Giuseppe Riva

La dipendenza dalle tecnologie

Quali sono i segnali che attestano una dipendenza dai media tecnologici? e quanto è consapevole l’utente di sacrificare parte della sua esistenza alla dimensione online?

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I dati disponibili evidenziano chiaramente come il tempo passato online continui ad aumentare. Secondo la società ComScore ciascun italiano trascorre in media ogni mese 72 ore online, più di due ore al giorno, con differenze significative per età e sesso. I più connessi sono i giovani tra i 18 e i 24 anni, che superano le 3 ore al giorno, mentre oltre i 35 anni non si superano le 2 ore. Le donne maggiorenni, inoltre, con 78 ore medie al mese sono connesse più a lungo degli uomini maggiorenni (66 ore al mese). E la tendenza è quella di un ulteriore aumento: il tempo passato online è aumentato del 10% nell’ultimo anno e del 50% negli ultimi quattro. 

Che cosa implicano questi numeri? Come sottolinea Brent Coker, ricercatore dell’Università di Melbourne, se un uso moderato delle nuove tecnologie – al massimo 2-3 ore al giorno – può portare a un aumento di produttività, superare significativamente questa soglia può nascondere una vera e propria dipendenza, con impatti significativi sulla produttività individuale e sulla dimensione relazionale.

Ma perché passiamo sempre più tempo online? Da una parte, come abbiamo visto in numeri precedenti di questa rivista, la maggior parte dei giovanissimi, se può scegliere, preferisce comunicare online piuttosto che faccia a faccia. Dall’altra parte, le stesse società tecnologiche hanno sviluppato tecniche sempre più sofisticate per evitare che i propri utenti tornino offline. Come ha dichiarato all’ANSA Sean Parker, già presidente di Facebook, i social media sono stati costruiti per «approfittare delle vulnerabilità della psicologia umana con un meccanismo che crea dipendenza come una droga. Ormai abbiamo tutti bisogno di quella piccola scarica di dopamina provocata dal “mi piace” o dai commenti su una foto che postiamo, è un “feedback loop” di validazione sociale».

Per diversi analisti e il suo stesso ex presidente, Facebook ha studiato i meccanismi legati alla dipendenza e li ha utilizzati nella creazione della propria esperienza d’uso con l’obiettivo di mantenere i propri utenti il più possibile all’interno della piattaforma. Una delle società americane che si occupano esplicitamente di questi meccanismi è Boundless Mind. Scrive la società sul proprio sito: «Entrate e viralità dipendono dal coinvolgimento e dalla fidelizzazione. Diventare l’abitudine di un utente è necessario per la sopravvivenza di un’applicazione. Fortunatamente, le abitudini sono programmabili: facciamo ciò per cui siamo rinforzati. Ciò che ci delizia. Ottenere il rinforzo giusto non è fortuna, è scienza. Neuroscienze, in particolare». In pratica, questa società aiuta le aziende che sviluppano app a rendere dipendenti i propri utenti per guadagnare di più.

Ma che cosa fa esattamente Boundless Mind? Cerca di generare un ciclo di retroazione in grado di aumentare il livello di dopamina del soggetto durante l’esperienza tecnologica. Il meccanismo a grandi linee è il seguente. Attraverso una serie di prove con gli utenti vengono identificate le esperienze tecnologiche in grado di generare un aumento del livello della dopamina. Tipicamente sono i meccanismi di ricompensa – nel caso di Facebook, il ricevere un “mi piace” o una richiesta di amicizia – a produrre più dopamina. Poi sono identificati dei meccanismi per associare in maniera casuale la ricompensa all’esperienza: meno l’ottenimento della ricompensa è prevedibile a priori dall’utente, maggiore sarà il livello di dopamina generato dalla ricompensa. Infine si cerca di attribuire alla ricompensa un valore sociale che attribuisca all’utente uno status differente da quello degli altri: se prima eri “utente principiante”, poi diventi “utente esperto” e alla fine “utente super”. Il tutto, supportato dall’utilizzo di tecniche di neuroimaging, come la Tomografia a Emissione di Positroni (PET), che consentono di verificare le effettive variazioni del livello di dopamina nel cervello dell’utente.

Questo processo genera un meccanismo di retroazione che progressivamente spingerà l’utente ad aumentare la frequenza e la durata di utilizzo, per riuscire a mantenere il livello di piacere generato dalle prime esperienze, con il rischio di diventare dipendenti.

L’espressione “disturbo di dipendenza da Internet” (Internet addiction disorder) indica infatti un disturbo psicofisiologico caratterizzato da dipendenza, perdita delle relazioni interpersonali, modificazioni dell’umore, alterazione del vissuto temporale quali risultati dell’attenzione esclusivamente orientata all’impiego della tecnologia. Per valutare la possibile dipendenza dall’uso della tecnologia la letteratura ha suggerito i seguenti criteri:

1. Il soggetto è eccessivamente assorbito dai media digitali (per esempio, è eccessivamente assorbito nel rivivere esperienze passate, o nel soppesare o programmare l’esperienza successiva).

2. Il soggetto ha bisogno di trascorrere nei media digitali quantità crescenti di tempo per raggiungere l’eccitazione desiderata.

3. Il soggetto ha ripetutamente tentato senza successo di controllare, ridurre o interrompere l’esperienza dei media digitali.

4. Il soggetto è irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere l’esperienza dei media digitali.

5. Il soggetto è rimasto nel cyberspazio più tempo di quanto avesse previsto inizialmente.

6. Il soggetto ha messo a repentaglio o perduto una relazione significativa, il lavoro oppure opportunità scolastiche e di carriera per usare i media digitali.

7. Il soggetto mente ai membri della famiglia, al terapeuta o ad altri per occultare l’entità del proprio coinvolgimento con i media digitali.

8. Il soggetto ricorre ai media digitali per sfuggire a problemi o per alleviare un umore disforico (per esempio, sentimenti di impotenza, colpa, ansia, depressione).

Esiste un dibattito ancora aperto sul processo di diagnosi, che non ha ancora permesso di inserire la dipendenza da Internet all’interno di un manuale diagnostico. Tuttavia, se un soggetto risponde a tutti i primi 5 criteri appena elencati – più almeno uno degli ultimi 3 – il rischio di dipendenza è elevato.
Cosa fare in questo caso? Il primo passo può essere quello di aiutare il soggetto a prendere consapevolezza della situazione, per esempio rilevando quanto tempo passa online. Subito dopo può provare a identificare dei momenti fissi della giornata in cui smettere di guardare i social o spegnere il cellulare. Se però la situazione non migliora, la strategia più efficace rimane quella di chiedere aiuto a un professionista.

 

Giuseppe Riva è ordinario di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, Selfie. Narcisismo e identità (Il Mulino, 2016). 
giusepperiva.com

Questo articolo è di ed è presente nel numero 273 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui