Giuseppe Lavenia, Roberta Saba

La sindrome degli hikikomori

Vediamo da vicino un fenomeno drammaticamente dilagante in giappone, ma diffuso anche in altre parti del mondo, Europa compresa: il ritiro sociale di giovani dalla vita reale per darsi a un’esclusiva e reclusiva vita online.

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Il termine “hikikomori”, che dal giapponese si può tradurre con “mi ritiro”, è stato introdotto nel 1998 dallo psichiatra Saito con l’obiettivo di dotare di un’autonomia nosografica un quadro psicopatologico caratterizzato da isolamento volontario e prolungato nella propria abitazione. 

I sintomi

Secondo il ministero giapponese della Salute, del Lavoro e delle Politiche sociali il fenomeno interessa gli individui che manifestano i seguenti sintomi:

ritiro completo dalla società per più di 6 mesi;

presenza di rifiuto scolastico e/o lavorativo;

o altre patologie psichiatriche rilevanti al momento di insorgenza della sindrome da hikikomori.

Tra i soggetti con ritiro o perdita di interesse per la scuola o il lavoro sono esclusi i soggetti che continuano a mantenere relazioni sociali. Negli hikikomori l’interesse per attività lavorative o accademiche, ricreative e sociali è estremamente basso, se non totalmente assente. Le relazioni sociali sono spesso limitate alle interazioni con i familiari più stretti (Lavenia, 2012). La reclusione sociale, accompagnata dalla mancanza di responsabilità e di compiti da assolvere, porta spesso a una grave alterazione del ritmo sonno-
veglia
. La propria abitazione viene lasciata, a seconda dei casi, per brevi irruzioni nei supermercati, per fare veloci provviste di cibo e riviste, spesso nelle ore notturne. Nei casi più gravi, l’hikikomori non lascia la sua stanza né per lavarsi né per nutrirsi. Dal punto di vista psicologico, tale condizione è caratterizzata da una spiccata perdita di speranza in sé stessi e nel mondo, che porta questi soggetti a un progressivo disinvestimento nel proprio presente e futuro. La durata del periodo di isolamento può variare da pochi mesi a diversi anni, a seconda dei casi. Sebbene i sintomi compaiano nella maggior parte dei casi fra la tarda adolescenza e l’inizio dell’età adulta, il fenomeno può interessare anche soggetti più giovani. (CONTINUA...)

 

Viene stimato che la sindrome colpisca oltre 500 000 giovani giapponesi (Tajan et al., 2017). Nonostante per diversi anni il fenomeno fosse diffuso e conosciuto solo in Giappone, la ricerca ha evidenziato la presenza di casi clinici anche in altri Paesi asiatici, in alcuni Paesi europei, in Australia, Canada e Stati Uniti.

Inquadramento diagnostico: quesiti aperti

La sindrome da hikikomori non trova riscontro nelle attuali versioni dei manuali diagnostici internazionali (DSM-5 e ICD-10). Inoltre, la letteratura presenta numerose controversie relative all’inquadramento diagnostico del disturbo.

Un primo quesito aperto riguarda la possibilità di considerare la sindrome degli hikikomori come una patologia indipendente (disturbo primario) o come una manifestazione di altri disturbi mentali (disturbo secondario). Un altro quesito aperto riguarda l’eventualità di inserire il fenomeno degli hikikomori tra le sindromi legate a fattori culturali. Alcuni autori sostengono, infatti, che questo fenomeno può essere in parte ricollegato ad alcuni elementi della cultura e della società giapponesi. Una possibile causa di insorgenza del fenomeno sarebbe rintracciabile nell’educazione scolastica estremamente rigida. Il curriculum scolastico nella società giapponese viene infatti considerato il principale criterio di valutazione delle abilità individuali e del prestigio sociale. Dal momento che le università accettano un numero ridotto di studenti, estremamente selezionati, i giapponesi percepiscono da docenti e familiari fortissime pressioni per la riuscita scolastica e lavorativa fin dai primi anni scolastici. I giovani che hanno difficoltà a trovare un impiego o ad avere buoni risultati accademici possono avvertire una non legittimazione del proprio status sociale e sentire di non avere alcun posto nella società.

In questo quadro, la propria abitazione può rappresentare il “porto sicuro” nel quale ritirarsi. Sebbene il disturbo da hikikomori possa essere legato ad alcune caratteristiche della cultura nipponica, la presenza di casi clinici simili riscontrata in vari altri Paesi asiatici e occidentali mette in dubbio la possibilità di restringere il fenomeno entro i confini giapponesi. 

Fattori coinvolti

La letteratura internazionale ha individuato la presenza di diversi fattori associati alla sindrome da hikikomori.

Psicologici: gli hikikomori possono manifestare 2 tipologie disfunzionali nel rapporto con la società. Alcuni manifestano una “interdipendenza disfunzionale”: questi individui tenderebbero a sacrificare sé stessi in virtù della collettività, diventando particolarmente critici e insicuri sul proprio ruolo sociale e sulle proprie competenze, ritenuti inferiori rispetto a quelli degli altri. In altri hikikomori sarebbe invece rintracciabile una “contro-dipendenza”, ossia un totale rifiuto dell’omologazione sociale.

Familiari: le famiglie degli hikikomori sono spesso caratterizzate da dinamiche disfunzionali: la comunicazione con i figli è spesso scarsa e gli stili genitoriali sono sovente contraddistinti da alti livelli di responsabilizzazione dei figli ed elevate aspettative.

Sociali: il fenomeno degli hikikomori potrebbe essere parzialmente ricondotto a sistemi accademici particolarmente rigidi, da un lato, e ai cambiamenti avvenuti nel mercato del lavoro che rendono oggi maggiormente difficile per i giovani trovare un impiego, dall’altro. In un’ottica eriksoniana, alcuni autori propongono di considerare la reclusione sociale come una “moratoria psicologica” volta a riacquistare il controllo sull’ambiente prima di procedere nelle successive fasi di sviluppo. 

Le storie degli hikikomori sono inoltre spesso caratterizzate da vissuti di vittimizzazione legati a varie forme di bullismo. Le esperienze di bullismo possono evolvere nella reclusione volontaria nella propria stanza per periodi di tempo prolungati, portando gli individui a sviluppare forme sempre più severe della sindrome. Una ricerca condotta nella Corea del Sud ha infatti evidenziato come circa il 56% degli hikikomori dichiarasse di aver subito atti di bullismo durante l’infanzia e l’adolescenza (Lee et al., 2013). 

Il porto sicuro del web

Il senso di vuoto, i vissuti di solitudine e la difficoltà a trovare un posto nella società e nella vita reale portano gli hikikomori a ricercare rifugio nelle nuove tecnologie (Lavenia e Scala, 2017). L’utilizzo di Internet, e in particolare dei videogiochi, si trasforma spesso in abuso, e, in diversi casi, in dipendenza. Secondo Yong e Kaneko (2016) l’evoluzione dall’isolamento sociale alla partecipazione alla comunità virtuale sarebbe alimentata da 4 elementi:

1. mancanza di fiducia relazionale, dovuta a spiacevoli esperienze passate (per esempio, bullismo);

2. ostacolo: la paura e la mancanza di fiducia relazionale costituiscono un ostacolo nella vita offline;

3. anonimato: il bisogno di comunicare con qualcuno spinge gli hikikomori ad adottare la tattica della conversazione online sotto anonimato, che permette loro di esprimersi più liberamente con gli altri utenti;

4. trasposizione: la Rete fornisce agli hikikomori la possibilità di sperimentare relazioni sociali più controllate, “sicure” e soddisfacenti di quelle di cui hanno avuto esperienza nella vita reale. 

Le esperienze positive sperimentate nella Rete rafforzano negli hikikomori la convinzione che il mondo reale non sia un posto adatto a loro. Benché l’abuso della Rete possa portare a livelli sempre maggiori di ritiro sociale, per gli hikikomori l’utilizzo di Internet potrebbe essere adattivo e funzionale in quanto spesso rappresenta l’unico modo per costruire e mantenere relazioni e contatti con il mondo esterno, per parlare con persone con gli stessi problemi e per interagire con professionisti sanitari. 

Nonostante la letteratura degli ultimi anni abbia evidenziato la presenza di numerosi casi clinici nel nostro Paese, la sindrome degli hikomori è ancora poco conosciuta tra i professionisti della salute psicologica, che spesso tendono a ricondurla ad altri disturbi psicopatologici. Conoscere questa sindrome e avere un quadro chiaro di intervento si rivela necessario per rispondere ai bisogni di una popolazione in costante aumento.

Il sottoscritto, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell’Associazione Di. Te., ha trattato oltre cento hikikomori a partire dal 2002. L’analisi dei suoi casi clinici suggerisce la presenza, in tali soggetti, di tratti pronunciati di impulsività, anedonia e alessitimia (Lavenia, 2018). Le esperienze di vittimizzazione di cui spesso sono protagonisti, i vissuti di solitudine e la perdita di fiducia in sé stessi e nel futuro rendono il percorso terapeutico con gli hikikomori estremamente delicato. Per chi volesse intraprendere un lavoro terapeutico con loro potrebbe essere utile seguire alcuni accorgimenti: 

migliorare la comunicazione con i membri della famiglia, coinvolgendoli attivamente nell’intero percorso terapeutico;

predisporre un ambiente accogliente e dar loro molto tempo per pensare a cosa dire durante una conversazione;

promuovere la motivazione al cambiamento utilizzando un approccio terapeutico che permetta loro di esprimere sé stessi liberamente attraverso l’autoriflessione;

non proibire e/o limitare il loro utilizzo delle nuove tecnologie, ma indagare i significati attribuiti alle esperienze nel mondo virtuale.

La storia di Alice

Alice, a 18 anni, vive in modo burrascoso la chiusura della sua prima storia sentimentale importante. Nonostante il dolore, i pianti frequenti e improvvisi che le capitavano in qualunque luogo si trovasse, continuava ad andare a scuola. Era convinta che anche se avesse parlato di più di ciò che provava, nessuno l’avrebbe capita davvero. Così, la ragazza iniziò a chiudersi in sé stessa, sempre di più, fino a quando il vaso del suo sentirsi non compresa né accolta non traboccò. L’ultima goccia, quella che dette il la al seguito, mi ha raccontato essere stata rappresentata dal professore che la riprese avendola vista assente durante la lezione. Alice, allora, in preda alla rabbia, in quell’occasione non lasciò passare l’accaduto e reagì, facendosi venire a prendere dai nonni perché la riportassero a casa. Abitava con i nonni, e non con i genitori, per due motivi: per comodità, dato che l’abitazione dei primi era più vicina alla scuola che frequentava, e per non sentire l’altro dolore che l’aveva segnata, cioè la distanza relazionale con i suoi.

Iniziò così l’autoreclusione volontaria di Alice, sebbene i nonni la spronassero ad uscire. Cominciò a passare le giornate nella sua stanza, per lasciarla solo quando sentiva che i nonni uscivano. Alice evitava di uscire perché temeva che le persone le avrebbero provocato più male di quanto già non ne avesse. Le era già capitato con una cara amica che, pur sapendo quanto a lei piacesse un ragazzo, aveva fatto di tutto per mettercisi insieme. Alice visse l’evento come un affronto e una cocente delusione. Per lei fu l’ennesimo tradimento.

I motivi per ritirarsi in casa, davanti al computer, quindi, aumentavano. Ma i nonni insistevano e le offrirono la possibilità di andare a vivere in un appartamento di loro proprietà, invitandola a imparare a rendersi autonoma. Nessun risultato, nemmeno con quel tentativo: Alice si trasferì e iniziò un gioco di ruolo online, interpretando un personaggio completamente diverso da quella che lei era nella realtà. La sua avatar era magra, ben vestita, piaceva agli altri amici che conosceva virtualmente. Era soltanto nel web che voleva conoscere qualcuno; l’idea che i suoi nuovi contatti le si potessero presentare davanti in carne ed ossa non le piaceva per niente. Da casa usciva, tutta imbacuccuta e piena di timori, solo per comprare qualcosa da mangiare in un momento in cui era pressoché certa di non incontrare nessuno al supermercato.

Alice racconta che online aveva la possibilità di mostrare prima chi era dentro, e quello le piaceva, poiché a suo avviso le persone grasse vengono solo emarginate o snobbate. Lo aveva visto con i suoi occhi quando ancora frequentava la scuola: le sue amiche erano considerate perché magre, mentre lei non aveva mai la possibilità di andare oltre la sua fisicità. Grazie a Internet, invece, ora poteva mostrare la sua solarità, le sue emozioni e far apprezzare il suo essere. Senza bisogno di coprirsi o di sentirsi in difetto.

Alice, pian pianino, è diventata consapevole che quella in cui si era rifugiata era la sua “zona di comfort”: stare online così tante ore durante la giornata le permetteva di esprimere soltanto una parte di sé. Dopo un anno mezzo di autoreclusione ha conosciuto un ragazzo grazie alla Rete. Ha iniziato a uscire dal guscio, ma con molta fatica, e sempre di nascosto.

Oggi Alice si sente più sicura di sé, anche grazie al percorso clinico che ha seguito. Le sono serviti tanti anni per uscire dall’autoreclusione, per imparare a sentirsi sicura di sé. È persino riuscita a fare un viaggio fuori dall’Italia, molto grata al cammino psicoterapeutico fatto.

 

Giuseppe Lavenia è psicologo e psicoterapeuta, docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università di Ancona, e presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche e Cyberbullismo.

Roberta Saba è psicologa e ricercatrice della Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche.

 

Riferimenti bibliografici
Lavenia G. (2012), Internet e le sue dipendenze. Dal coinvolgimento alla psicopatologia, F. Angeli, Milano.
Lavenia G., Scala S. (2017), Net Addictions. Prigionieri della Rete, Delos Digital, s. l.
Lee Y. S., Lee J. Y., Choi T. Y., Choi J. T. (2013), «Home visitation program for detecting, evaluating and treating socially withdrawn youth in Korea», Psychiatry and Clinical Neurosciences, 67, 193-202.
Tajan N., Yukiko H., Pionnié-Dax N. (2017), «Hikikomori: The Japanese cabinet office’s 2016 survey of acute social withdrawal», The Asia-Pacific Journal, 15 (5).
Yong R. K. F., Kaneko Y. (2016), «Hikikomori, a phenomenon of social withdrawal and isolation in young adults marked by an anomic response to coping difficulties: A qualitative study exploring individual experiences from first- and second-person perspectives», Open Journal of Preventive Medicine, 6, 1-20.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 273 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui