Roberto Escobar

Paradise

Ambientata nella Germania nazista, una pellicola racconta tre modi differenti di accettare il male o di optare per il bene. Insomma, tra “superuomini” e “sottouomini”, a ognuno il suo paradiso.

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Quale strada porta al male, e quale al bene? Una voce fuori campo risponde alla domanda mentre finisce Paradise (Ray, Russia e Germania, 2016, 130’). Il male procede da solo, dice la voce, il bene richiede uno sforzo.

Intanto, seduta e in primo piano, Olga (Yuliya Vysotskaya) guarda verso un dio eventuale, forse non più che l’occhio in bianco e nero del cinema. Quel dio l’ha ascoltata e scrutata. Ora sta per giudicarla.

Come Olga, principessa russa trasferita in Francia, hanno fatto anche Jules (Philippe Duquesne), poliziotto collaborazionista, e Khelmut (Christian Clauss), alto ufficiale delle SS, nazista per fede. Seduti allo stesso tavolo, con lo sguardo alla macchina da presa, uno per uno hanno parlato di sé, della propria vita. Le loro storie hanno preso a intrecciarsi nel 1942.

Jules ha incontrato Olga a Parigi, seduto nella sua poltrona di funzionario (sulla scrivania sta il martello con cui un boia solerte ha spezzato un ginocchio del complice che l’ha aiutata a nascondere due bambini ebrei). Mesi dopo, Khelmut riconosce Olga in un lager dell’Europa orientale. Se ne era invaghito nel 1933 a Firenze e se la ritrova fra gli Untermenschen, i “sottouomini”, i “popoli inferiori” da cui sta ripulendo il mondo. Ora tutti e tre, ognuno di fronte a se stesso, attendono la sentenza di un dio, per quanto eventuale.

Lo splendido film di Andrey Konchalovskiy e della cosceneggiatrice Elena Kiseleva racconta dell’inferno e del paradiso, e di come gli uomini e le donne pensino di costruirli in terra. Ci può essere un paradiso senza un inferno?

Hans Krause (Peter Kurth), SS al comando del lager dove Khelmut è stato inviato da Heinrich Himmler (Viktor Sukhorukov), è risoluto. È corrotto e ladro, ma sa di essere più utile alla causa di Khelmut, rigido e onesto. Io e quelli come me – sostiene con orgoglio irruento – siamo i costruttori dell’inferno necessario all’avvento del paradiso.

Con parole care a Himmler, che Adolf Eichmann usava ripetere ammirato e commosso, potrebbe aggiungere che l’annientamento degli Untermenschen è il compito più ingrato e più meritorio degli zelanti costruttori del futuro, il compito sovrumanamente disumano che farà trionfare l’umana perfezione.

Khelmut non risponde. Se lo facesse, dovrebbe dargli ragione. È di nobiltà antica, i suoi modi e il suo rango sono lontani da quelli di Krause, popolano e rozzo. Ma uguale è la sua fede. Per tutti e due, la pace perfetta e la perfetta gioia del futuro si nutrono dell’orrore del presente. Anche Stalin è impegnato a edificare un paradiso sull’inferno, dirà a Olga.

Per questo lo stima e lo rispetta, proprio come scrive Adolf Hitler in Mein Kampf. A questa idea fanatica, a questa visione del mondo “perfettamente vera” – come ancora si legge nel manifesto del nazismo – è giunto anno dopo anno, per amore della Germania. Non ha mai preso decisioni nette, tantomeno morali. Si è lasciato prendere nel flusso di un’intera nazione, innamorata di un capo. Altruista, idealista, buon tedesco, Khelmut non fatica a credersi un uomo perbene. E gli uomini perbene non vedono motivi per vergognarsi di sé.

Diversa è la storia di Jules. È stata una storia normale, sempre. Lo è ancora adesso, nella Francia occupata dai nazisti. È poliziotto, dunque tortura e manda la gente nei lager, anche Anna. Ma non per odio, né in vista di un paradiso, se non quello tranquillo della sua piccola vita fatta di colazioni, pranzi, cene e passeggiate nei boschi con il figlio. Obbedisce. Ha cominciato prima dell’occupazione tedesca, ha continuato dopo. La sua vita è fatta di sì. Ne ha pronunciati molti, ognuno sempre più facile, e ora si trova preso nella loro rete. Non è altruista né idealista. Ma al pari di Khelmut è convinto di essere un uomo perbene, se “perbene” significa “come tutti”. Neppure lui conosce motivi per vergognarsi. Ne conosce invece per temere il dopo, quando i nazisti saranno sconfitti. Ma se riuscirà a nascondersi fra gli uomini normali, potrà tornare a dire sì e alla tranquillità, chiunque comandi.

Rispetto a Jules e Khelmut, Olga sta sul versante opposto della Storia. Forse anche lei non ha scelto di starci. Forse anche lei ci si è trovata, ed è finita in un campo di concentramento per aver cercato di salvare due bambini ebrei. In quel lager Khelmut vuole salvarla. Il nazista perbene non ha abiurato la propria fede, ma la sconfitta in Russia lo convince che gli uomini sono troppo imperfetti per il paradiso, e che neppure l’inferno li cambia. Che cosa farà Olga? Khelmut può farla fuggire dall’inferno. Lei stessa, forse, si convincerà del pieno diritto del suo carceriere, dello Übermensch (superuomo), di fare qualunque cosa creda giusta, mandarla in un forno o restituirla alla vita. Ma nella sua divisa di vittima la principessa esita... Il male procede da solo, il bene invece richiede uno sforzo, dirà la voce fuori campo. Quanto al paradiso, potrebbe essere quello in cui due bambini e una madre camminano liberi. Così giudica il dio eventuale al cui cospetto Konchalovskiy ha narrato tre modi diversi di accettare il male o di decidersi per il bene.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 267 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui