Moira Chiodini, Patrizia Meringolo

Il potere della comunicazione, ovvero quando il messaggio produce empowerment

L’empowerment, cioè il potenziamento di sé, è una risorsa fondamentale per l’autodeterminazione. Se l’impotenza è una costruzione sociale, la comunicazione può svolgere un ruolo chiave nell’accrescere la speranza e la motivazione.

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“Empowerment” è un termine ormai diffuso a livello comunicativo, diventato “virale” nei media, dal marketing al linguaggio comune, dagli studi scientifici alla pubblicità.

Qualche cenno storico: il costrutto di empowerment è nato in ambito sociopolitico, prima che psicologico, legato inizialmente alle lotte per i diritti della popolazione afroamericana negli Stati Uniti degli anni Settanta e successivamente – solo per citare gli esempi più conosciuti – alla Conferenza delle Donne tenuta a Pechino all’inizio degli anni Novanta. Dalla fine degli anni Settanta in poi diventa oggetto di analisi psicologica più approfondita, prima con Rappaport (1977) e poi con Zimmerman (2000), fino a costituire uno dei nuclei portanti della psicologia di comunità. Il fatto, tuttavia, di essere nato e cresciuto in un contesto sociale ha da sempre dato al concetto una rilevanza speciale nella cultura diffusa, fino a farlo diventare una icona comunicativa di tutto ciò che attiene all’autodeterminazione.

Relativamente alla comunicazione linguistico-lessicale, vale la pena notare che solo la lingua spagnola traduce il termine “empowerment” (con “empoderamiento”) e talvolta la lingua francese (con “autonomisation”, o anche “capacitation”): in genere si usa il termine originale perché “power” ha un significato più complesso, per esempio, dell’italiano “potere”, almeno per come viene utilizzato comunemente. “Power” rimanda all’attivazione, al potere di realizzare qualcosa, non tanto e non solo al potere su qualcosa o qualcuno. “Empowerment” è diventato quindi una etichetta comunicativa potente, usata (e talvolta abusata) in una pluralità di contesti.

L’IMPOTENZA INTERIORIZZATA

Vale la pena, perciò, di fare qualche precisazione. Di cosa parliamo quando parliamo di empowerment? In primo luogo, del passare dall’impotenza appresa alla speranza appresa. Numerosi e ripetuti fallimenti, nella vita personale o professionale, e soprattutto l’interiorizzazione dell’attribuire la causa di tutto ciò a caratteristiche personali stabili e a una situazione sociale immutabile, fanno sì che si strutturi l’incapacità anche solo di pensare a un cambiamento. Freire, a partire dal suo lavoro sulla pedagogia degli oppressi, ha coniato il termine “coscientizzazione” proprio per indicare il passaggio alla speranza appresa, che non è semplicemente conoscitivo, ma di consapevolezza profonda delle cause dell’esclusione, che sono storicamente determinate, non immutabili e non imputabili (o almeno non esclusivamente) a mancanza di risorse individuali.

La comunicazione – interpersonale e sociale – ha un effetto significativo nel rinforzare la percezione di impotenza. Mandare costantemente un messaggio di insufficiente capacità produce l’effetto di abbassare la motivazione al cambiamento. Interiorizzare l’impotenza diventa quindi qualcosa che, pur avendo a che fare con la disponibilità di risorse individuali, attiene alla forza della costruzione sociale della debolezza. In altre parole, ci si sente deboli non solo quando si è deboli, ma soprattutto quando e se il contesto ci ha etichettati come tali.

Possiamo portare alcuni esempi: l’impiego delle donne come piloti di aereo è relativamente recente. Pilotare un aereo non è qualcosa che richiede forza fisica o altre caratteristiche strutturalmente o biologicamente maschili. Eppure, storicamente la guida di tutti i veicoli è attribuita, comunicata e quindi percepita come un attributo maschile, e in particolare la guida degli aerei, diffusa in ambito militare prima che civile. Di conseguenza, essendo maggiore il numero di piloti maschi, ci si aspetta – con una stereotipia che difende e consolida lo status quo – che qualsiasi pilota non possa essere che un uomo. Alcuni anni fa una pilota raccontava che la formula «È il vostro pilota che vi saluta» (ovviamente declinata al femminile) rivolta ai passeggeri all’inizio del volo provocava inevitabilmente una serie di esclamazioni scaramantiche e perfino esplicite critiche alla sua presunta incompetenza.

Brown (2000) cita numerosi studi sulla minaccia stereotipica: se si comunica all’inizio di un compito che una certa categoria (le donne, gli afroamericani, le minoranze etniche) statisticamente raggiunge risultati inferiori, l’effetto che ne deriva nei candidati appartenenti a quel target è quello di abbassare le motivazioni a una buona performance o comunque – quando esista una voglia di rivalsa – di indurre uno stato d’ansia che non mette le persone nella disposizione d’animo migliore per svolgere una buona prova.

È dimostrato invece che gli incentivi comunicativi basati sull’apprezzamento piuttosto che sulla denigrazione migliorino perfino le performance fisiche (quelle che dovrebbero essere relativamente oggettive): immaginiamo quindi l’effetto su quelle socioculturali o scolastiche. E del resto è stato ampiamente studiato l’impatto della profezia che si autoavvera (descritta, tra gli altri, da Watzlawick et al., 1967), che agisce non solo nel contesto sociale ma anche come interiorizzazione individuale: chi di noi, specialmente se donna, non ha provato disagio nel sentirsi dire ripetutamente «Tanto non ti riesce», si trattasse di una manovra di parcheggio o di una sperimentazione di laboratorio? E chi di noi, arrabbiandosi o deprimendosi a seconda delle caratteristiche di ognuna, non ha finito per commettere errori o imprecisioni anche in procedure ben conosciute?

Ma uscire dall’impotenza appresa si può, a partire dall’acquisire consapevolezza che il cambiamento può esistere e che le nostre risorse possono cominciare a scalfire stereotipi e pregiudizi stratificati nel tempo.

SE L’EMPOWERMENT DIVENTA STIGMA

L’empowerment, tuttavia, può presentare paradossi (Zani, 2012) e non sempre l’applicazione del concetto funziona per promuovere un effettivo processo di cambiamento. Talvolta, infatti, l’ampiezza del cambiamento desiderato e il livello di rischio esistente sono particolarmente rilevanti, e allora vale la pena iniziare con un intervento che promuova la resilienza come un ponte adeguato verso l’empowerment.

Ma c’è dell’altro: in psicologia di comunità consideriamo basilare partire dalle risorse e non dai deficit. In alcuni casi, applicando impropriamente il costrutto di empowerment, e soprattutto circoscrivendolo a livello individuale, si rischia di avere un effetto iatrogeno. Che significa? Nel linguaggio medico tale effetto indica un danno funzionale attribuibile, in via diretta o indiretta, a un intervento terapeutico, o anche preventivo o diagnostico. Nel nostro caso, si può predisporre una – lodevolissima – azione per potenziare le capacità di una persona, ma l’averne fatto un “caso” individuale, bisognoso di compensi psicologici o sociali per il suo presunto deficit, finisce per etichettarla come persona problematica, e tale etichetta finisce per essere più dannosa della presunta devianza primaria, come insegnano i teorici della devianza quando affermano che è deviante ciò che viene etichettato come deviante.

L’intervento di empowerment, quindi, può perfino rivelarsi uno stigma. Pur senza dilungarci, in questa sede, nell’affascinante descrizione del tema fatta da Goffman (1963), con un testo classico che nel metodo e nel contenuto è stato anticipatore di molte elaborazioni successive, possiamo notare che lo stigma è funzionale a chi lo applica, mentre chi lo subisce è colui che probabilmente ne porta i segni e soprattutto, esattamente come avviene nella devianza primaria e secondaria, è riconoscibile come portatore di difformità. Lo erano gli ebrei tra i biondissimi ariani, lo erano gli omosessuali negli Stati Uniti degli anni Sessanta (quando scriveva Goffman), lo sono i rom, lo sono anche le donne quando sono impegnate in campi tradizionalmente considerati maschili. Possiamo osservare anche che lo stigma trae la sua forza dall’essere socialmente funzionale a una esclusione che si vuol rendere giustificabile (le epurazioni etniche, le esclusioni dal mercato del lavoro, la difesa della famiglia tradizionale) e soprattutto dall’essere comunicato e comunicabile, visibile e riconoscibile, in modo da influire sull’opinione pubblica.

UNA MASCHERA CHE DÀ FORMA AL VOLTO

La comunicazione, pertanto, può incrementare lo stigma. Numerose ricerche hanno dimostrato l’influenza delle componenti psicologiche stressogene sulle protezioni immunitarie. Possiamo, all’inverso, considerare l’empowerment, proprio perché è connesso al potenziamento di sé, all’autodeterminazione, alla percezione di autoefficacia e di controllo sugli eventi (anche avversi), come una sorta di “difesa immunitaria psichica”. Se lo stigma lo indebolisce – costantemente e inesorabilmente – diventa un boomerang per la salute fisica e psicologica, con una escalation che va dalla profezia che si autoavvera a una impotenza appresa strutturata e più difficilmente modificabile.

Proviamo a capovolgere il processo e a pensare in positivo: si può usare la stessa profezia che si autoavvera per incrementare le risorse? Nardone (2014) ha approfondito il concetto di “autoinganno”, riferito ai complessi meccanismi con cui “ci raccontiamo” qualcosa su di noi, rappresentandoci nel modo che ci sembra funzionale, finché il meccanismo non implode e diventa patogeno per noi e per il sistema in cui siamo inseriti. Talvolta queste abitudini rappresentano il vero problema psicologico perché siamo restii a verificarne l’efficacia e la veridicità.

Nardone, tuttavia, parla anche di strategie messe in atto nel corso del trattamento per permettere al paziente, per esempio, di immaginare la sua vita “al di là del problema” oppure di agire nelle situazioni quotidiane “come se” il disagio fosse già superato.

In medicina è noto l’effetto placebo di un farmaco senza alcun principio attivo ma che induce – a livelli diversi, a seconda della patologia – effetti simili a quelli del farmaco reale. Sono state svolte anche delle ricerche sull’uso di sostanze psicotrope (soft drink a basso contenuto di alcol, o cannabis light) in cui gli effetti attesi della sostanza sembrano preminenti rispetto alle modificazioni chimiche provocate da essa.

Ci domandiamo quindi se esista un effetto placebo utile per la crescita personale. Gli autoinganni terapeutici sembrano dimostrarlo. Ci sono stati inoltre studi longitudinali di psicologia sociale e di psicologia del lavoro che dimostrano come le aspettative di carriera influiscano – positivamente o negativamente – su come si svolgerà il futuro lavorativo o sociale degli individui. Watzlawick (1976) ha anche descritto fenomeni di vita quotidiana: veniamo influenzati da un oroscopo giornaliero positivo e finiamo per renderlo vero “semplicemente” leggendo in positivo i segnali che ci arrivano dall’ambiente e comportandoci da “vincenti” (che poi significa in maniera adeguata alle circostanze, e non giocando per perdere), fino ad arrivare alla sera con un bilancio favorevole della giornata.

In tutto ciò continua a giocare un ruolo fondamentale la comunicazione. Non a caso Watzlawick parla di effetti pragmatici della comunicazione. È difficile però che il cambiamento possa avvenire “in solitaria”, che una persona, cioè, possa essere allo stesso tempo il comunicante e il destinatario del messaggio. Questo perché l’autoinganno o l’effetto placebo seguono delle vie complesse e possono essere continuamente automanipolati: in altre parole è difficile che io sia un valutatore attendibile di me stesso e dei miei processi evolutivi o disfunzionali. Diventa quindi fondamentale l’intervento di qualcuno “esterno al sistema”, che generalmente è il terapeuta, o comunque un testimone attendibile del cambiamento da intraprendere.

Lo scrittore inglese Max Beerbohm (1897) racconta la storia di Lord George, avido e distruttivo, dedito al gioco d’azzardo e incurante delle relazioni con gli altri. Durante uno spettacolo Lord George incontra miss Jenny, una ballerina, e grazie all’intervento magico di un cupido se ne innamora e le chiede di sposarlo. Il suo iniziale mutamento, con l’acquisita capacità di provare sentimenti positivi, non basta tuttavia a cambiare la realtà. Miss Jenny lo rifiuta, perché dichiara di voler essere moglie solo di un uomo dal cui volto «traspaia santità», mentre quello di Lord George porta tutti i segni della sua vita discutibile. Non volendo rinunciare, il Lord si fa fare una maschera speciale di cera, con un viso da buono, che riesce a interessare l’amata, convincendola alle nozze. La sua vita a poco a poco si trasforma in un piacevole idillio. Arriva un giorno, però, in cui la magia sembra spezzarsi: la maschera gli viene strappata dal volto durante un litigio con una persona che irrompe dal passato. Lord George già immagina la disfatta, ma il momento fatidico rivela un finale inaspettato e al disvelamento la sua faccia reale sarà assolutamente identica alla maschera, che, ormai inutile, si scioglie al sole.

I riferimenti letterari al ritratto di Dorian Gray sono evidenti. Ma mentre nell’opera di Oscar Wilde l’aspetto reale rimaneva giovane e innocente, trasferendo età ed esperienze negative al ritratto nascosto agli altri, in questa novella la maschera condiziona la realtà fino a plasmarla alle sue sembianze. La maschera è ciò che si comunica agli altri, è il messaggio che viene inviato all’esterno, che riesce a modificare i comportamenti fino a plasmare l’interiorità. Può essere una metafora del “come se”, uno stratagemma che produce il cambiamento, perfino all’insaputa dello stesso soggetto. La comunicazione empowering, sia ricevuta (la costruzione di una maschera positiva) che agita (l’uso della stessa maschera nelle relazioni sociali), può quindi indurre un processo trasformativo che non ha più bisogno di meccanismi esterni per automantenersi.

Patrizia Meringolo, psicologa, è docente di Empowerment di comunità e Metodi qualitativi di ricerca all’Università di Firenze. Autrice di molte pubblicazioni scientifiche, i suoi interessi di ricerca riguardano la promozione della salute e la prevenzione della radicalizzazione violenta.

Moira Chiodini, psicologa e psicoterapeuta, e docente presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è responsabile dello studio clinico affiliato di Firenze, dove svolge attività di psicoterapia e consulenza.

 

Bibliografia

Beerbohm M. (1897), Storie fantastiche per uomini stanchi (trad. it.) Sellerio, Palermo, 1982.
Brown R. (2000), Group processes. Dynamics within and between groups, Blackwell Publishers, Oxford (trad. it. Psicologia sociale dei gruppi, Il Mulino, Bologna, 2005).
Goffman E. (1963), Stigma: l’identità negata (trad. it.), Ombre Corte, Verona, 2007.
Nardone G. (2014), L’arte di mentire a se stessi e agli altri, Ponte alle Grazie, Milano.
Rappaport J. (1977), Community psychology: Values, research, and action, Holt, Rinehart and Winston, New York.
Watzlawick P. (1976), How real is real? Confusion disinformation, communication, Random House, New York (trad. it. La realtà della realtà. Comunicazione, disinformazione, confusione, Astrolabio, Roma, 1976).
Watzlawick P., Beavin J. H., Jackson D. D. (1967), Pragmatica della comunicazione umana (trad. it.), Astrolabio, Roma, 1971.
Zani B. (2012), «Empowerment: analisi di un costrutto “intrigante”». In Psicologia di Comunità. Prospettive, idee, metodi, Carocci, Roma, pp. 135-162.
Zimmerman M. A. (2000), «Empowerment theory». In Handbook of community psychology, Springer,
Boston, pp. 43-63.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 285 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui