Anna Oliverio Ferraris

La resilienza in famiglia

La capacità di resistere alle avversità è un fattore fondamentale per gli individui ma anche per le famiglie. Questa capacità può assumere varie forme e, soprattutto, può essere insegnata.

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Con una metafora molto efficace la regista Ursula Meier ha descritto, in Home (2009), la vicenda di una famiglia molto affiatata ma poco resiliente. Il film si apre con una coppia di genitori e i loro tre figli, tutti quanti felici di vivere in una casetta unifamiliare al bordo di un’autostrada che non è mai stata inaugurata; ma quando, da un giorno all’altro, l’autostrada viene messa in funzione, la famiglia, aggredita dal rumore, dall’inquinamento e dalle continue vibrazioni, invece di cercare un nuovo domicilio, decide di barricarsi, accumulare provviste e trasformare la casetta in un bunker in cui rischia di morire soffocata. Ciò che spinge questa famiglia a resistere ad oltranza, superando la logica e il buon senso, è il mito dell’autosufficienza, che di fronte ad un evento drammatico e imprevisto porta ad un ripiegamento difensivo senza sbocchi.

Del tutto diversa è l'evoluzione descritta in Canada (un romanzo di Richard Ford), di una famiglia distrutta dagli eventi (i genitori in galera, la figlia che fugge con un compagno) eppure in grado di inviare in extremis un messaggio salvifico al protagonista della storia. Infatti, nel momento in cui l’esistenza del quindicenne Dell subisce una svolta drammatica e definitiva, la madre, nel separarsi da lui, gli consegna una prescrizione di vita che lo illuminerà negli anni a venire: «Nel processo di spiegare a te stesso le cose che vedi, riuscirai sempre a trovarvi un senso e a imparare ad accettare il mondo». Nella solitudine e nelle difficoltà che Dell dovrà affrontare in un paese straniero, questa prescrizione materna continuerà a sprigionare speranza ed energia come un prezioso talismano.

Certamente esistono anche situazioni più estreme in cui la famiglia non riesce a “installare” nei figli quel giroscopio psicologico (David Riesman in La folla solitaria) capace di tenerli in rotta e di aiutarli “a navigare nei torrenti”, secondo un’espressione di Boris Cyrulnik (2001), neuropsichiatra e scrittore di fama internazionale i cui genitori furono uccisi durante il secondo conflitto mondiale quando lui era ancora un bambino bisognoso di protezione e di cure.

In questi casi di completo abbandono serve allora trovare dei “tutori di resilienza” (educatori, amici, persone benevole, genitori adottivi, ecc.) che vogliano e sappiano svolgere quel ruolo affettivo, di sostegno e di guida che ci si aspetta eserciti la famiglia.

RESILIENZE FAMILIARI

Non c’è un unico percorso della resilienza in famiglia, ma varie possibilità in rapporto alle caratteristiche di funzionamento che esistevano prima del colpo subito, della cultura di cui la famiglia è portatrice, della specificità della situazione, dei tratti individuali di ognuno dei suoi membri. Resilienza familiare significa che dopo un trauma la famiglia riesce, prima o poi, a ritrovare un percorso, un senso e una sua funzionalità. La vita della famiglia è diversa da prima, ma, malgrado tutto, riprende il suo ciclo.

Una certa dose di elasticità è necessaria. Strategie che funzionano a breve termine possono richiedere delle modifiche nel corso del tempo.

Per esempio, con la morte di un membro anziano, un giovane, a volte un bambino, si assume per un certo periodo delle responsabilità che poi passerà ad altri. Una delle dimensioni della resilienza consiste proprio nella capacità di modificare il processo in corso, secondo le necessità e i momenti evolutivi.

Non tutti i familiari subiscono gli eventi negativi allo stesso modo e con la stessa intensità. Non tutti sviluppano allo stesso ritmo le medesime risorse. Alcuni possono riprendersi dopo una fase di confusione e spaesamento, altri, al contrario, restano a lungo chiusi nel dolore. Le resilienze individuali sono diverse, ma a volte si creano delle resilienze parziali che formano un sottosistema.

Così una fratria mostra delle capacità di sostegno specifiche tra fratelli e sorelle grazie a un buon rapporto precedente o a delle amicizie che essi hanno al di fuori del contesto familiare; mentre magari il sottosistema dei genitori, più direttamente coinvolto, resta ripiegato su una sofferenza traumatica insuperabile.

E ancora, un certo livello di funzionalità è mantenuto perché i genitori, prima dell’impatto che ha alterato la vita della famiglia, si sono presi cura dei figli, li hanno protetti e guidati: hanno inculcato in loro dei principi e delle direttive che a distanza di tempo si rivelano salvifiche, come nel caso raccontato in Canada.

Secondo Michel Delage (2008), autore di importanti studi sull’argomento, i fattori che interagiscono nel processo di resilienza familiare possono essere suddivisi in sette gruppi.

1) La convinzione secondo cui si può, malgrado tutto, uscire da una situazione drammatica. C’è qualcuno in famiglia in grado di trasmettere questo tipo di speranza.

2) La possibilità di avere una certa presa sugli eventi. Si accusa il colpo, ci si sente impotenti, poi si cerca una via d’uscita e la sensazione di controllo aumenta.

3) Mantenere e ristabilire un funzionamento organizzato, anche se l’organizzazione differisce da quella precedente. La famiglia deve poter continuare a svolgere le sue funzioni, sia pure modificando, là dove è necessario, la suddivisione delle funzioni e delle responsabilità. Bisogna trovare nuove forme di collaborazione, un accordo di massima, un reciproco sostegno su alcune scelte fondamentali.

4) La possibilità di ritrovare una qualche sicurezza o protezione sulla base delle relazioni preesistenti, sia interne alla famiglia sia esterne. La credenza nell’aldilà è di conforto, ma lo è anche il desiderio di mantenere sempre vivo in sé il ricordo di una persona cara.

5) Un’etica relazionale, che consente di prestarsi reciproca attenzione e di affidarsi gli uni agli altri senza il timore di essere prevaricati, sottovalutati o traditi. La famiglia sviluppa delle qualità morali di equità, giustizia e lealtà.

6) La capacità di mentalizzazione, che consente di rappresentarsi il futuro: si parla della propria esperienza (del proprio dolore, dei dubbi e della speranza) e il pensiero viene tradotto in parole, si racconta la realtà vissuta per meglio padroneggiarla. Nel caso del protagonista di Canada, la madre fornisce a Dell una indicazione che segna il cammino e lo aiuta a mantenersi in rotta.

7) L’apporto positivo dell’ambiente. I parenti, il quartiere, la comunità, le associazioni, possono essere dei validi supporti alla resilienza. I fattori extrafamiliari si intrecciano a quelli intrafamiliari.

Speranza, protezione e mentalizzazione sono, tra tutti, gli aspetti più rilevanti. Credere di potere uscire dal dramma è fondamentale per poter prendere delle iniziative. Il sentimento di sicurezza si alimenta della protezione degli altri. Il pensiero e la parola aiutano a contenere le emozioni e a riorganizzarsi.

EDUCARE ALLA RESILIENZA

La resilienza può essere insegnata? È il clima in cui si cresce che può favorire o deprimere la resilienza. I bambini hanno già in sé delle competenze per essere resilienti; compito dell’educatore è dunque quello di aiutarli ad avere fiducia nelle proprie risorse e farle emergere.

La fiducia è un aspetto primario che può essere rafforzato a qualsiasi età della vita. Con una metafora si può dire che così come possiamo potenziare i muscoli del corpo, allo stesso modo possiamo potenziare i fattori costitutivi della resilienza. Secondo Kenneth Ginsburg (2006), autore di una guida per i genitori, gli ingredienti fondamentali di una educazione alla resilienza possono essere riassunti in sette punti.

Competenza. La capacità di affrontare situazioni e problemi viene acquisita attraverso l’esperienza diretta e sviluppando una serie di abilità consone al proprio stadio di sviluppo. Saper fare attivamente le cose genera fiducia. L’educatore aiuta il bambino a mettere in campo le proprie capacità, a fronteggiare le difficoltà e le paure, a compiere delle scelte. Gli fornisce degli utili feedback per orientarsi. Dà affetto e protezione ma evita di mostrarsi apprensivo, di assumere atteggiamenti iperprotettivi e di fare confronti sgradevoli con fratelli, amici, compagni.

Fiducia in se stesso. Non è una sensazione astratta di onnipotenza, ma una fiducia realistica nelle proprie possibilità. L’educatore non tratta il bambino/ragazzo come un incapace, lo aiuta bensì a riconoscere la validità di ciò che ha realizzato. Le aspettative nei suoi confronti sono realistiche e quando sbaglia non lo umilia, non lo canzona, ma gli ricorda che può fare meglio.

Legami sociali. Coloro che hanno forti legami sociali con i familiari, gli amici e la comunità si sentono più al sicuro. Ciò fa sì che non debbano comportarsi in modi distruttivi per farsi notare, ricevere attenzioni e mettersi al centro. I legami sociali extrafamiliari portano a identificarsi con un mondo più vasto e a sentirsi a proprio agio anche fuori casa. L’educatore incoraggia la partecipazione a gruppi e attività esterne alla famiglia; fa sentire il bambino/ragazzo benvoluto e gli consente di esprimere le emozioni, anche quelle negative; insegna a ridurre e gestire i conflitti invece che ignorarli.

Valori. Crescendo bisogna maturare la capacità di discriminare ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. È grazie a questa capacità che si possono compiere delle scelte che consentono di essere affidabili, capaci di contribuire al bene proprio e della collettività. L’educatore aiuta a riconoscere e a chiarire i valori, sottolinea gli effetti che i comportamenti hanno su di sé e sulle altre persone, insegna a prendersi cura degli altri, a vivere in comunità, a non diventare vittime di stereotipi.

Contribuire. Bambini e ragazzi devono rendersi conto che il mondo può essere migliore perché essi ne fanno parte. Questa convinzione motiva a prender parte alla vita della collettività. Non ci si limita ad agire, ma si fanno delle scelte volte a migliorare la società e i legami tra le persone. L’educatore favorisce il senso di appartenenza alla comunità, fa notare come alcuni siano sfavoriti e sottolinea la necessità di aiutarli; incoraggia l’assunzione di responsabilità nel quotidiano.

Fronteggiare. Coloro che imparano a fronteggiare gli stress da bambini sono più equipaggiati di fronte alle difficoltà dell’esistenza. La migliore protezione contro minacce e pericoli è disporre di un ampio repertorio di strategie efficaci che nell’infanzia si apprendono imitando le proprie figure di riferimento. L’educatore incoraggia il dialogo e la condivisione, favorisce i giochi di movimento, la creatività, il sonno, il rilassamento e una dieta sana; sa che non bisogna limitarsi a condannare i comportamenti negativi perché questo può spingere un ragazzo verso ulteriori negatività.

Controllo. Quando ci si rende conto di poter controllare le proprie decisioni e azioni, ci si rende anche conto di poter resistere, di poter fare la differenza, il che potenzia la fiducia e promuove l’acquisizione di ulteriori competenze. Al contrario, se sono sempre e soltanto i genitori a prendere le decisioni, i giovani non hanno modo di imparare. E poiché individuano il controllo in qualcosa di esterno a loro, possono desistere dall’impegnarsi e dal responsabilizzarsi. L’educatore aiuta a comprendere che ciò che capita nella vita non sempre avviene a caso, ma è spesso il risultato delle azioni e delle scelte di qualcuno; fa comprendere che di molti eventi negativi non si è responsabili (per esempio del divorzio dei genitori); che questi eventi si superano pensando al futuro; aiuta a riconoscere i piccoli successi e a comprendere che non si può controllare tutto, ma si può affrontare il rischio scegliendo i comportamenti più efficaci.

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Questo articolo è di ed è presente nel numero 246 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui