Intervista a: Giuseppe Lavenia
di: Paola A. Sacchetti

Pandemia + guerra: un’accoppiata devastante per il benessere di bambini e ragazzi

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I ragazzi stanno vivendo un periodo delicatissimo dal punto di vista psicologico. I due anni di pandemia hanno fatto emergere le loro fragilità e la paura per il futuro. Ora la guerra in Ucraina ha aumentato a dismisura paure, ansie e sentimenti di impotenza verso ciò che li circonda. Provano sfiducia nel futuro, sono convinti che nessuno riesca a capire come si sentano e cosa provino, umore depresso, rabbia che si accumula senza trovare valvole di sfogo adeguate e “sane”. Questo è ciò che emerge nel sondaggio La salute mentale dei giovani tra pandemia e guerra condotto dall’Associazione Nazionale Di.Te. (Dipendenze tecnologiche, GAP, cyberbullismo) in collaborazione con il portale Skuola.net su quasi 5000 ragazzi tra gli 8 e i 19 anni. Il quadro che ne emerge è preoccupante: l’emozione dominate è la rabbia, verso l’esterno, ma soprattutto verso sé stessi, con un aumento di casi di autolesionismo allarmante, unico modo trovato per riuscire a sfogare il proprio malessere. Ancora più preoccupante è che 1 ragazzo su 3 consideri la morte una soluzione ai propri problemi. Un malessere importante, evidente, che può peggiorare, di cui tutti gli adulti dovrebbero aver consapevolezza e farsi carico, per evitare che degeneri.

Prof. Lavenia, ci può illustrare meglio il quadro che emerge dal vostro sondaggio?

Con questo sondaggio abbiamo voluto raccogliere dei dati “oggettivi” riguardo all’impatto della pandemia da Covid-19 e della guerra in Ucraina sui ragazzi: ne è emerso un quadro molto preoccupante, i ragazzi stanno vivendo una situazione di grande malessere.

Abbiamo rilevato vari aspetti a cui dovremmo porre grandissima attenzione.

Il più evidente è la rabbia che provano, per i bambini e i ragazzi che abbiamo intervistato si tratta del sentimento dominante; una rabbia molto forte, che per il 15% è un sentimento fortissimo, quasi irrefrenabile. E si tratta di rabbia verso sé stessi per il 47% dei ragazzi e delle ragazze. E sono proprio queste ultime a indirizzarla maggiormente verso sé: il 50% sono ragazze tra i 17 e i 19 anni, mentre i coetanei maschi sono “solo” il 38%.

Uno dei dati che ci ha colpito di più riguarda l’aumento di autolesionismo. Oltre 1 su 6 ha affermato che negli ultimi mesi ha provato a farsi del male per dare sfogo al proprio malessere. Ed è veramente allarmante che vi sia un picco tra gli under 16: tra i più piccoli, i bambini di 8-13 anni, quasi 1 su 3 ha messo in atto comportamenti autolesivi e, nei ragazzi di 14-16 anni, oltre 1 su 5.

Nel questionario, una parte prevedeva risposte di tipo aperto e alcuni dei resoconti sono molto forti e ci hanno turbato: i ragazzi ci hanno raccontato il malessere che stanno vivendo, molti hanno scritto di aver fatto pensieri di tipo suicidario, 1 su 3 ha pensato che la morte sarebbe stata una soluzione accettabile alla situazione che sta vivendo; alcuni hanno anche raccontato di aver tentato il suicidio. Purtroppo anche i tentativi di suicidio e i suicidi riusciti sono in costante aumento.

Oltre all’autolesionismo, poi vi è un sempre maggiore isolamento sociale, che ha avuto un incremento rispetto agli anni pre-pandemia intorno al 30%. Anche questo è un dato che ci deve far riflettere: i ragazzi che si isolano e rimarranno isolati è cresciuto e sta continuando a crescere. Il numero era già allarmante prima della pandemia, in cui si contavano circa ai 200.000 casi in Italia, e ora abbiamo un incremento del 30%, che, se non facciamo nulla, è destinato ad aumentare ancora di più.

Un altro elemento importante che è emerso dai questionari è l’incapacità di immaginare un futuro; questo dato è in linea con ciò che avevamo rilevato durante la pandemia, ma è purtroppo ancora aumentato: intorno al 50% dei ragazzi non desidera più un futuro, non riesce ad immaginarlo e, come si può comprendere, quando un ragazzo non riesce a immaginare e a desiderare un futuro, si “spegne” in qualche modo il motore della sua vita. Diventa quindi anche più chiaro perché possano considerare la morte una risposta ragionevole ai loro problemi.

Anche i disturbi del comportamento alimentare hanno avuto un forte incremento, di circa il 25%, in questi ultimi due anni. Un dato particolare è che ora si tratta di un disturbo anche maschile; se consideriamo che di solito in passato era molto più frequente tra le ragazze, ora circa il 30% dei ragazzi lamenta un disturbo di questo tipo. Inoltre, la fascia di insorgenza, che prima era intorno ai 13-14 anni, ora si è abbassata tra i 9 e i 10 anni. Anche questo è un dato evidente del malessere che stanno vivendo.

Come possiamo spiegare questo aumento della rabbia nei ragazzi?

I ragazzi stavano male già prima che esplodesse la pandemia. Non se ne parlava, o comunque se ne parlava solo tra specialisti del settore. Tutti abbiamo consapevolezza che stanno male, ma nessuno lo dice. La pandemia, e ora la guerra, hanno reso la situazione “visibile”. Quando è arrivato il Covid hanno scoperto che i genitori, e molti degli adulti con cui interagivano, erano incapaci di prendersi cura di loro, di vedere la loro sofferenza. Anzi, molti hanno negato la realtà. È normale che siano arrabbiati.

La rabbia è un meccanismo da sempre molto “usato” dagli adolescenti, soprattutto per manifestare il loro malessere. Dobbiamo tenere presente che nei ragazzi la rabbia è espressione anche di un disturbo dell’umore, in particolare di un disturbo depressivo. Ecco spiegato il motivo per cui vediamo ragazzi così tanto arrabbiati. Attraverso la rabbia e l’aggressività ci stanno dicendo che stanno male. Poi, come abbiamo visto prima, usano questa rabbia prevalentemente su e contro loro stessi, attraverso comportamenti di autolesionismo.

Quindi, se l’aumento della rabbia era prevedibile nei ragazzi, anche “solo” come risposta più che giustificata dal non aver potuto vivere la propria adolescenza con la spensieratezza dell’età a causa delle restrizioni imposte dal Covid, forse lo era anche che si manifestasse verso sé stessi?

Purtroppo potevamo prevederlo. I ragazzi, come abbiamo detto, stavano male già prima della pandemia.

Da quello che i ragazzi ci hanno raccontato nei questionari, l’autolesionismo è sempre più diffuso e, oltre a essere uno sfogo al loro malessere, include anche narrazioni distorte, che lo rendono quasi “attraente”: 1 su 6 pensa che sia bello farsi del male… Molto spesso, poi, è “indotto”, per esempio da challenge, da gruppi social o da siti che esaltano queste forme di comportamento.

Anni fa abbiamo scoperto che esistevano – e continuano a esistere – tanti siti collegati ai disturbi del comportamento alimentare, in cui si spiega come fare per perdere peso o per non farsi “scoprire” e così via.

Ora ne troviamo moltissimi anche sull’autolesionismo. I ragazzi hanno canalizzato questa forte rabbia su loro stessi e hanno trovato in internet molti spunti: ci sono siti specifici per farsi male, dai tagli fino ad arrivare al suicidio, alcuni di questi siti addirittura “aiutano” a suicidarsi, oppure trovano online challenge pericolose basate prevalentemente sull’autolesionismo, che stanno attirando moltissimi ragazzi in difficoltà. Si tratta di un dato che non dobbiamo ignorare e deve farci riflettere.

Come possiamo intervenire e aiutare i ragazzi che “scelgono” l’autolesionismo e l’autoisolamento come risposta al dolore che stanno vivendo? Che cosa può fare il “mondo adulto” per aiutarli ad affrontare questa situazione così delicata e complessa, di cui la guerra ha esacerbato le difficoltà e i malesseri?

Da un lato, come adulti, dobbiamo chiedere scusa per come ci siamo comportati in questi ultimi due anni. A mio avviso, si è fatto davvero molto poco per sostenere la tenuta mentale dei ragazzi. Dall’altro lato, dobbiamo ringraziarli per il loro comportamento, perché hanno accettato e rispettato tutte le regole che sono state imposte loro, sono stati molto bravi; saranno, per esempio, gli ultimi a dover lasciare la mascherina, giusto per citare una notizia recente.

A volte, una presa di consapevolezza del fatto che hanno sofferto e stanno male può essere un buon punto di partenza. Invece negare l’esistenza del loro dolore non fa altro che peggiorare la situazione. Mi è capitato di sentire genitori affermare che questi due anni di pandemia non possono aver determinato effetti così seri; in fondo, sono stati a casa e hanno studiato meno. È senz’altro vero, ma dobbiamo ricordare che hanno perso un pezzo della loro adolescenza, una parte della loro vita che non tornerà, hanno perduto relazioni sociali, hanno perso la scuola, quella fatta di rapporti umani e aspetti socializzanti. Per questo motivo anche prendere consapevolezza della loro sofferenza è già un modo per aiutare i ragazzi. Quindi, invece di chiedere loro: “Perché ti comporti così?”, sarebbe meglio dire: “Come ti posso aiutare per non farti comportare in questa maniera?”. Passare dal “perché” al “come” è un passaggio evolutivo ma anche, e soprattutto, emotivo essenziale.

Poi, quando la rabbia diventa troppo intensa, dovremmo rivolgerci a un professionista che possa aiutare noi a sostenere i ragazzi e aiutare loro ad affrontarla e a elaborarla. Se anche i ragazzi in quel momento non sono “pronti” per andare da un professionista, è importante che siano i genitori a rivolgersi a uno psicologo o a uno psicoterapeuta per comprendere quale sia la strada migliore per intervenire e come supportarli in modo adeguato.

Anche il mondo della scuola può fare la differenza, lavorando su tutto quello che è emozione, su ciò che i ragazzi hanno tenuto dentro, per permettere loro di rielaborare il trauma, perché di questo si tratta.

Poi, in questi ultimi due anni sono moltissimi i ragazzi che hanno abbandonato la scuola e che non ci torneranno perché non riescono ad andarci, per una fobia scolare o perché il solo ingresso in aula scatena gli attacchi di panico… Per loro potrebbe essere utile mantenere la DAD, invece di obbligarli con la forza, come mi capita spesso di sentire, ad andare a scuola. Forse su quest’aspetto la scuola potrebbe fare tantissimo, ed essere così veramente inclusiva. In un certo senso, adattarsi alle esigenze di alcuni per riuscire a salvare anche solo un ragazzo sarebbe già un risultato. Se non lo faremo, perderemo un 30% degli studenti.

In conclusione, come “mondo adulto”, dobbiamo ascoltare i ragazzi. Non lo abbiamo fatto in questi due anni. Dai dati che abbiamo raccolto nei nostri sondaggi emerge che si è fatto troppo poco e si continua a fare troppo poco per la salute mentale di bambini e ragazzi. Per questo è così importante parlarne e far conoscere il malessere che stanno vivendo: mi auguro che vi sia un’inversione di rotta e chi si occupa di benessere psicologico, di scuola, di infanzia e adolescenza investa su questo. Senza ragazzi non abbiamo futuro.

 

Giuseppe Lavenia, psicologo, psicoterapeuta, presidente Associazione Nazionale Di.Te. Dipendenze tecnologiche, GAP, cyberbullismo, è tra i massimi esperti di dipendenze tecnologiche e cyberbullismo. Affianca all’attività clinica, l’attività di insegnamento e di formazione e insegna Psicologia del lavoro e delle Organizzazioni presso l’Università degli Studi di Ancona. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Dipendenze tecnologiche. Valutazione, diagnosi e cura (Giunti, 2018) [ e Mio figlio non riesce a stare senza smartphone (Giunti EDU, 2019).

 

Paola A. Sacchetti, psicologa, formatrice, editor senior e consulente scientifico, da anni collabora con Psicologia Contemporanea, dove cura una parte della rubrica “Libri per la mente” e le “Interviste all’esperto”.