Luca Mazzucchelli

Luca Mazzucchelli intervista Umberto Galimberti

Una conversazione a tutto campo con Umberto Galimberti sui tanti complessi aspetti della pandemia che ci affligge da mesi.

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 Umberto, ti aspettavi una pandemia? 

Assolutamente no, anche perché non ne avevo mai viste. Mia mamma mi raccontava dell’influenza spagnola, lei ci era passata, ma pensavo che queste cose facessero parte della preistoria. 

 Pensi che ce ne saranno altre? 

Sì, perché non possiamo sconvolgere la terra a nostro piacimento. Ormai la terra non è più solo il luogo nel quale si abita: è diventata una materia prima e bisogna concepirla come tale. Già Heidegger nel 1927 diceva che quando noi vediamo un bosco pensiamo al legname, quando vediamo un fiume pensiamo all’energia elettrica, quando guardiamo il suolo pensiamo al sottosuolo: la percezione stessa della natura è alterata. Solo che oggi non disponiamo di alcuna etica all’altezza dell’età della tecnica. Tutte le etiche che abbiamo formulato si limitano a regolare i conflitti tra gli uomini, ma nessuna etica si è fatta carico degli enti di natura. Questo, da un lato, a causa del principio cristiano che mette l’uomo al vertice del creato e sostiene, addirittura nella prima pagina della Genesi, che lo deve dominare. Dall’altro lato, perché da sempre si dice che si devono rispettare solamente gli umani. Kant afferma che nei confronti degli animali possiamo avere tenerezza, commozione, ma non dobbiamo averne rispetto; addirittura la sua etica consisteva nel dire: tratta l’uomo come un fine, mai come un mezzo. È una bella etica, ma tutto il resto al di là dell’uomo è un mezzo? Oggi l’acqua è un mezzo, l’aria è un mezzo, le foreste sono un mezzo, e così gli animali, le piante, l’atmosfera, la biosfera: non abbiamo un’etica.

 Il comportamento che alcune persone hanno tenuto dopo il lockdown riguarda l’assenza di un’etica? 

Sì. L’etica funziona quando diventa psiche, quando le norme etiche sono interiorizzate psicologicamente. Con l’apertura della cosiddetta “fase 2” del Coronavirus non è entrato psicologicamente il concetto che ciascuno di noi può essere un “untore”. Non abbiamo ancora acquisito l’etica di Max Weber. Egli sosteneva: non basta che uno non abbia l’intenzione di ammazzare. Infatti, sull’etica dell’intenzione, che è di origine cristiana, si è organizzato tutto il sistema giuridico europeo, per cui i delitti sono colposi se non vi è l’intenzione, o se sono preterintenzionali. No, dice Weber, le intenzioni non sono interessanti nell’età della tecnica; sono interessanti gli effetti delle azioni. Quindi, tutte le persone che si riuniscono senza mascherine in posti affollati sono, sì, persone irresponsabili, cioè non rispondenti agli effetti delle loro azioni, ma sono anche dei criminali, perché qui c’è in gioco la morte o la vita degli altri.

Luca Mazzucchelli intervista Umberto Galimberti

 Per i prossimi mesi dovremo ancora convivere con un rischio in più, quello del contagio. Ci sarà chi accetterà di convivere con questo rischio e chi preferirà continuare a uscire il meno possibile o addirittura a non uscire. Tu come la vedi questa cosa? 

Vedo, per esempio, che i medici hanno accettato il rischio, al punto da avere 120 morti tra loro. A parte questo, va detto che dopo un’operazione di clausura – potremmo chiamare così il lockdown in italiano –
quando si riaprono le porte della tua casa ti comporti esattamente come un drogato dopo un periodo di astinenza: sei assetato di libertà. Questo atteggiamento psicologico collettivo è molto pericoloso. Un’infinità di persone pensano che tutto sia finito, il ciò suffragato anche da quei medici che dicono che il virus si è indebolito. L’infettivologo Massimo Galli non offende quelli che dicono il contrario, però dice che non si è mai visto che un virus si indebolisca. Sarà più difficile pervenire al contagio, ma col contagio dovremo convivere fino a che non avremo un vaccino e non sarà disponibile per tutti, e le ricerche in questo senso sono lunghissime. Mia moglie era biologa e mi diceva che per trovare un vaccino ci vuole un decennio. 

 Come faremo a continuare a convivere con questa precarietà? 

La gente vuole certezze e sicurezze, e accusa gli scienziati di essere divisi come i politici. Il punto è che la scienza non dice la verità, dice solo cose esatte. La parola “esatto” proviene da “ex-actus”, cioè “ottenuto dalle premesse da cui parto”. Se io parto da certe premesse ottengo certi risultati, se parto da altre premesse ottengo altri risultati: questa è la scienza, che va avanti per prove ed errori, e dove quindi è inutile cercare la certezza assoluta. Ma la gente non si è ancora abituata a pensare che la vita stessa è incerta, è precaria, non è rassicurata da niente, pertanto questa precarietà, che adesso si accentua, va intesa come la condizione naturale della vita.

 Pensando alla ripartenza, come te ne immagini l’evoluzione? 

Rispetto ad essa abbiamo due istanze. C’è l’istanza della salute, che ci direbbe di stare chiusi in casa per un anno, e c’è l’istanza dell’economia che invece dice: se stiamo chiusi in casa per un anno, moriamo tutti non di Covid, ma di fame. Hanno ragione tutt’e due. Allora, bisognerebbe recuperare una virtù ben segnalata da Aristotele, che si chiama “phronesis”. Aristotele dice che siccome i comportamenti umani sono imprevedibili, nella legislazione non possiamo procedere come nella matematica, in cui si deducono le conclusioni da principi rigorosi. Dovremmo procedere con un’altra virtù che è il giusto equilibrio tra istanze contrapposte: e la phronesis è proprio questo equilibrio pragmatico. 

 Hai parlato di due emergenze: quella sanitaria e quella economica. La mia impressione è che tra loro due sfugga una terza emergenza, forse ancora più importante: l’emergenza umana. Per affrontare il problema economico servono degli uomini, delle donne, delle persone psicologicamente salde. Come faremo a rilanciare l’economia se gli uomini e le donne che compongono le aziende sono psicologicamente precari? 

Il fatto che siano instabili va benissimo, nel senso che fa parte della consapevolezza della precarietà dell’esistenza. Dopodiché, affinché si possa arrivare a una soluzione positiva, è necessario anzitutto mettere al potere delle persone competenti. Oggi viviamo nella dittatura dell’incompetenza, che è gravissima. Per scegliere un manager si guarda il curriculum del candidato con su scritto che cosa ha fatto in tutta la sua vita; per fare il politico, cioè una sorta di manager di tutti i manager, non si guarda niente. La dittatura dell’incompetenza è un problema grave. Siamo in un periodo di debolezza, però la caratteristica di coloro che fanno impresa è anche un forte senso dell’avventura che io per esempio non ho: non sarei in grado di investire del denaro in un’impresa. Gli imprenditori, invece, hanno questa chance in più rispetto agli altri, questa voglia e capacità di investire, che si vede anche nei giovani attivi, ossia quelli che hanno il coraggio di darsi da fare a prescindere, di inventare soluzioni. Adesso che abbiamo verificato quanto è necessaria l’informatica, quanti giovani sono molto più bravi delle persone anziane a muoversi in questo scenario? Per loro si aprono delle offerte di lavoro significative.

 Come ho scritto nel mio ultimo libro, quando nella foresta arriva l’uragano, gli alberi con le radici solide, ferme nel terreno, riescono ad essere più forti, mentre quelli più fragili vengono spazzati via. Davanti all’uragano-Coronavirus il rischio è che le persone forti e resilienti saranno sempre più forti e resilienti, e quelle deboli e fragili sempre più fragili. Che suggerimento ti senti di dare alle persone fragili che stanno soffrendo particolarmente in questa situazione? 

Faccio fatica a pensare a una persona fragile che faccia l’imprenditore. Posso pensare, però, a una persona che fa l’imprenditore al di là delle sue capacità. Cioè, lo spirito di avventura dell’imprenditore può sfociare in un’avventura esagerata, al di sopra delle sue possibilità reali, e allora lì il guaio è proprio quello di desiderare più di quello che si può ottenere. Quest’ultima cosa è anche la causa della sofferenza di tanti pazienti. Ogni volta che faccio un’analisi a un paziente esamino quanto desidera e quali sono le capacità che ha per realizzare il suo desiderio: so che la differenza la paga in dolore. Le persone forti psicologicamente hanno anche un principio di realtà serio, che è la loro base economica. In questo modo non desiderano più di ciò che possono avere. 

 Data la situazione, tu che sei sempre stato critico verso le tecnologie le hai rivalutate? 

Io non ho nulla contro la tecnologia. Non metto in guardia l’umanità dalla tecnologia, ma dalla tecnica. La tecnica è un principio che consiste nel raggiungere il massimo dello scopo con l’impiego minimo dei mezzi. I valori della tecnica sono solamente due: efficienza e funzionalità. Tutto ciò che non rientra in questo impianto categoriale è progressivamente messo da parte. Il mercato soffre ancora di una passione umanistica, quella per il denaro, da cui la tecnica è del tutto esonerata: la razionalità della tecnica è pura. Solo che l’uomo è anche irrazionale: sono irrazionali il dolore, l’amore, l’immaginazione, la fantasia, l’ideazione, il sogno. Tutta questa dimensione irrazionale dove va a finire? Un esempio semplice: un padre arriva a casa e non ha neanche il tempo di dare una carezza ai figli perché il lavoro continua a causa della posta elettronica, oppure si alza la notte perché è diventato dipendente dalle e-mail. Capito dove vedo il pericolo? Tutta la dimensione irrazionale viene risolta nel privato, ma se io sono educato per cinque giorni dalla funzionalità e dall’efficienza, come faccio a recuperare in un fine settimana tutte le altre dimensioni legate all’irrazionale?

 Umberto, qual è secondo te il ruolo della psicologia nella fase della ripartenza? Il nostro Paese va ricostruito prima di tutto psicologicamente, o no? 

La psicologia ha un grosso lavoro da fare. Questo distanziamento, che ancora adesso, sia pure stemperatosi per molte categorie di persone, costituisce una forma di salvaguardia, crea le premesse anche per una diffidenza reciproca. Il compito della psicologia dovrebbe essere quello di dire: distànziati per cautela, ma non distanziare la tua anima dall’altro, perché altrimenti tutti i valori della solidarietà, della relazione, dell’amore spariscono. Eravamo già preparati alla diffidenza con la propaganda nei confronti degli immigrati, diffidavamo di una faccia nera; adesso rischiamo di diffidare di tutti.

 Il lavoro della psicologia, quindi, sarà quello di operare una riduzione della diffidenza? 

La psicologia deve passare alle persone il principio aristotelico secondo cui l’uomo, da solo, non può vivere. L’uomo, diceva Aristotele, è un animale fornito di linguaggio, che serve per parlare con gli altri. L’uomo è un animale sociale, e ciò è così vero che la tua identità non ce l’hai perché sei nato, ma perché altri ti riconoscono: abbiamo bisogno degli altri per sapere chi siamo. Se un bambino va bene a scuola e il maestro lo gratifica accresce la sua identità, se invece lo mortifica ne causa una squalificazione. Per quanto riguarda gli adulti, nell’età della tecnica l’identità si è spostata sul ruolo. Non c’è più un’identità personale, c’è un’identità di funzione. Quando ci troviamo in una riunione non è importante il nome delle persone, ma il loro ruolo. Già uno spostamento così crea un misconoscimento dell’identità. È una cosa brutta, perché abituandoci a considerare la nostra identità a partire dalla nostra funzione, diventiamo complici di questa diffidenza. Inoltre, la diffidenza indebolisce la relazione, ma indebolire la relazione vuol dire indebolire la società e quindi indebolire anche noi stessi, perché non abbiamo abbastanza riconoscimenti per tenere in piedi la nostra identità. Che ci sia una sete di identità lo vediamo anche nell’uso dei social. E siccome siamo assetati di riconoscimento, dato che la nostra identità sta in piedi grazie al riconoscimento, abbiamo bisogno degli altri. L’identità è un dono sociale. Abbiamo bisogno della società, e non solo delle sue dimensioni funzionali: ne abbiamo bisogno anche per alimentare il nostro cuore.

 Che cosa proporresti sul piano scolastico? 

Bisognerebbe ripartire con delle scuole nuove, nate dalla ristrutturazione di quelle vecchie per arrivare ad aule con 12-15 studenti. Questo sarebbe un enorme vantaggio anche in termini educativi, perché un insegnante può seguire i propri allievi nella loro evoluzione psico-sentimentale a condizione che nella loro classe ce ne siano 16, non 32. Bisognerebbe partire con un’operazione del genere, ma non lo si farà. Si faranno lezioni in corridoio, o nelle palestre, perdendo la struttura della scuola, perché anche lo spazio ha una sua configurazione molto importante: sappiamo che per una famiglia un conto è vivere in una casa di 300 mq e un conto in una casa di 60, lo ha dimostrato anche il lockdown. 

 I bambini che stanno crescendo in questo contesto in cui le anime sono distanti, quale futuro avranno? 

I bambini in questo periodo sono stati sacrificati, soprattutto i più piccoli, perché hanno perso la socializzazione, o comunque non è stata nutrita la loro componente socializzante. Per i bambini delle scuole elementari, la socializzazione ha lo stesso valore dell’istruzione: o la si impara lì o non la si impara più. L’istruzione la si può acquisire anche a 50 anni, ma la socializzazione va imparata da piccoli. Invece, per quanto riguarda l’enfasi sui bambini che per mesi non sono potuti uscire fuori, non sono d’accordo. Nella cultura occidentale il bambino è iperprotetto e iperbeneficiato. Troppo. C’è una pandemia, c’è un male universale: il bambino soffre proprio come soffriamo noi. Freud dice che non dobbiamo descrivere ai bambini un mondo bello e facile come se fosse sempre la vigilia di Natale, perché nella vita c’è anche il male, c’è anche il dolore. Se muore uno zio è bene portare il bambino al funerale, in modo che possa capire la morte, limitatamente alla sua capacità di comprensione. Non bisogna esonerare i bambini dalla visione del dolore e del male, perché così li priviamo della capacità di affrontarli quando diventeranno adulti.

UMBERTO GALIMBERTI, membro dell’International Association of Analytical Psychology, ha insegnato Filosofia della storia all’Università di Venezia. Collabora con la Repubblica.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 280 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui