Lindita Prendi

L’isolamento attraverso le parole del malato oncologico

“Il primo passo è immaginare. Il secondo passo è crederci. Il terzo passo è iniziare a lavorarci sopra e renderlo reale” Jim Rohn

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Da qualche mese l’epidemia del Covid-19 ha coinvolto l’intero mondo e da vicino stiamo subendo le conseguenze di uno stato di emergenza - non solo sanitaria - che fino a poco tempo fa non avremmo neanche immaginato. Ci troviamo costretti a fare i conti con aspetti che minano fortemente i nostri bisogni più primari come il bisogno di sicurezza, di integrità fisica, di supporto psico-sociale o il bisogno di libertà.

Quando si è isolati e deprivati del supporto psico-sociale, le risposte allo stress aumentano e le paure si amplificano generando un forte senso di esclusione e di solitudine (Shunmugasundaram, Chindhu; Veeraiah, Surendran 2020).

L’isolamento è di per sé una condizione innaturale per l’uomo. Fronteggiare situazioni di forte stress in tale situazione e per lungo tempo restringe gli spazi di cooperazione umana, portando a squilibri inevitabili a livello fisico, emotivo e comportamentale. Il solo sapere di poter contare su qualcuno può essere sufficiente a rispondere a una parte del nostro bisogno di affetto e di riconoscimento, e può agire sulle nostre risposte allo stress anche se la persona che ci offre sostegno non è fisicamente presente (J. Holt-Lunstad, 2017).

LA PAURA DEL CONTAGIO 

A causa del coronavirus tanti di noi si sono trovati a doversi adattare alla condizione di isolamento forzato per la prima volta, tuttavia molte altre persone già sapevano bene cosa significa trovarsi reclusi e guardare il mondo da una finestra. Una parte di queste persone sono i malati oncologici e le loro famiglie, costretti a precauzioni rigide e all’isolamento protettivo a causa della malattia. Attraverso ciò che descrivono e raccontano della loro malattia, oggi, forse possiamo comprendere meglio certi loro vissuti e trarre qualche insegnamento.

Loro sanno che cosa significa disinfettare, evitare i contatti sociali, combattere tutti i giorni con la paura del contagio. Per isolamento protettivo si intende infatti la permanenza in un ambiente a bassa carica microbica ottenuta con accorgimenti strutturali e rigide norme comportamentali sia per gli operatori sanitari che per le persone direttamente interessate dalla malattia oncologica e i loro familiari. I trattamenti terapeutici possono provocare un drastico abbassamento delle difese immunitarie, spesso già fortemente compromesse dalla malattia stessa. Un colpo di tosse, uno starnuto o una linea di febbre possono essere abbastanza da tenere distanti i genitori dai figli e in generale lontani gli uni dagli altri.

In tempi di Covid-19 la paura di contrarre un virus che può essere fortemente pericoloso per persone già provate dalla malattia, aumenta il bisogno di protezione che inevitabilmente lascia spazio alla paura. “Finché sto quì, ricoverata, sembrerà strano ma mi sento al sicuro, da una parte vorrei andare a casa dai miei figli ma ora ho più paura di uscire e di incontrare qualcosa”. Quel qualcosa può aumentare la probabilità che il percorso clinico vada storto, che un’infezione impedisca di fare le terapie e che possa uccidere un corpo già stanco e debilitato.

L'ATTESA DEL CAMBIAMENTO

Una malattia nella sua tragicità porta a importanti insegnamenti che nella vita quotidiana non sempre siamo capaci di fronteggiare. Saper aspettare è uno di questi. Quando si ha fretta sperimentiamo la frustrazione che genera l’attesa. I malati oncologici, per esperienza, imparano ad aspettare. Lo fanno con fatica e mille paure. L’ansia di non farcela, la delusione e il senso di ingiustizia che delle volte li accompagna, e poi la speranza, gradualmente li conducono a confrontarsi con il tempo e con il dover aspettare. Aspettare gli esiti di un esame, la visita medica o la visita dei parenti sono solo alcuni piccoli esempi. Nell’attesa “parlano” alle piastrine, aspettano che il midollo dia un segnale, aspettano il giorno di inizio terapia, il giorno del trapianto.                                                                                          

I famigliari fanno lo stesso. Aspettano fuori, nelle sale di attesa, a casa contano le ore.  Le domande “quando?”, “quanto manca?” li trasportano dalle paure e lo smarrimento alla capacità di supportarsi nell’incertezza e di dire “dobbiamo aspettare”. Quando si è in attesa di una risposta, appigliati a un “non si sa”, diviene utile immaginare un limite temporale nel quale vedersi e proiettarsi al futuro, fantasticando l’inizio di piccoli progetti. Avere un programma, mantenere per quanto possibile una routine può facilitare il modo di rispondere alle condizioni critiche dell’incertezza.   

CONTATTO DAL VETRO DI UNA FINESTRA

Nella stanza di isolamento protettivo i malati oncologici imparano a conoscere profondamente la solitudine anche nelle cose più piccole: dal mangiare da soli al notare quanto lungo è un giorno. Quando da soli si trovano a fare i conti con gli aspetti più profondi e spesso cupi che la malattia genera imparano a ricercare qualcosa nella solitudine.

Imparano a combattere il silenzio arrivando piano piano ad ascoltarlo, imparano a smettere di combattere il tempo che si manifesta loro nelle sue mille sfaccettature.

L’avere più tempo o meno tempo, è una questione che il malato oncologico si trova a dover prendere in carico nella sua stanza spesso con sensi di colpa verso le persone care. Più tempo o meno tempo purtroppo nel loro caso è una questione di vita o di morte.

“I miei figli vengono tutti i giorni, si danno il cambio e fanno in modo che io non rimanga mai solo. Mi dispiace fare loro questo anche se, quando li vedo da quella parte del vetro, mi faccio vedere sorridente e sereno. Mi chiedono perché sono silenzioso. Quando vanno via mi mancano.  La sera, qualche volta tocco il vetro e immagino la loro mano. Mi fa stare meglio”.

La persona malata e la sua famiglia conoscono la distanza, la respirano quotidianamente e imparano a gestirla. Smettono di lamentarsi e si organizzano. Un vetro li separa e allo stesso tempo li unisce.

IL BISOGNO DI VICINANZA

“È un mese che sono ricoverata. Eppure a casa sembra tutto ok. Sembra che non si noti la mia assenza. Tutti mi dicono che va tutto bene…”

Può accadere che a volte le reazioni dei propri cari vengano percepite come un “equilibrio inalterato” dalla propria condizione di malattia, generando emozioni contrastanti. Da una parte il desiderio che sia possibile che i bambini e la propria famiglia non soffrano la malattia e le sue conseguenze, dall’altra la paura che gli altri si dimentichino della persona malata. Una paura che porta a confrontarsi con l’idea della vita che continua. Tuttavia spesso le rassicurazioni dei familiari sono mosse dal bisogno di proteggere la persona amata e dal desiderio di trasmetterle serenità per farla stare meglio.

Chiedere aiuto ed esprimere il bisogno di vicinanza quando ci si sente soli rendere partecipi le persone care di un nostro bisogno affettivo o di una nostra particolare emozione. Aiuta a con-dividere ciò che si prova e a promuovere le risposte di cui si necessita. Non tutti i cambiamenti di gestione e comunicazione del rapporto possono avere a che fare con la natura e la qualità dei sentimenti e degli affetti.

L'ISOLAMENTO DI TUTTI

Analogamente, in questi giorni di cambiamento e di isolamento per tutti, è importante aprirsi all’attesa che la situazione cambi con pazienza e responsabilità. Favorire il dialogo e le relazioni sociali a distanza, considerare che certe emozioni provate possono essere comprensibili e veicolate da ciò che sta accadendo. Fare in modo che le emozioni negative e la paura non si espandano a tutto quello che pensiamo e facciamo. Dobbiamo cercare di tenerci occupati, ponendoci un obiettivo e portando avanti piccole attività che ci aiutino ad adattarci alla realtà del momento.

Possiamo condividere esperienze con le persone care costrette a cure ospedaliere sfruttando le risorse tecnologiche, scrivendo una lettera, facendo recapitare una foto o un disegno, piccole cose che arredano una stanza di ospedale e la caricano di affetto e sentimento.

Per quanto difficile possa essere, è sempre importante cercare di valutare le reazioni degli altri non solo come atteggiamenti mutati a priori, ma anche come possibili ed eventuali conseguenze legate a cambiamenti di routine o dell’ambiente/contesto ​circostante. 

Lindita Prendi, psicologa e psicoterapeuta, è ricercatrice associata e docente presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo. Insieme a E. Campolmi ha scritto La terapia psicologica in oncologia (Giunti, 2019).


Bibliografia

Holt-Lunstad J. (2018), «The Potential Public Health Relevance of Social Isolation and Loneliness: Prevalence, Epidemiology, and Risk Factors». Public Policy & Aging Report, 27 (4), 127–130, https://doi.org/10.1093/ppar/prx030

Holt-Lunstad J. (2017), «Aging Without Community: The Consequences of Isolation and Loneliness». In United States Senate Special Committee on Aging.

Nardone G.,(2019), Emozioni. Istruzioni per l’uso, Ponte alle Grazie, Milano.

Shunmugasundaram C., Veeraiah S. (2020), Caregivers’ perception of psychosocial issues of pediatric patients with osteosarcoma: an exploratory study, Department of Psycho-oncology, Cancer Institute (WIA), Chennai.