Luca Mazzucchelli

Luca Mazzucchelli intervista Roberta Bruzzone

Una panoramica sul dramma del femminicidio, per cercare di capire i principali tratti psicologici di vittima e molestatore. Soltanto riconoscendo le disfunzionalità relazionali fra i protagonisti si può cercare di combattere il fenomeno.

Roberta Bruzzone

Dottoressa Bruzzone, cosa s’intende precisamente per “femminicidio”? Ci sono diversi gradi di gravità?

Con il termine “femminicidio” ci si riferisce a tutti quei delitti che riguardano donne assassinate in quanto donne, ossia madri, mogli, sorelle, amanti, fidanzate ecc., e il nostro Paese ha un serissimo problema da almeno una cinquantina d’anni con questa particolare categoria di omicidi. Ma di certo si tratta di una problematica decisamente diffusa anche oltre confine. Sono davvero molti gli studi e le ricerche a livello internazionale che negli ultimi trent’anni si sono occupati di violenza all’interno della coppia. I risultati sono semplicemente allarmanti: in circa il 50% delle coppie sposate o conviventi si è verificato almeno un episodio di violenza diretta tra i coniugi, e il 70% delle violenze subite da donne (compresi lo stupro e l’omicidio) viene commesso dal marito, dal compagno o da un ex. In particolare, emerge un dato ancor più preoccupante dal momento che l’omicidio della partner (o della ex partner) è uno dei reati in crescita a livello nazionale e internazionale. In considerazione della gravità emergenziale della situazione è quantomeno discutibile che il nostro Paese non abbia ancora istituito nemmeno un osservatorio permanente sul femminicidio, in grado di fornire dati precisi e affidabili.

Luca Mazzucchelli intervista Roberta Bruzzone

Dunque, pesa molto il femminicidio in Italia.

Sono quasi 3000 le donne assassinate nel nostro Pae­se dal 2000 ad oggi. Un vero e proprio bollettino di una guerra subdola e spietata che si combatte quotidianamente all’interno delle famiglie italiane. Quando parliamo di omicidi di donne, un dato salta agli occhi in maniera decisamente allarmante: dal 35 al 70% (a seconda della localizzazione geografica della casistica esaminata) degli autori di tali omicidi è il partner o l’ex partner della vittima (sia egli marito, convivente, fidanzato presente o passato). Le percentuali più elevate di questo tipo di omicidi le riscontriamo nei Paesi di matrice islamica, anche se i Paesi occidentali non risultano da meno. Negli Stati Uniti d’America, negli ultimi dieci anni circa il 40% delle donne assassinate trova la morte per mano del partner, attuale o pregresso, mentre in Europa le percentuali variano dal 40 al 50%. Secondo la NOW (National Organization of Women) americana ogni giorno negli Stati Uniti 4 donne vengono assassinate dal proprio partner (presente o pregresso), per un totale di circa 1500 l’anno in media negli ultimi vent’anni. Le percentuali di altri importanti studi di settore condotti dalle più prestigiose e accreditate agenzie nordamericane poco si discostano da questo andamento. Ciò sembra essere drammaticamente in linea con quanto si sta verificando stabilmente da circa tre decenni anche nel nostro Paese. In Italia, infatti, ogni 2 giorni (in media) una donna viene uccisa per mano di un uomo, il proprio uomo.

Quali sono i campanelli d’allarme per una donna vittima di violenza, che magari ancora non se ne rende conto?

Già da tanti anni la ricerca scientifica in materia di violenza domestica e femminicidio ha individuato una serie di indicatori di grave rischio all’interno di questi scenari. Campanelli d’allarme affidabili che, purtroppo, non vengono ascoltati. Neppure quando suonano tutti insieme contemporaneamente. Tra questi, di fondamentale importanza è la cosiddetta “recidiva”: se abbiamo a che fare con maltrattatori seriali, ossia con soggetti che si sono già più volte macchiati di questo crimine in passato, il rischio per la vittima aumenta esponenzialmente. Occorre tenere in considerazione anche eventuali precedenti di violenza a carico di altre donne a cui il soggetto sia stato legato in passato. La maggior parte delle donne assassinate era legata a “uomini” di questo tipo. Occorre liberarsi immediatamente di questi orchi della porta accanto dopo la prima aggressione (fisica e/o verbale). Questi soggetti non cambiano. Al limite peggiorano, e non occorre arrivare all’ennesimo occhio nero per rendersene conto! Più vengono perdonati, più acquistano potere e consapevolezza di avere la propria vittima in pugno e più diventano spietati. Lo so che non è affatto semplice ammettere di aver sbagliato a scegliere il partner e che si innescano delle pastoie psicologiche abbondantemente gravate di angoscia e senso di colpa (anche nei confronti delle aspettative della famiglia di origine), ma occorre superare tale ostacolo emotivo e sottrarsi alle grinfie di questi soggetti il prima possibile e a gambe levate. E denunciare. Occorre poi prendere sul serio il fatto che la tendenza del maltrattatore/persecutore è a non rispettare gli eventuali provvedimenti cautelari emessi a suo carico da parte dell’autorità giudiziaria (divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima, detenzione cautelare domiciliare ecc.). Questo tipo di soggetti non riconosce alcun valore alla legge e ai suoi rappresentanti. Ritiene di vantare sulla vittima e sui figli un potere assoluto, al di sopra della legge. È la mutazione più pericolosa della ben nota figura del “padre padrone”. E state pur certi che non si fermerà davanti a niente e a nessuno… L’unica soluzione, in casi così, è il carcere. Poi, ad amplificare ulteriormente il rischio, abbiamo l’abuso di alcol e/o stupefacenti (in particolare cocaina) e un disagio psicologico o psichiatrico. Altro indicatore da tenere seriamente in considerazione riguarda la minaccia di morte (e/o di suicidio) da parte di tali soggetti. Quando la situazione arriva alla formulazione di una minaccia di questo tipo (sia etero-diretta che auto-diretta) è segnale evidente che l’escalation finale ormai si sta delineando all’orizzonte. Siamo già pericolosamente oltre la linea di sicurezza.

Un parente o amico che vede una persona a lui cara soggetta a violenze, cosa può fare per aiutarla?

Oggi può fare molto perché la legge attuale consente la possibilità di denunciare quanto avviene alla vittima, pure a soggetti diversi dalla persona offesa. Questi ultimi, quindi, oltre a sostenere la vittima sotto il profilo relazionale, possono rivolgersi alle Forze di Polizia e segnalare quanto è di loro conoscenza. Possono anche chiedere, dato che la legge lo prevede, che in sede di segnalazione le loro generalità rimangano riservate. Possono poi attivarsi per cercare di portare la vittima a rivolgersi a professionisti che operino sul territorio e che siano in grado di consigliarla sui passi da seguire anche sotto il profilo giuridico, oltre che psicologico. Insomma, oggi la legge dà modo a chiunque di attivarsi quando si rende conto di trovarsi davanti a questo genere di scenari.

Come mai le donne che subiscono violenza, la cui più tragica espressione finale è il femminicidio, spesso si sentono in qualche modo colpevoli di quanto accade loro?

I dati, come abbiamo visto, non lasciano spazio a mielosi sproloqui sulla parità di genere ormai a portata di mano. Quando avviene un delitto in famiglia, 2 volte su 3 la vittima è una donna e l’assassino è il suo partner o ex partner. Meno del 10% delle violenze viene commesso da sconosciuti. Il nemico, dunque, lo conosciamo bene e di solito ci ha manipolate nel profondo per impedirci di separarci da lui in tempo. Questi uomini cominciano con l’isolare la compagna, per poi umiliarla, violarla, assoggettarla a sé, fino a trasformarla in una copia sgranata e pesta di sé stessa. Lei a poco a poco si convince di non avere scampo, perfino di meritare le percosse, gli insulti, i soprusi: in sostanza, si persuade di non valere nulla, di non meritare nulla, neppure di essere aiutata. Così, come nella più tragica rappresentazione della sindrome di Stoccolma, inizia a credere che il suo carnefice agisca a fin di bene, anche se in maniera discutibile, lei si sente perennemente in colpa, inadeguata ed è sempre pronta a perdonarlo. Fino a quella volta di troppo in cui il suo cuore smetterà di battere e qualcuno inciamperà nel suo cadavere. Ecco perché, secondo i dati ISTAT, oltre il 90% delle violenze subite da parte del coniuge o dell’ex non viene denunciato. E sappiamo bene che, anche quando la denuncia avviene, la situazione non migliora poi così tanto. Questo genere di uomini è incapace di amare. Possiede la compagna, la controlla, la domina. Ma l’amore non ha mai a che fare con tutto ciò.

Le donne con quanta facilità si rivolgono a un esperto per chiedere aiuto? Quando si riesce a strutturare un percorso di presa in carico, su quali aspetti si lavora per aiutare le donne a chiamarsi fuori da queste situazioni? Infine: può la mancanza di autostima di una donna portarla ad accettare una situazione di violenza, psicologica o fisica che sia?

Non è facile per una donna che si trova in tali condizioni riconoscere pienamente la gravità della situazione e chiedere aiuto. Ammettere un fallimento di tale portata è sicuramente molto difficile. Ancora più complesso è dover prendere consapevolezza di alcune caratteristiche disfunzionali che spesso sono presenti anche nelle vittime: mi riferisco a tratti di matrice dipendente. Rivolgersi a un esperto può dare buoni frutti solo se la vittima ha realmente deciso di sbarazzarsi del manipolatore, per quanto doloroso le possa sembrare. È un po’ quello che sperimenta il tossicodipendente quando matura finalmente la decisione di riprendersi la sua vita e smettere di “farsi”. E, come per i tossicodipendenti, il primo nemico da sconfiggere è l’astinenza. Sì, perché con i manipolatori affettivi l’unica vera difesa è il distacco. Le principali strategie di uscita dal problema su cui si lavora nel setting clinico ruotano sostanzialmente intorno a 3 parole chiave: a) autonomia, cioè tornare ad essere padrona della propria vita e di tutte le decisioni che la riguardano – naturalmente, questo passa anche per la conquista di un’autonomia economica; b) autostima, cioè imparare ad amare sé stesse per ciò che si è, recuperare i vecchi hobby e in generale fare quello che fa stare bene; c) assertività, cioè fidarsi di sé stesse e far valere ciò che si vuole e si pensa. In particolare, la mancanza di autostima da parte della vittima sembra essere l’elemento chiave per innescare il cortocircuito della manipolazione affettiva fino ad arrivare al maltrattamento vero e proprio.

Ci sono anche uomini insospettabili tra quelli che diventano violenti con le donne? Oppure è possibile fare un identikit facilmente riconoscibile di persone del genere?

Questa tipologia di soggetti è composta da uomini avvezzi a commettere atti violenti all’interno della coppia. Spesso questo genere di uomini si comporta in maniera violenta nei confronti della compagna come valvola di sfogo di tutta una serie di possibili eventi stressanti che esperisce nella sua vita all’esterno della coppia. E allora un ottimo pretesto per comportarsi in maniera violenta e abusante può essere un problema sul lavoro, una crisi finanziaria o sociale, il non aver trovato posto allo stadio per la partita della squadra del cuore o l’aver trovato troppo sale nella minestra. In sintesi, nella maggior parte dei casi sembra trattarsi di uomini che hanno letteralmente perso il controllo sugli aspetti della loro vita esterna alla coppia. Per loro il controllo totale della propria compagna rappresenta spesso l’ultimo baluardo nella loro misera esistenza per conservare un briciolo di autostima. È per questo che l’abbandono da parte della donna, reale o minacciato che sia, viene considerato inaccettabile. E allora uccidono poiché non riescono ad abdicare al ruolo di dominatori incontrastati della vita dell’altra, spesso disprezzata proprio per la passività che essi stessi hanno ingenerato dopo anni di continue umiliazioni e percosse.

Roberta Bruzzone, psicologa, è presidente dell’Accademia Internazionale delle Scienze Forensi. Il suo ultimo libro è Io non ci sto più. Consigli pratici per riconoscere un manipolatore affettivo e liberarsene (De Agostini, 2018).

Questo articolo è di ed è presente nel numero 276 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui