicosomatiche e i comportamenti di abuso (alcol, psicofarmaci). Ma un problema importante nell’ambito della psicopatologia dell’invecchiamento è la depressione. Questa può essere spiegata tenendo conto degli aspetti neurobiologici della vecchiaia, ma anche di quelli psicologici. Gli anziani si trovano più esposti a confrontarsi con esperienze di lutti e di perdite, che portano grandi vissuti di solitudine e senso di vuoto, che facilitano lo svilupparsi di angosce, anche molto intense, legate al pensiero della morte, al declino senile della mente e del corpo, non più veicolo per essere al mondo, ma ostacolo da superare per continuare a essere al mondo. Il passato può essere vissuto nel rimpianto di non aver realizzato in pieno le proprie potenzialità, avvertendo un senso di disvalore personale senza avere la percezione di poter rimediare a tutto ciò. L’accumularsi di questi vissuti di frustrazione e di esclusione comporta risposte di abbattimento, isolamento, fino alla depressione che può essere connotata da ansia, ipocondria, ossessività e accompagnarsi ad altre manifestazioni involutive.

PSICOTERAPIA E TERZA ETÀ

Di psicoterapia con le persone anziane si è dibattuto già dai primi anni del Novecento, quando lo stesso Freud manifestò dei dubbi sull’efficacia di una psicoterapia del profondo dopo i cinquant’anni, in quanto riteneva che la mancanza di elasticità dei processi mentali necessari alla dinamica di un trattamento del profondo e la massa di materiale di fronte al quale si sarebbe trovato il terapeuta avrebbero reso il trattamento interminabile e inutile. Le posizioni, tuttavia – anche grazie alle maggiori conoscenze circa il processo di invecchiamento – sono andate definendosi individuando differenti possibilità di applicare la psicoterapia anche in persone anziane. Vi sono dati certi che nel corso della terza età alle inevitabili perdite si possono contrapporre attivazioni e addirittura ampliamenti funzionali di abilità individuali, solo apparentemente compromesse dal processo di invecchiamento, che afferiscono al campo delle esperienze vissute e delle caratteristiche della personalità che sono ancora vitali ed efficienti. Ciò costituisce una condizione per considerare un intervento psicoterapeutico, unitamente al livello di integrità psichica del paziente, alle sue caratteristiche di personalità, alle capacità di insight. La psicoterapia nell’anziano è prospettabile laddove l’invecchiamento induce una sofferenza, un disagio esistenziale che si inserisce o meno in un processo di decadimento. L’intervento terapeutico, tenendo conto delle caratteristiche dell’anziano, va focalizzato su obiettivi concreti al fine di rendere più tollerabili e gestibili le situazioni di disagio personale, ricercando e individuando le opportunità di rimodulare il proprio ruolo e il modo di porsi con l’ambiente, riconoscendo e accentando le limitazioni correlate all’età, così da dedicarsi a progetti più aderenti alle proprie capacità attuali, tali da stimolare le funzioni cognitive e alimentare l’autostima. In un lavoro terapeutico con gli anziani si deve tener conto delle loro capacità, del generale rallentamento cognitivo e del calo della working memory. Occorre porre attenzione anche al diverso background culturale, alle esperienze accumulate, che possono implicare valori differenti e persino significati diversi attribuiti ad alcune parole. Inoltre è importante considerare le possibili limitazioni funzionali e sensoriali e ciò potrebbe comportare una flessibilità del contratto terapeutico. Il lavoro con pazienti anziani rappresenta anche una sfida al narcisismo professionale dello stesso terapeuta, poiché richiede di sapersi accontentare anche di piccoli successi, anziché perseguire più o meno caparbiamente l’obiettivo di guarigione del paziente. Nell’ambito della psicoterapia nella terza età, stando anche alla letteratura, trovano applicazione la psicoterapia di sostegno, quelle a indirizzo cognitivo-comportamentale, la psicoterapia di gruppo e le psicoterapie del profondo.

La psicoterapia di sostegno è la forma di intervento più basilare e si pone l’obiettivo di ristabilire o aiutare a mantenere un equilibrio in quei casi di disagio più lieve o anche in quelle situazioni psicopatologiche in cui non trovano indicazione interventi più complessi e nelle quali, pur non ravvisandosi prospettive di radicali miglioramenti, è tuttavia necessario un supporto per mantenere l’adattamento al livello migliore possibile.

Le terapie cognitivo-comportamentali (CBT) si sono sempre più affermate nella loro efficacia come dimostrato in diversi studi evidence-based. Le CBT consentono l’individuazione di nuove e più funzionali strategie di coping e di problem solving con miglioramento della fiducia e padronanza di sé e delle distorsioni cognitive. È appurato che l’associazione terapia farmacologica e psicoterapia garantisce risultati migliori e, al riguardo, le CBT vantano il maggior numero di ricerche scientifiche a supporto.

Le terapie di gruppo nascono con Moreno (ideatore dello psicodramma) nel 1920 come luogo in cui esplorare problemi individuali e relazionali con la guida di un terapeuta. Lo scambio di informazioni, l’incoraggiamento e il mutuo sostegno sono funzioni fondamentali dei gruppi terapeutici, nella loro accezione più vasta. Se in origine questo tipo di intervento risentiva di una connotazione psicoanalitica, nel corso degli ultimi anni sono andati sviluppandosi orientamenti meno ortodossi in cui il terapeuta riveste un ruolo più direttivo e di sostegno. I più recenti approcci di gruppo, pur nella diversità dei presupposti teorici, si pongono come obiettivi comuni la risocializzazione, la riduzione dell’isolamento e della regressione, lo scambio di strategie di problem solving e lo sviluppo di una maggiore autosufficienza.

Le terapie del profondo si focalizzano sull’esplorazione dei fenomeni di transfert e controtransfert, delle motivazioni inconsce, delle angosce, delle difese, soprattutto quando emergono nell’hic et nunc. In generale, i terapeuti che si occupano del profondo concordano sul principio che nell’anziano il lavoro interpretativo è più impegnativo ma, in presenza di un paziente che alla motivazione associa buone capacità di introspezione e un congruo bagaglio di esperienze, il lavoro analitico può consentire la riorganizzazione adattativa degli investimenti libidici, permettendo di affrontare meglio traumi e perdite; la relazione terapeutica stessa può esercitare un’influenza rivitalizzante sull’anziano in cui vanno diminuendo le attività e i legami. La psicoterapia del profondo nella terza età richiede criteri meno rigidi e ortodossi, con una maggiore flessibilità del setting, affinché il terapeuta possa utilizzare il metodo che in quel momento sembra il più indicato. Il possibile divario di età (terapeuta più giovane) impone particolare attenzione nella gestione delle dinamiche transferali e controtransferali.

CONCLUSIONI

C’è ancora il rischio che ogni volta che si affronta il tema dell’anzianità venga creata una nuova categoria del patologico, per una “sepoltura” anticipata dell’esistenza, quando non è più immagine di efficienza. L’evoluzione della psicologia e della psicoterapia aiuta a guardare con maggiore attenzione il mondo degli anziani per coglierne, oltre agli aspetti involutivi, anche delle potenzialità; coloro che hanno vissuto più a lungo hanno anche maggiore capacità di sperimentare la gioia e considerare il piacere. La senescenza racchiude in sé le condizioni affinché avvenga una riscoperta delle proprie caratteristiche, della forza che c’è in ognuno, che porta a dare ancora un senso autentico all’esistenza.

 

Filippo Di Pirro è psichiatra e psicoterapeuta con formazione in psicodiagnostica. Ha lavorato come Ufficiale medico psichiatra e attualmente è curatore della collana Psichiatria e Neuroscienze di Giunti Psychometrics.

Bibliografia
Brown D., Pedder J. (1984), Psicoterapia, principi psicodinamici e pratica clinica (trad. it.), Piccin, Padova.
Cesa-Bianchi M. (1987), Psicologia dell’invecchiamento. Caratteristiche e problemi, La Nuova Italia Scientifica, Roma.
Coda S. (2000a), «Invecchiamento e longevità: perdite e risorse a confronto», in Journal of Psychopathology, 2.
Coda S. (2000b), «Psicoterapie ed invecchiamento: nuove prospettive di intervento», in Journal of Psychopathology, 2.
De Leo D., Magni G. (1987), Disturbi affettivi della terza età, Masson, Milano.

 

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 287 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui