Intervista a: Roberta Milanese
di: Paola A. Sacchetti

La comunicazione di guerra

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La comunicazione di guerra, da sempre, è stata improntata a far emergere le vittorie del proprio schieramento, per sollevare il morale di truppe e popolo, a filtrare le notizie, piegandole alle proprie esigenze belliche, facendo quindi “propaganda”. Oggi, nel tempo di internet, dei social, dei media online, della globalizzazione delle informazioni, la guerra si combatte non solo con le armi, ma anche con le narrazioni e le immagini: una comunicazione capace di influenzare l’opinione pubblica non solo nei territori teatro di guerra ma in tutto il mondo. La vera svolta, iniziata con la guerra in Vietnam dove i media hanno trasformato la gestione delle informazioni di guerra rendendole pubbliche e visibili a tutti, è arrivata con la guerra del Golfo nel 1991, in cui la strategia comunicativa delle parole e delle immagini ha assunto un ruolo centrale. E di cui siamo stati spettatori in questi anni e nell’attuale guerra in Ucraina.

Dott.ssa Milanese, ci può spiegare meglio che cos’è la comunicazione di guerra e come è cambiata in questi anni?

Tradizionalmente la “comunicazione di guerra” rimanda al concetto di “propaganda”, ovvero quell’insieme di tecniche di comunicazione persuasoria, o sarebbe meglio dire manipolatoria, consapevolmente utilizzate per influenzare l’opinione di popolazioni specifiche (l’opinione pubblica nazionale, internazionale o del paese nemico) in vista di differenti obiettivi (ottenere un maggior consenso interno, screditare il nemico, ottenere aiuti dagli alleati, ecc.). La comunicazione di guerra è cambiata notevolmente negli ultimi cento anni. Nella Prima guerra mondiale il protagonista è stato il cinema, che permetteva di raccogliere il consenso delle masse tramite cinegiornali che esaltavano le imprese militari del proprio paese. Nella Seconda guerra mondiale il mezzo principale è stata la radio, che permetteva, per la prima volta, di comunicare (e influenzare) contemporaneamente milioni di persone, dando origine a una “guerra psicologica” parallela a quella combattuta con le armi. La guerra del Vietnam è stata la prima a entrare nelle case grazie alla televisione, determinando un dissenso così forte nell’opinione pubblica americana da influenzare pesantemente anche l’andamento della guerra stessa. La guerra del Golfo del 1991 è stata invece caratterizzata dalla manipolazione di gran parte delle informazioni per legittimare l’azione militare. La narrazione era di una guerra “chirurgica”, senza vittime, in cui i missili veniva impiegati solo per colpire obiettivi militari; totalmente assenti immagini di sangue e morti. Situazione radicalmente differente è quella che stiamo vivendo oggi con la guerra in Ucraina, le cui immagini di morte e distruzione irrompono quotidianamente nelle nostre case tramite la televisione e Internet. Ora come non mai è evidente che l’informazione è diventata un’arma strategica.

Se le informazioni sono anch’esse un’arma strategica e fornire – e manipolare – le informazioni è fonte di potere, quali effetti questa strategia ha avuto e avrà nel nostro modo di relazionarci ai conflitti bellici?

È indubbio che il modo in cui la comunicazione è stata utilizzata ha avuto un grande impatto negli scorsi conflitti, influenzandone spesso l’andamento o, addirittura, l’esito finale. Si tratta di modalità comunicative studiate ad hoc per produrre un forte impatto emotivo, parlando al “cuore” più che alla “mente”, vera sede dei nostri processi decisionali. Le moderne neuroscienze, infatti, hanno dimostrato che anche le scelte che riteniamo di aver preso “razionalmente” sono fortemente influenzate dal nostro “paleoencefalo”, ovvero il nostro cervello più arcaico, sede delle emozioni. Pensiamo, per esempio, ai discorsi motivazionali dei leader del passato, pieni di immagini evocative e sapientemente costruiti per evocare negli altri le emozioni desiderate: «Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore» (Wiston Churchill), «È meglio vivere un anno da leoni che centro anni da pecora» (Benito Mussolini) o alle scenografie trionfali con cui appariva Hitler nei cinefilm di guerra. E, oggi come ieri, a Putin, che si mostra in tv al centro di un enorme stadio gremito da gente inneggiante, ma anche ai toccanti discorsi di Zelensky di fronte ai Parlamenti dei diversi Paesi, in grado di far risuonare profondamente le corde emotive dei differenti popoli a cui si rivolge. È la capacità di produrre emozioni la leva principale per influenzare la percezione che gli individui e le masse hanno di un conflitto. Non per niente, uno dei primi atti che i regimi totalitari adottano è assumere il controllo dell’informazione, censurando o addirittura oscurando i media che non supportano il regime. Ma il fatto di vivere in un Paese democratico non deve farci credere che siamo immuni da manipolazioni, volontarie o involontarie, delle informazioni. È argomento noto, infatti, che il mondo politico influenza le linee editoriali dei mezzi di informazione. Per non parlare del fatto che i social network, ma anche i siti di news, ci propongono notizie in linea con quelle che sono già le nostre preferenze e convinzioni, mappate grazie a sofisticati algoritmi. A questo si aggiungono la miriade di fake news che inondano la rete e che milioni di persone condividono ritenendole vere, contribuendo così al caos informativo in cui siamo immersi. È quindi importante aver ben presente che le informazioni che ci arrivano e che ci “muovono emozionalmente” hanno un enorme potere nell’influenzare le nostre opinioni riguardo ai conflitti bellici, limitando spesso la nostra capacità di avere una visione più lucida e obiettiva di quanto sta avvenendo.

Si tratta di usare la comunicazione come mezzo per influenzare a livello psicologico le persone e i Paesi alleati e nemici? In pratica, è una specie di “guerra psicologica” che affianca quella con le armi?

Esattamente. L’importanza dei fattori di influenzamento psicologico a sostegno delle operazioni militari è riconosciuta da sempre, sebbene sia solo a partire dalla Seconda guerra mondiale che sono state formalizzate le cosiddette “operazioni psicologiche” (in inglese Psyops, psychological operations), un complesso di attività psicologiche messe in atto mediante l’uso programmato delle comunicazioni per influenzare particolari gruppi (i cosiddetti “gruppi obiettivo”: governi, opinioni pubbliche, organizzazioni di vario tipo, amici, nemici o neutrali) in vista del raggiungimento dei propri obiettivi politici e militari. Tipiche operazioni psicologiche, usate principalmente in passato, sono le intromissioni nelle frequenze radio e televisive e il lancio di volantini dal cielo per trasmettere messaggi volti a influenzare l’opinione pubblica o le truppe (come nel famoso volo su Trieste di Gabriele D’Annunzio). Ma è con l’avvento della tv che la possibilità di influenzare l’opinione pubblica ha assunto proporzioni enormi, grazie alla scelta sapiente della narrazione da sostenere e delle immagini da mostrare, i più potenti stimolatori di emozioni che esistano. Senza scivolare in teorie complottistiche (anch’esse, peraltro, abilmente trasmesse con efficaci modalità comunicative), ricordiamo che la scelta di trasmettere un’immagine o un’intervista invece di un’altra non è mai neutra, fosse solo perché rappresenta il punto di vista di chi ha deciso di mandarla in onda. Non per niente, nel 1997 Umberto Eco scriveva: «i media fanno parte della guerra e dei suoi strumenti e quindi è pericoloso considerarle territorio neutro». La comunicazione dei media ha un impatto sulla popolazione tale da farla apparire quasi come un “esercito parallelo” e costituiscono una buona percentuale delle possibilità di riuscita di una guerra.

Nel momento in cui ognuno di noi si misura con le fake news, dalle “semplici” bufale alle notizie create appositamente per fare disinformazione in ambiti e campi diversissimi, riuscire a comprendere quali informazioni siano vere e quali no risulta sempre più complesso. Se pensiamo alla guerra in Ucraina, spesso aspettiamo di leggere o vedere notizie verificate e confermate da più fonti, sempre più diffidenti e incerti. Se la censura, la disinformazione e la propaganda sono sempre stati elementi chiave nei conflitti bellici, oggi che valore assumono? Come possiamo orientarci tra le fake news e “difenderci”?

Con la diffusione della rete e dei social network il mondo informativo si è inevitabilmente complicato e, potremmo dire, ingarbugliato. Se prima il controllo delle informazioni era appannaggio privilegiato dei governi o comunque di coloro che potevano influenzare i mass media, oggi praticamente chiunque sappia muoversi nello sconfinato mondo di Internet è in grado di produrre e diffondere notizie, vere o false. Informazioni che poi persone in buona fede condividono rendendole virali e accreditandone inconsapevolmente l’autenticità. Come per la pandemia da Covid-19, anche per la guerra in Ucraina siamo di fronte al fenomeno denominato “infodemia”, ovvero un diffondersi rapido e incontrollato (“virale”) di notizie non necessariamente veritiere, che hanno reso sempre più difficile orientarsi. Questa “overdose” di immagini sta producendo effetti dannosi: non solo il disorientamento rispetto alle informazioni parziali se non decisamente contradditorie, ma anche l’insorgere di intense paure e angosce alimentate dalle continue immagini di distruzione e morte che ci vengono continuamente proposte dai mass media. Come psicoterapeuta, sempre più spesso mi trovo di fronte a persone terrorizzate o addolorate come se stessero vivendo in prima persona l’orrore della guerra. Ovviamente non mi sto riferendo alla normale empatia, che sta producendo anche encomiabili iniziative di solidarietà verso il popolo ucraino, ma all’esplosione di malesseri acuti, se non veri e propri disturbi, a carico di persone già fortemente provate da due anni di pandemia.

“Difenderci” è quindi indispensabile. Di fronte alla confusione informativa, l’antidoto che possiamo utilizzare è quello di ridurre le nostre fonti di informazione, selezionandole criticamente senza farci condurre passivamente da quelle che ci “arrivano”. Nel far questo, dovremmo mantenerci anche aperti a differenti punti di vista, cercando attivamente informazioni che possano darci una visione più completa e meno parziale di quello che sta avvenendo. Potremmo, per esempio, selezionare una testata giornalistica o un sito – seri – che propongono una visione della realtà differente dalla nostra, leggere giornali o siti di altri Paesi, o qualunque altro modo che ci permetta di diversificare le nostre fonti di informazione. Sul fronte più emotivo, il consiglio è di limitare al minimo la visione di tg o trasmissioni sature di immagini di guerra, ricordando che se vogliamo essere pronti ad affrontare tempi difficili o essere di aiuto alle persone coinvolte in prima persona nella guerra, dobbiamo occuparci in primo luogo di mantenere la nostra stabilità ed equilibrio emotivo.

 

Roberta Milanese, psicologa e psicoterapeuta, docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica di Arezzo e Firenze e coordinatore didattico del Master di 1° e 2° livello in Comunicazione, Problem Solving, Scienza della Performance e Coaching strategico di Giorgio Nardone, svolge attività di psicoterapia, coaching e formazione. Inoltre è autrice di numerose pubblicazioni in ambito sia clinico che manageriale e per Psicologia Contemporanea si è occupata della rubrica “Comunicazione efficace”.

Paola A. Sacchetti, psicologa, formatrice, editor senior e consulente scientifico, da anni collabora con Psicologia Contemporanea, dove cura una parte della rubrica “Libri per la mente” e le “Interviste all’esperto”.