Pino De Sario

Il codice vincente

L’uso del “corpo esperto applicato” in riunione e nei colloqui di lavoro

Scopriamo alcune tecniche che ci aiutano a comunicare efficacemente con il corpo soprattutto in contesti di riunione e dell’organizzazione in generale.

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Tutti sappiamo che il nostro corpo e le nostre mani parlano. Gesti, tono di voce, contatto di occhi, postura, lo spazio fisico tra le persone possono “comunicare” molto di più di tante parole. Un noto terapeuta, Alexander Lowen, scrive: «In tanti anni di terapia ho capito che le parole non bastano a trasformare le persone. Se stai male, puoi parlare quanto vuoi, ma è il tuo corpo che dovrà cambiare».

In questi vent’anni, con colleghi, prendendo spunto dalla psicologia clinica, abbiamo costruito un sistema di “linguaggio corporeo intenzionale” rivolto a capi e coordinatori di gruppi, ma anche ad agenti della vendita e delle pubbliche relazioni, a coach e mentori. L’applicazione saliente è che il soggetto, o facilitatore, può ricorrere intenzionalmente a segni corporei, per dare più carica e più immediatezza alle sue mosse comunicative. È nato, così, un vero e proprio repertorio, detto “Corpo Esperto Applicato” (CEA): segni gestuali e accorgimenti che tendono a rimarcare la valenza di segno fisico, materiale, per facilitare l’interazione, spesso carica di barriere e malintesi, presso riunioni, colloqui, tavoli, front-office (De Sario, 2006).

GESTI PER FAR PARLARE NEGLI INCONTRI DI LAVORO

Uno dei punti più collaudati del repertorio è dato dalla Gestualità Intenzionale al Tavolo (GIT), alcuni movimenti delle mani particolarmente adatti al conduttore della riunione. A nostro avviso, gli incontri di lavoro aziendali è bene che riducano gli elementi di formalità e gerarchia, che ingessano persone e idee, per portarsi su modalità più inclusive, orizzontali, dette “circolari”. Ecco, in questa nuova forma circolare, la confusione e l’accavallamento diventano fattori più frequenti, che possiamo governare anche con l’aiuto di una gestualità adeguata.

Per esempio, per incoraggiare il parere dell’altro, invogliare anche i più introversi a prendere la parola, la “gestualità a vassoio” è molto efficace, quale emblema di apertura e ricezione.

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Il “vassoio” non è altro che il palmo aperto verso l’alto: è un segno molto efficace che il capo o il coach può agire per incrementare i fattori di relazione intersoggettiva, di indagine di un problema, per far esprimere anche chi a volte vorrebbe astenersi per non esporsi. Capiamo bene che oltre all’invito verbale il rinforzo gestuale può avere effetti sulla discussione molto importanti, per raccogliere appunto i pareri diversi e rappresentare un progetto o un problema in maniera più diretta e completa. Infatti, è meglio dar fondo alle diversità e divergenze nel confronto diretto del faccia a faccia, anziché condurre riunioni un po’ vuote che producono irritazione e pettegolezzo, già di per sé ineliminabili nei corridoi. Il “vassoio” è una gestualità di apertura e di orientamento alla relazione.

 

GESTI PER CONCRETIZZARE UNA RIUNIONE
Una gestualità che presidia la funzione opposta, e per questo complementare, è quella della “spada”, che sta a rinforzare il bisogno di direzione, regimazione, confine, anche limite. Qui la mano è a “taglio”, come nella figura che segue. Non basta nella riunione invogliare e includere offrendo la parola, occorre anche dare direzione e contenimento nel senso produttivo, concreto e operativo.

Vale quindi il gesto a “spada” per indurre il passaggio dalle parole ai fatti possibili, per far intendere ai parlanti che c’è come una parete di limite del tempo a disposizione, una parete con cui dover fare i conti, nelle idee e nelle loro possibili traduzioni in fatti praticabili. La “spada” è quindi icona di delimitazione, argine, confine, e di conseguenza è utile per alimentare l’orientamento al compito operativo.

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È chiaro anche che il gesto della mano va a rimarcare in simultanea la funzione della parola; il facilitatore lo può agire pure da solo, nel caso di persone che si dilungano, o anche quando esse divagano su piani solo teorici, senza spiragli di operatività. Il gesto, pertanto, rimarca e rinforza la parola in forma aggiunta, che viene detta “sopra” (o “meta”), per quella che si chiama “meta-comunicazione”. Molti operatori ci dicono che questa aggiunta non è per niente spontanea e facile da acquisire, e hanno ragione. D’altra parte, siamo tutti un po’ soggetti a forme di compostezza retrograda, perché troppo formale e ingessata, che non è più adeguata ai tempi in cui siamo, di per sé convulsi e governati dall’incertezza. Agli allievi diciamo infatti: «Metteteci più vitalità, più compartecipazione, più scambio effettivo, ché, così facendo, le idee e i progetti crescono e si fanno via via realtà».

TOGLIERE LA PAROLA AI VERBOSI
È circolare quel tipo di scambio comunicativo che si affida più frequentemente al cambio di emittente, colui che detiene il turno di parola. Nelle riunioni di lavoro sappiamo bene che di solito parlano sempre gli stessi, e questo è davvero un peccato, una perdita di varietà di idee e di risorse. Ma la cosa che abbiamo potuto studiare e riscontrare in tanti anni di attività è che con la modalità circolare, solo alternando la presa della parola, le persone tendono a coinvolgersi di più. Inclusione, coinvolgimento, coesione è come se si alimentassero per via diretta dal pozzo che ha un solo nome, “il pozzo del parlano tutti”.

Osserviamo che con la sola attenzione al cambio del turno, in molti momenti formativi e anche organizzativi è come se scattasse un fuoco centripeto in cui in molti si dispongono a dire la loro, e non solo gli estroversi, spesso anche i più chiusi. Tuttavia, uno dei problemi maggiori per far ciò è dato dai tanti monologhi, forme comunicative monopolizzatrici da parte di quelle persone, solitamente presenti in ogni gruppo, che tengono troppo la parola.

Il facilitatore, di suo, è proteso invece a far girare la parola. Si pone così il tema del togliere con garbo la parola, nei casi di verbosità reiterata. Qui il repertorio del corpo esperto suggerisce alcune mosse efficaci, rispetto alla sola parola, tra cui:

1. attivarsi, elettrizzarsi: manifestare con il linguaggio corporeo un plateale senso di agitazione, perché possa interferire intenzionalmente nella logorrea del parlante (gestualità a “scossa”);

2. indicare con il gesto la brevità: gestualità a “pinza”, indice e pollice che si allineano a formare appunto una pinza; il segno della pinza è da preferire a quello del “pugno che apre e chiude”, a cui attribuia­­mo un grado di eccessiva confidenza, inappropriata in sede pubblica;

3. spingere il soggetto in modo pressante e affermativo: con l’incalzamento imperativo, utilizzando sia la gestualità a “stop” sia la parola esortativa «Bene!»; qui il tono è squillante, e se è il caso occorre ripeterlo: «Bene! Bene!».

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Fin qui abbiamo illustrato come dei semplici gesti possano aiutarci nelle comunicazioni e nelle riunioni per incoraggiare la presa di parola, la ricerca di interventi concreti, infine in che modo cavarsela con i verbosi e monopolizzatori. Ora vediamo cosa il corpo esperto suggerisce nelle situazioni di front-office e di relazione con il pubblico: qui il lavoro di faccia è particolarmente importante, occorre infatti azionare con competenza la mimica facciale, per quella che abbiamo chiamato “faccia viva”.

LA FACCIA AL FRONT-OFFICE
La nozione di “faccia viva” prende spunto dal «sorriso sentito» di Ekman (1995), il massimo studioso delle emozioni raffigurate nei volti umani. Caratteristiche della “faccia viva”: occhi caldi, sopracciglia abbassate (vivo interesse), bocca morbida, angoli della bocca leggermente in su (pensieri e sentimenti positivi), guance rilasciate, contatto visivo, collo rilassato, piano sagittale leggermente proteso in avanti, accenni col capo (annuire, confermare). La faccia viva è un accorgimento buono per tutte le professioni pubbliche, dagli operatori agli insegnanti, dai medici agli infermieri.

Quando sorridiamo ci sentiamo più felici e quando ci sentiamo più felici sorridiamo. Il collegamento tra stati cerebrali è bidirezionale: se si attiva un livello inferiore nel corpo, viene innescato anche il livello superiore nella faccia; se si attiva un livello superiore facciale, sarà innescato anche un livello inferiore nel petto e nelle sensazioni corporee. Per esempio, l’attività dei muscoli facciali influenza strutture cerebrali che modificano le nostre sensazioni mentali e fisiche più estese. In pratica, fare un sorriso intenzionale ci cambia il cervello e le chimiche del nostro corpo. Ciò spiega l’importanza di dare una buona faccia, anche se le routine espressive ci portano ad avere sempre le stesse fattezze nel viso, spesso ingrugnite e corrucciate. Quindi, la “faccia viva” è una base corporea a cui protendere, non un diktat fisso e artificiale. Una buona faccia fa bene a chi abbiamo davanti e anche a noi che la attiviamo.

SUONI DI ASCOLTO ED EMPATIA
Anche i suoni, componente paralinguistica, sono un elemento importante del corpo esperto, visto che tengono vivo l’ascolto in riunione o nel colloquio, in particolare nei momenti di sensibilità, dispiacere, dubbio, raccapriccio. Pensiamo ai cosiddetti “marcatori vocali” di ascolto, piccoli suoni che fanno da specchio similare con la frase del collega o del superiore, manifestando una forma di ascolto attivo. Degli esempi sono: comprensione, ah; incertezza, mah; ascolto attento, mhm; dispiacere, ohh. A casa e al lavoro è un metodo che può dare molta sostanza all’ascolto, rendendolo più caldo ed empatico. Un’importante capacità di ascolto da mettere in riunione, in un colloquio, al tavolo. Al telefono, se omettiamo questa funzione fàtica, l’altro ci dice subito: «Ma, mi senti?».

Su questo piano del suono vocale, oltre ai marcatori molto importanti sono anche le varianti del tono della voce: le improvvise impennate o decelerazioni nel parlare, la coloritura, il ritmo ripetitivo e obbligato, la pronuncia nasale, le finali prolungate o tagliate, molte delle quali sono manifestazioni di “falsità” o di eccessivo controllo; questa è un’area che non si dovrebbe trascurare, perché evidenzia la presenza di scissioni di personalità. Destinare, quindi, un’attenzione a marcatori e suoni vocali per via intenzionale rientra a pieno titolo nel corpo esperto applicato, quale impiego di abilità corporee volontarie e consapevoli, finalizzate alla facilitazione degli scambi e dell’operatività quotidiana.

DIVENTARE DINAMI NELLO SPAZIO
Un ultimo aspetto importante, che costituisce una prima base di gesti intenzionali essenziali, è quello della “prossemica dinamica”. La prossemica studia l’uso dello spazio e della vicinanza-distanza tra i soggetti quando sono in relazione. Quanto siamo vicini e distanti connota il tipo di relazione e contribuisce a codificarne i messaggi stessi.

Per un consulente, un coordinatore, un coach, un formatore in aula, gli stessi membri del gruppo al tavolo, una prima buona regola è quella di evitare di star seduti fissi sempre nello stesso posto, ogni tanto cambiando posizione. La prossemica dinamica, tradotta in altri termini, può suonare così: cambiare posizione fisica per cambiare punto di vista sul contesto e sulle persone, per uno spostamento di prospettiva e per un decentramento spaziale attivo.

Pertanto, la prossemica dinamica, presso tavoli, colloqui, briefing, prevede movimenti e piccoli spostamenti, alterna fasi stanziali a fasi nomadi, che suggeriscono di tanto in tanto uno spostamento fisico. In altre parole, il facilitatore si offre in prima persona a una “dinamica di spazio”, spostandosi in posizioni diverse. Infatti, se assumiamo dislocazioni prossemiche diverse ci apriamo ai cosiddetti “attivatori di conoscenza”, nuovi saperi e apprendimenti, minuti ma importanti, per quell’episodio o evento.

Ecco le principali collocazioni spaziali da far ruotare:

1. prossemica frontale: disposizione di confronto con l’altro, ognuno mostra i propri conti e le proprie richieste; può essere anche scontro; ognuno ha la sua prospettiva differente e opposta (studio di sé e delle parti);

2. prossemica a fianco: disposizione di sostegno, il facilitatore si affianca al soggetto, in atteggiamento di ascolto, solidarietà e cooperazione; si assume la prospettiva dell’altro (studio di una parte);

3. prossemica in mezzo: disposizione tra le parti, il facilitatore, in posizione mediana, aiuta i partecipanti a dire la loro; il facilitatore è in posizione di terzietà, in cui intercetta le due prospettive differenti, a cui aggiunge la propria in forma di mediazione (studio delle parti);

4. prossemica in giro: investigazione, promenade, il facilitatore si fa nomade e circolando intorno al tavolo o nella stanza esplora i fatti, intercetta il clima, muove delle ipotesi (studio tra le parti).

Corpo esperto applicato, dunque, significa molte opportunità per comunicare e mobilizzarsi. In conclusione, però, una menzione a discapito va fatta. Questi gesti suggeriti ad adulti e professioni non vengono per niente naturali, anzi! Capi e coach ne rimarcano la sorpresa, ma anche una specie di impossibilità. Fare il “vassoio” con la mano diviene come un piccolo macigno che è complicato attivare. È così! Ma anch’io che scrivo, prima e durante la mia formazione non ero per niente in grado di agirlo, ero imbalsamato e inespressivo, come siamo un po’ tutti, figli di una cultura eccessivamente mentalizzata in cui le parole e i pensieri ingombrano fin troppo gli scambi. Anche il mio portamento era fermo al “non corpo”: che atrofizza le nostre presenze, così ferme e statiche, così poco connesse con le parole e con gli altri.

Per lo più invece, quando le parole diventano malintesi o anche pietre, i gesti intenzionali rappresentano un vero e proprio “codice vincente”, perché più immediato e produttivo. Il corpo esperto si può apprendere, è alla portata di tutti, per agevolare i tanti episodi giornalieri nelle riunioni e nei gruppi di lavoro, come alleato della parola, per una salute dei contesti certamente da incrementare.

Pino De Sario, psicologo dei gruppi e specialista in facilitazione, ha insegnato alla Università di Pisa. Ha pubblicato Professione facilitatore(F. Angeli, 2005) e L’intelligenza di unire (Mimesis, 2017). www.pinodesario.it.

Riferimenti bibliografici
Damasio A. (1995), L’errore di Cartesio (trad. it.), Adelphi, Milano.
De Sario P. (2006), Il facilitatore dei gruppi, Franco Angeli, Milano.
De Sario P. (2014), Il codice che vince, Franco Angeli, Milano.
Ekman P. (1995), I volti della menzogna (trad. it.), Giunti, Firenze.
Liss J., Stupiggia M. (1994), La terapia biosistemica, Franco Angeli, Milano.
Ricci Bitti P. E., Cortesi S. (1977), Comportamento non verbale e comunicazione, Il Mulino, Bologna.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 272 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui