Pino De Sario

La riunione di ascolto. Cioè di ri-motivazione

La riunione di ascolto è diversa da quella produttiva, e si svolge quando il gruppo è in burnout, oppure per immettere nuovo slancio ed entusiasmo in un ambiente pur non affetto da alte criticità. Un facilitatore media gli interventi di tutti, ognuno chiamato a esprimersi su di sé, ad ascoltare e a farsi ascoltare.

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Molte negatività nei gruppi di lavoro viaggiano rasenti la terra, strisciano, si avvertono, ma a livello di pensiero sono inimmaginabili, imprevedibili: sono di un livello automatico che alberga nel sistema nervoso che corre lungo il nostro corpo, che ci dona la contrazione e l’espansione di un movimento doppio su cui regnano il cervello, il cuore, i polmoni, la digestione, il sistema immunitario. Queste negatività automatiche corporee hanno sembianze gestuali, facciali, nei suoni di parole, negli atteggiamenti scostanti o separativi. Altre negatività sono accompagnate un po’ di più da parole, parole che si arrampicano su presunte pretese e attacchi, insoddisfazioni, sempre qualcosa che manca e che non c’è, turni, orari, gentilezze, attenzioni.

Queste due forme sono pressoché incontrollabili, corrono sui nervi scoperti del nostro cervello e del nostro corpo, in stretta relazione con gli altri e con le cose dell’ambiente in cui ci troviamo. Sarà forse che queste due forme contagiano riunioni e progetti, e sono aloni che le persone emanano e che facciamo molta fatica a capire, ma ancor di più a gestire, governare, trasformare?

Siamo molto complessi, in famiglia e al lavoro. Il panorama sotto gli occhi di tutti è a volte sufficiente, a volte anche buono, ma spesso è pure desolante, mediocre. Perché mai? Be’, se ci atteniamo alla sola cultura ragionatrice, logica, numerica, digitale, credo che non ne verremo mai a capo. La razionalità è utile? Certamente sì. Ma non ci aiuta se la adottiamo come mappa unica di riferimento.

IL CORPO, LE EMOZIONI, LA RAGIONE 

Ogni comportamento e ogni ufficio hanno 3 piani. Cosa vuol dire? Vuole dire che la nostra modalità interna con la quale costruiamo pensieri, facciamo lavori, progettiamo cose è tri-composta. La teoria è di un noto neuroscienziato, Paul MacLean, che nel 1964 pubblica una ricerca in cui rileva 3 aree distinte del nostro cervello, individuando 3 parti specifiche: una corporea, una emotiva e una razionale. 3 cervelli distinti e anche distanti per le loro differenti caratteristiche. Ecco quindi il “cervello tripartito”, frutto delle origini antiche di noi umani, per cui, appunto, siamo persone o uffici a 3 piani: il primo piano è dato dalla parte corporea, che ci spinge alla fisicità e alla materialità (tronco encefalico); il secondo piano è quello delle emozioni, che colora i fatti di sentimenti, di vissuti profondi, insomma di quelle che chiamiamo emozioni (cervello limbico); il terzo piano è finalmente la parte razionale, pensante, che immagina cosa pensa l’altro, che vede futuri, che nutre moralità e convivenze (cervello corticale).

L’errore molto grave è pensare che la razionalità sia sempre attingibile, sempre accesa, che basti fare appello ad essa: «Càlmati», «Dài, ragiona», «Fatevi venire pensieri positivi». Non è per niente così. Tanti studi dicono che siamo a “razionalità limitata” e che sono più i momenti in cui debordiamo in forme incongruenti e disattente, che quelli di lucidità, comprensione, pensiero complesso. Questi momenti restano presenti, ma sono solo una parte – piccola o grande è in base all’educazione, alla cultura e alla coltura. Sì, come per un campo di patate, siamo chiamati a coltivare il pensiero complesso, un cervello aperto, con le pratiche di innaffiamento, rincalzamento della terra, diserbo manuale delle erbacce. Infatti il nostro cervello, non per cattiveria o malattia, ma per evoluzione e imperfezioni raccolte lungo la sua storia filogenetica, è spesso chiuso, diviene micragnoso, piccolo, si infantilizza, inclina al populismo. Ci sono misure strumenti, conoscenzeche possono aiutarci a riaprirlo? La risposta è sì.

TRE CERVELLI E TRE PAROLE DIFFERENTI

Per esempio, la separazione tra le funzioni corticali e limbiche spiega come i nostri pensieri coscienti e razionali ci portino in una direzione, mentre le spinte emotive ci conducono di frequente nella direzione opposta. I cervelli 1 e 2 hanno caratteristiche automatiche, inconsce, di forte ripetitività e viaggiano un po’ per fatti loro, poco o del tutto scollegati dalla realtà. Il cervello 1 ha forti connotazioni mutuate dal mondo animale, in particolare dai rettili, ecco perché è detto anche “cervello rettiliano”; il cervello 3 è un po’ l’amministratore delegato del condominio, perché governa gli altri due, ma per la sua lentezza viene bypassato più volte al giorno dagli impulsi limbici e rettiliani, che corrono molto di più.

La teoria parla della separazione e anche della contiguità fra i 3 cervelli: nessuna emozione è slegata dal pensiero e molti pensieri generano emozioni; i comportamenti regressivi materiali sono numerosi, alcuni in ogni giornata, in cui ci prendono avidità, voracità, chiusure autistiche; la corticalità delle idee diviene spesso controllante e soffocante emozioni e corpo. Possiamo sintetizzarla così: la razionalità umana è profondamente impregnata di contenuti emotivi; nel profondo di noi tutti esiste una possibile insufficienza di controllo; e con i 3 cervelli, con tutte le loro forze differenti, a tratti patiamo l’assenza di un decisore centrale assoluto. In questo caso, che fare?

La via maestra è nel dono della parola. Le parole possono essere anche pietre, ma qui le evoco quali ancore fondamentali di salvezza, di trasformazione, di vicinanza, di comprensione. E tutti sappiamo che sono così. Ma non ci crediamo abbastanza, frustrati come siamo, tristi e chiusi quali diventiamo per il logorio della vita di tutti i giorni.

Quando progettiamo e contiamo i prodotti, va benissimo la corteccia. Quando ci confrontiamo e dibattiamo, già la corteccia non è più sufficiente, visto che si gonfia il cervello limbico (nel limbico agisce l’amigdala, area neurale che ci imprime un’allerta già dalla nascita): serve un’altra forma di parola.

LA CHIAVE È CONDIVIDERE E NOMINARE

Le emozioni non sono tanto vissuti mentali, come spesso erroneamente crediamo, sono veri e propri sommovimenti corporei che definiscono le situazioni che ci accadono nella quotidianità. Sono fenomeni dinamici prodotti dai nostri processi cerebrali in forte relazione con le vicende esterne dell’ambiente fisico e umano. Le emozioni hanno il duplice compito di espressione e gestione degli affetti. Le emozioni sono dei concentrati di energia nervosa che corre dentro di noi in stretta dinamica con le situazioni che attraversiamo.

Le emozioni sono uguali per tutti, più di quello che pensiamo. Sono infatti il frutto di un carattere innato ed ereditato in seno alla nostra specie umana. Le emozioni sono universali, perché sono il risultato della nostra evoluzione, poi ne vive anche una fetta costruita nella nostra personale storia biografica (queste sono emozioni individuali). Paul Ekman, celebre psicologo, nelle sue ricerche in varie parti del mondo sulle espressioni facciali delle emozioni è giunto a un concetto storico, che pone le emozioni umane come non esclusive, bensì presenti anche in altri animali; infatti, certe loro espressioni ricordano le nostre. Gli esseri umani non sono una specie creata da Dio separatamente.

La parola, dicevo prima, è la nostra strada maestra, per calmarci, capirci, pensare più insieme, coordinarci con gli altri, aiutarci. Tutte qualità assegnate alle convivenze (famigliare, lavorativa, sociale) e che ogni esperto di risorse umane sa benissimo quanto siano difficili da propugnare in un’azienda.

La prima cosa fondamentale da fare è prendere atto che i comportamenti sono fisiologicamente imbevuti di sensi difensivi, autoprotettivi, ripetitivi, suscettibili, contagiosi, negativi. Questa messa in conto rappresenta una mossa centrale, di legittimazione e di uguaglianza in un gruppo, per cui già da sola può aiutare.

Condividere. Un grande autore, Louis Cozolino, scrive: «Collocare i nostri personali punti di vista in una prospettiva sociale, conoscere i nostri limiti, le nostre tendenze e i pregiudizi e apprezzare l’importanza delle relazioni umane ci potrà condurre a un mondo più affettuoso e amichevole». Possiamo quindi parlarne in spazi ad hoc; mettere, cioè, comunicazione nelle emozioni negative e ricevere ascolto buono dall’altro ci aiuta a modulare le negatività, a rivalutarle, comprendendone il senso e l’insorgenza, in seno a un nuovo ponte benefico, tra emozione e cognizione. Con la condivisione nel gruppo di lavoro, tramite costruzione di appositi momenti buoni, andiamo a creare nuovi nessi in noi e nuovi nessi con gli altri, la nostra casa umana originale. Questi due nessi aggiungono acqua al pozzo della crescita del potenziale delle persone. Qui sta il quid. Parlare di sentimenti aiuta a gestirli e a far fiorire altre capacità attivate in altre parti del cervello, come lungimiranza, visione, intraprendenza, appartenenza, fiducia.

Nominare. Dare un nome a percezioni fisiche e a sentimenti emotivi, un lavoro semplice e anche naturale di identificare un’agitazione, una confusione o una tristezza, tende già a stemperarne il disagio, che invece aumenta se questi stati d’animo restano ruminanti chiusi dentro di noi. Fermarsi a denominare interrompe l’automaticità di abitudini apprese, di quel circolo vizioso di solitudini solipsistiche che qui prendono aria, come quando si apre una finestra in una stanza chiusa. Qui scatta una grande leva di cambiamento, per climi di gruppo migliori, con persone che un passo alla volta imparano ad autoregolarsi meglio.

LA RIUNIONE A TRE PIANI

Vista la grande gamma di attività innovative inserite nelle aziende mediante i programmi di welfare aziendale, perché non inserire anche l’attività di “riunione di ascolto” nel gruppo di lavoro? Non è da farsi da un giorno all’altro, ma neanche con particolari tatticismi o contorsioni. Basta che il conduttore abbia un minimo di formazione e la cosa può già prendere piede. Attività poi da inserire nei programmi di qualità, di diversity management, di empowerment, quando si devono collegare uffici e settori, quando occorre reinfondere un po’ di energia nel gruppo, quando si deve riparare dopo un periodo tossico provocato da più conflitti interni, quando è opportuno riprogettare e cambiare. Insomma, un po’ sempre, a mio avviso.

Da molti anni la propongo a gruppi in sanità, in polizia locale, nelle pubbliche amministrazioni, nelle aziende, tra insegnanti, e devo pure rilevare la forte resistenza che incontro al proposito. Una resistenza anche buona, comprensibile: le persone tendono ad attribuire alcune capacità umane e relazionali esclusivamente agli specialisti, cosa soltanto in parte giusta. Facilitarsi e facilitare invece è una funzione che corrisponde alla più piena professionalità e più piena produttività, solo che risponde non al pregresso novecentesco, ma alle nuove competenze sistemiche, ecologiche, olistiche del secolo in corso.

UNA TRASFUSIONE DIRETTA DI BENESSERE

La riunione di ascolto è un tipo di riunione diversa da quella produttiva, che va effettuata in particolare quando il gruppo è stressato, oppure quando manifesta evidenti segnali di esaurimento lavorativo (burnout), oppure per rigenerare rapporti e ambienti, anche quando le cose procedono bene. I membri si riuniscono per condividere come stanno e come vedono il lavoro, quali sono i problemi maggiori, cosa ognuno comprende dell’attività in corso. È un metodo detto “a bassa gerarchia”, c’è un facilitatore che agisce da conduttore, come riferimento non-direttivo, la funzione primaria è quella di esprimere e ascoltare.

Con la riunione di ascolto le persone si sentono viste e comprese, e questa funzione di ri-umanizzazione toglie i soggetti dall’anonimato. La de-umanizzazione è un fenomeno negativo graduale, “goccia a goccia”, che costruisce un cosiddetto volto cieco, composto unicamente da prestazioni, ruoli, mansioni, tempi di impiego. Il volto cieco all’improvviso può scatenare sindromi impreviste di tipo aggressivo o di chiusura congelata. Qui la negligenza è dell’organizzazione che non fa nulla per dare un volto aperto alle persone.

La riunione di ascolto mette in moto diversi fenomeni virtuosi. Dalle voci di partecipanti: «Siamo unici e siamo simili», «Condividere aiuta», «Siamo sulla stessa barca», «Tolleranza maggiore delle asperità del lavoro», «Riflessione sulle cose avvenute», «Senso di vicinanza con i colleghi». In definitiva rompe l’isolamento, che è un declino inevitabile che scatta in ogni aggregazione. La riunione di ascolto alimenta il senso di coesione e di vicinanza, qualità preziosissime, anzi fondamentali, che nessuna riunione produttiva potrà mai suscitare. Invece di tanti programmi con il PowerPoint sul benessere, possiamo introdurre riunioni semplici che danno ossigeno diretto, linfa, carburante, più di ogni altro set digitale o teorico. Una trasfusione diretta di benessere e fiducia.

I PASSI SEMPLICI DELLA RIUNIONE DI ASCOLTO

Ecco alcuni punti fondanti di una riunione di ascolto, detta anche “circle-time”, “il tempo nel cerchio”. Nei gruppi di lavoro una buona cultura organizzativa prevede la doppia centratura su produzione e partecipazione, quali due focus necessari e anche complementari tra loro. Le riunioni produttive curano di più l’ambito tecnico, dei ruoli e degli obiettivi. La riunione di ascolto, parimenti, quello del clima, delle emozioni e delle motivazioni.

1. Il formato di una riunione circolare di ascolto può essere di 30 minuti fino a 1 ora, non di più; è bene darle una periodicità (quindicinale, mensile, bimestrale) partendo da alcune prove iniziali.

2. Premessa e impostazione (10 minuti): contratto chiaro, del tipo: «in questa ora parliamo di come stiamo nel lavoro, ognuno può esprimere un suo parere liberamente, evitiamo il dibattito e il giusto/sbagliato». Scandire le regole essenziali: ognuno racconta di sé nella parità di turni brevi; chi ha il turno non viene interrotto; sono esclusi giudizi e dibattiti.

3. Fase circolare (45 minuti): la parola gira nel cerchio, è conveniente per il conduttore porre domande aperte e semplici, tipo «Come stiamo», o anche domande più mirate, tipo:
«Dite una cosa positiva e una negativa del nostro ufficio», oppure «Proviamo a descrivere un sentimento di questi giorni», o ancora «Cosa ci fa provare rabbia in questi giorni?». Nel circle-time si può chiedere al gruppo di focalizzare l’attenzione verso i sentimenti, cosa si prova, ma anche le percezioni nel corpo, le immagini e i pensieri, il ventaglio è molto aperto. Il conduttore rispetta e accoglie tutto quello che le persone sono in grado di condividere, senza alcun paletto sui contenuti: l’unico paletto è sui tempi (ognuno porta nel gruppo quello che sa e quello che può).

4. Conclusioni (5 minuti): conclusione del conduttore, che ringrazia e sintetizza: «Mi sembra che sia stato importante scambiare punti su come stiamo, è emerso… Adesso torniamo ai nostri compiti, alcuni spunti li riprenderemo nella riunione di lavoro di martedì». Le conclusioni possono essere mirate all’incontro svolto, come pure agganciarsi ad altre riunioni o cose che accadranno, certamente sempre con brevi accenni e indicazioni.

 

Pino De Sario è un esperto facilitatore, psicologo sociale e docente universitario. Dal 1995 costrui­sce il repertorio pratico della “facilitazione esperta”, strumento rivolto appositamente alle aziende, alle professioni, al sociale. Sue aree di interesse sono: lo sviluppo organizzativo, il coinvolgimento, la gestione delle negatività, il benessere nel lavoro, i leader empatici, la figura del facilitatore. Dirige la Scuola Facilitatori (www.scuolafacilitatori.it) ed è autore di vari volumi metodologici.

www.pinodesario.it


Bibliografia

Cozolino L. (2008), Il cervello sociale (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano.
Dana D. (2019), La teoria polivagale nella terapia (trad. it.), Giovanni Fioriti Editore, Roma.
De Sario P. (2017), L’intelligenza di unire, Mimesis, Milano-Udine.
De Sario P. (2021), Facilitazione, Franco Angeli, Milano. Ekman P. (1989), I volti della menzogna (trad. it.), Giunti, Firenze.
Liss J. (2004), L’ascolto profondo (trad. it.), La Meridiana, Molfetta.
MacLean P. (1984), Evoluzione del cervello e comportamento umano (trad. it.), Einaudi, Torino.
Porges S. (2018), La guida alla teoria polivagale (trad. it.), Giovanni Fioriti Editore, Roma.
Siegel D., (2001), La mente relazionale (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 285 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui