Giuseppe Riva

Le nuove neuroscienze

La mente come macchina predittiva

La mente assomiglia a un simulatore che mediante un lungo processo evolutivo sa anticipare gli stimoli sensoriali prima che siano realmente percepiti.

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Che cos’è la nostra mente? A lungo la psicologia cognitiva prima e le neuroscienze poi l’hanno descritta come un computer in grado di costruire modelli mentali tramite l’elaborazione delle informazioni ricevute esternamente e internamente. Nonostante questa visione continui a influenzare il pensiero comune, in realtà negli ultimi anni le neuroscienze hanno modificato la propria metafora di riferimento: la mente, più che a un computer, assomiglia a una macchina predittiva, un simulatore, che attraverso un lungo processo evolutivo ha imparato ad anticipare gli stimoli sensoriali prima che siano effettivamente percepiti. Ciò consente al nostro cervello di essere sempre un passo in avanti, in modo da rispondere rapidamente e apparentemente senza sforzo a minacce e opportunità quando (e talvolta anche prima) queste si presentano.

COME SI SOPRAVVIVE AL CAOS?

A portare a tale cambiamento di paradigma sono state le riflessioni del neuroscienziato inglese Karl J. Friston. La domanda da cui è partita la riflessione di Friston era di tipo evolutivo: come fanno gli esseri viventi a sopravvivere in un ambiente che tende al caos e al disordine? L’unico modo è quello di prevedere i possibili problemi in modo da pensare anticipatamente a delle soluzioni. Per questo, nella sua teoria, chiamata della “energia libera” (free energy), Friston suggerisce che la mente cerchi di minimizzare il divario tra aspettative e impulsi sensoriali. Per esempio, se la mia aspettativa è quella di farmi una pasta al pesto ma mi accorgo che nel frigorifero non ho il pesto, quello che farò è uscire per andare a comprarlo.

Nelle parole di Friston, questo comportamento attivo da parte dell’individuo consente di «minimizzare l’energia libera», cioè il disordine e i problemi che possono derivare dal non essere stati in grado di prevedere correttamente ciò che ci sta attorno: se ho promesso a mia figlia di prepararle la pasta al pesto ma non ho il pesto, questo genererà un disagio legato al fatto di spiegarle perché non sono riuscito a prepararla e alla necessità di trovare una soluzione alternativa. Lo stesso principio guida la nostra mente, che cerca di ridurre al minimo il livello di sorpresa (intensa come la conseguenza di una previsione errata) che l’ambiente può generare, cercando di fare previsioni che progressivamente vengono perfezionate e migliorate. Le strategie che la mente usa per raggiungere tale obiettivo sono 2. Da una parte, quando si accorge di un errore aggiorna le proprie previsioni in modo da riuscire a spiegare quanto appena accaduto. Se pensavo di avere il pesto in frigorifero, ma aprendolo non lo vedo, aggiornerò la mia previsione mettendolo nella lista della mia spesa futura. Dall’altra parte, essa cerca di rendere vera la propria predizione mediante l’azione. Appena sono al supermercato comprerò comunque un vasetto di pesto per poter essere sicuro di averlo quando mi serve.

Questa seconda strategia è definita da Friston «inferenza attiva»: la nostra mente agisce per far sì che le sue previsioni diventino delle profezie che si autoavverano. In pratica, la nostra mente non registra tutti gli aspetti della realtà che ci circonda, ma li rielabora in base alle proprie previsioni utilizzando solo quelli che pensa le possano servire per attuare le proprie previsioni. Questo meccanismo, tuttavia, genera anche degli effetti indesiderati. Uno dei più studiati è l’esperienza della cosiddetta “cecità attenzionale”: l’incapacità di notare stimoli significativi non direttamente collegati al fuoco della nostra attenzione. Detto in altre parole, se qualcosa non ci interessa o non è previsto dalla nostra mente, questa potrebbe non vederlo anche se in piena vista.

Questo meccanismo spiega anche la differenza nel livello di benessere e di qualità della vita tra soggetti ottimisti e pessimisti. Gli ottimisti tendono a notare soprattutto gli eventi positivi che capitano loro, mettendo sullo sfondo le esperienze non troppo negative (quelle molto negative le notano anche loro) e ciò crea maggiori livelli di resilienza e di emozioni positive. Mentre i pessimisti si focalizzano prevalentemente sulle esperienze negative, lasciando sullo sfondo gli eventi non significativamente positivi e creando così emozioni negative e un maggior senso di impotenza.

La seconda novità introdotta dalle riflessioni più recenti delle neuroscienze riguarda il rapporto tra percezione e azione (vedi qui di seguito il paragrafo dedicato ai neuronibimodali). Mentre la psicologia generale ha a lungo considerato questi due processi come assai diversi tra loro, le neuroscienze oggi ci dicono che in realtà entrambi utilizzano lo stesso codice di tipo motorio. In pratica, in tutte le fasi di una medesima azione – percezione (vedo un bicchiere), pianificazione (voglio muovere la mano per prendere un bicchiere), esecuzione (muovo la mano e prendo il bicchiere) e interpretazione (vedo un altro soggetto prendere il bicchiere) – il soggetto attiva sempre lo stesso schema motorio collegato al contesto in cui si svolge o si svolgerà l’azione.

LA STATISTICA BAYESIANA

La nostra mente fa le sue previsioni utilizzando delle precise formule matematiche in cui la probabilità di un evento viene calcolata anticipatamente in base alle esperienze precedenti. Questo approccio – definito “bayesiano” dal nome del reverendo inglese Thomas Bayes, che ne ha elaborato il principale teorema – considera la probabilità come una probabilità inversa. In altre parole, la nostra mente usa le frequenze osservate per assegnare a priori la probabilità a un dato evento prima che questo si verifichi. Essendo basata su quanto successo in precedenza, non è una probabilità assoluta, ma è sempre condizionata dalla conoscenza pregressa e il suo valore sarà progressivamente aggiornato in base ai nuovi eventi in modo da minimizzare la possibilità di errore.

Facciamo un esempio. Un pesce passa la maggior parte del suo tempo in acqua. Per questo, quando la sua mente predice dove si trova, la sua esperienza precedente gli dirà che ha una elevatissima probabilità di trovarsi in acqua. Se la previsione dovesse essere sbagliata, perché un’onda l’ha spinto sulla spiaggia, questo lo porterà ad aggiornare il modello di ambiente che aveva costruito in precedenza, così da riuscire a minimizzare la probabilità di ritrovarsi in una situazione simile.

I NEURONI BIMODALI: IL COLLEGAMENTO TRA AZIONE E PERCEZIONE

La dimostrazione sperimentale del legame esistente tra azione e percezione arriva dai risultati del gruppo di ricerca coordinati da Giacomo Rizzolatti, professore emerito di Fisiologia umana all’Università di Parma. Le ricerche del gruppo hanno permesso di scoprire nella corteccia premotoria della scimmia, e in seguito anche in quella dell’uomo, l’esistenza di 2 gruppi di neuroni bimodali (visuo-motori) nei quali le proprietà di tipo percettivo associano a proprietà di carattere motorio:

il primo gruppo di neuroni (F5ab-AIP) – chiamati neuroni canonici – si attiva sia quando il soggetto compie un atto motorio finalizzato (prendere una tazzina) sia quando guarda un oggetto a cui potrebbe essere rivolto lo stesso atto (la tazzina);

il secondo gruppo di neuroni (F5c-PF) – chiamati neuroni specchio – si attiva invece sia quando il soggetto compie un atto motorio finalizzato (prendere una tazzina) sia quando osserva lo stesso atto eseguito da altri (un altro prende la tazzina).

LA CODIFICA PREDITTIVA

Secondo Friston, a legare azione e percezione è il processo della “codifica predittiva” (predictive coding). La mente, nel momento in cui ha un’intenzione, genera una predizione relativa alle informazioni che dovrebbe ricevere dalle regioni sensoriali (muovendo la mano, prenderò il bicchiere). Queste previsioni sono utilizzate per guidare l’azione (muovo la mano verso il bicchiere) e sono poi confrontate con quanto viene percepito (verifico se il bicchiere è stato preso). Se la previsione è corretta, l’azione si conclude. Se invece c’è un problema – per esempio, il bicchiere è troppo lontano per prenderlo –, la mente attiverà l’attenzione e le proprie risorse cognitive per trovare una soluzione. Per riuscirci, la nostra mente costruisce e fa interagire due diversi modelli predittivi: quello del mondo fisico che influenza le nostre percezioni e quello del corpo che guida le nostre azioni nel mondo.

Con la percezione è il modello predittivo dell’ambiente – le nostre aspettative sul mondo – che viene ottimizzato. Al contrario, con l’azione ad essere ottimizzato è il modello predittivo del corpo e delle sue potenzialità. In tal caso, infatti, l’obiettivo del modello predittivo è quello di permetterci di usare il corpo per attuare efficacemente le nostre intenzioni.

A collegare tra loro i due modelli è la nostra esperienza corporea. Da una parte, il corpo è oggetto di percezione, e quindi la nostra mente lo coglie come uno degli oggetti presenti nel mondo; dall’altra, il corpo è ciò che ci consente l’azione, e quindi è lo strumento con cui la mente mette in pratica le nostre intenzioni del mondo. Per molte persone, però, l’affermazione che la nostra esperienza corporea sia il risultato di un modello predittivo, di una simulazione, è difficile da accettare. Infatti, la maggior parte di noi considera il proprio corpo come la cosa più “concreta” e “personale” che abbiamo: lo possiamo toccare, lo possiamo muovere, noi siamo il nostro corpo. In realtà, come dimostra tutta una serie di ricerche e di patologie – dalla sindrome dell’arto fantasma all’anoressia nervosa –, l’esperienza del nostro corpo non è diretta, ma è il risultato di un modello simulativo generato dalla nostra mente attraverso l’integrazione multisensoriale dei diversi segnali corporei.

La sindrome dell’arto fantasma è forse la prova più evidente di questa affermazione: i soggetti amputati che soffrono di tale sindrome continuano a percepire la posizione, e perfino una serie di sensazioni nello spazio vuoto dove prima si trovava il proprio arto amputato. Facendo riferimento a quanto abbiamo appena visto, è facile spiegarne il perché: in questi pazienti il modello simulativo del proprio corpo non è riuscito a riaggiornarsi dopo l’amputazione.

In altre parole, questi neuroni collegano direttamente la percezione all’azione fornendo alla nostra mente uno strumento in grado minimizzare gli errori di previsione. Tuttavia, in relazione ai processi predittivi esiste una differenza significativa tra azione e percezione.

L’ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY

È interessante notare come l’idea che la nostra mente sia una macchina predittiva, e che ogni tanto la predizione possa essere sbagliata generando vere e proprie psicopatologie, abbia raggiunto anche il mondo della psicoterapia. A caratterizzare infatti l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT: in italiano, terapia di accettazione e impegno nell’azione), una delle forme più recenti di terapie di terza generazione, è il focus sull’esperienza e sulla consapevolezza come strumenti per modificare delle predizioni erronee.

Nella visione dell’ACT le predizioni vengono formalizzate e descritte attraverso espressioni linguistiche e formano una “gabbia” in cui il soggetto può rinchiudersi. Per esempio, pensare "Sono negato in matematica "porta la mente a prevedere che il nostro risultato a un test di matematica sarà piuttosto scarso. E di solito, la profezia si autoavvera. Per questo una delle strategie dell’ACT è quella di rendere il soggetto consapevole di tali meccanismi automatici predittivi facendolo separare da essi per riuscire a controllarli (defusione cognitiva). Questo è l’obiettivo di una delle tecniche più note dell’ACT – la mindfulness – che vuole aiutare il soggetto ad essere consapevole delle proprie esperienze e degli stati interni ad esse collegati, imparando ad accettarli per quello sono.

Un altro processo apparentemente magico direttamente collegato ai meccanismi predittivi della nostra mente è l’effetto placebo (si veda il prossimo paragrafo). Con questa espressione si indica l’effetto curativo generato dall’idea di assumere una sostanza con potere curativo. In pratica, se io penso di prendere una pastiglia per il mal di testa e in realtà sto prendendo una caramella, il solo fatto di pensare che sia un farmaco porta la mente a predire un effetto positivo che genera comunque un miglioramento. Purtroppo il meccanismo funziona anche al contrario (effetto nocebo): per esempio, ricevere una diagnosi o un referto medico sbagliati che indicano la presenza di una malattia inesistente può spingere la nostra mente a predire la presenza dei sintomi che cominciano poi a comparire (pantomimia).

EFFETTO PLACEBO E PROCESSI PREDITTIVI

Nel suo libro La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia Fabrizio Benedetti, professore di Fisiologia umana e Neurofisiologia all’Università di Torino e uno dei massimi esperti mondiali del settore, racconta la storia di Cornelia, una paziente con un tumore al polmone che le procurava forti dolori. È indubbio che questo tipo di patologia ha un’evidente origine organica. Eppure, come racconta Benedetti, dire a Cornelia che avrebbe ricevuto un’iniezione di morfina per ridurre il dolore e poi farle un’iniezione di acqua distillata al posto di quella di morfina provocava nel suo cervello gli stessi effetti della morfina. E quegli effetti non erano soltanto soggettivi, cioè rilevati chiedendo alla paziente se stesse meglio, ma oggettivi, verificati misurando nel cervello i cambiamenti prodotti dall’iniezione utilizzando la risonanza magnetica. Le conclusioni di Benedetti sono molto chiare: «Oggi la scienza ci dice che le parole sono potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni a simboli astratti in vere e proprie armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre».

 

Giuseppe Riva è ordinario di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, Selfie. Narcisismo e identità (Il Mulino, 2016). www.giusepperiva.com

Questo articolo è di ed è presente nel numero 286 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui