Pietro Trabucchi

I sottili vantaggi di piangersi addosso

Perché il vittimismo rimane una grande tentazione per tutti gli esseri umani e perché molto dello stress che viviamo ce lo procuriamo da soli.

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Tutti gli organismi viventi, di fronte agli stimoli ambientali, si adattano o muoiono: gli unici che contemplano una terza possibilità, quella di autocommiserarsi, sono gli esseri umani.
Può sembrare una battuta, ma lo è solo in parte. Di fronte agli eventi sfavorevoli, noi umani possiamo essere classificati in base all’utilizzo prevalente dell’uno o dell’altro di due atteggiamenti fondamentali: rimboccarsi le maniche e agire per cambiare le cose; oppure lasciarsi andare all’autocommiserazione (self-pity) e al vittimismo.

A partire dagli anni Settanta, autori come Lazarus, Folkman ed Endler hanno contribuito ad elaborare il concetto di “coping”: con questo termine ci si riferisce all’insieme di strategie a cui un soggetto può ricorrere per fronteggiare gli eventi stressanti. Alcune di tali modalità sono adattive ed efficaci; altre si rivelano fortemente disfunzionali, a rischio di produrre ulteriore disagio per l’individuo. In poche parole, lo stress che viviamo non dipende solo dagli eventi oggettivi che avvengono nella realtà, ma deriva anche dalle cattive strategie di gestione che mettiamo in atto per rapportarci con gli eventi del mondo esterno.

In verità, anche se la psicologia occidentale ne parla da una cinquantina di anni, le riflessioni su questi due atteggiamenti fondamentali appartengono alla storia dell’umanità. Nel libro Resisto dunque sono cito una narrazione della tradizione buddhista che è in grado di esemplificare il concetto di coping disfunzionale molto più efficacemente di qualsiasi spiegazione accademica: è conosciuta come la “storia delle due frecce”.

Un uomo si è procurato dei nemici; e questi hanno giurato che prima o poi gliela faranno pagare. Egli, tuttavia, non fa nulla di concreto per prevenire o gestire la minaccia: cose come proteggersi, o nascondersi, oppure cercare una via di pacificazione. Non perché sia particolarmente coraggioso: semplicemente, per lui è più comodo disinteressarsi al problema. Un giorno, mentre cammina lungo un viottolo di campagna, ignora che i suoi nemici sono nascosti dietro alcuni alberi e stanno per tendergli un agguato. Così, quando giunge alla distanza favorevole, i nemici gli tirano una freccia: questa lo colpisce in pieno piantandosi nel suo sterno. Ed egli stupito cade all’indietro, restando per terra con la freccia piantata nel petto. I nemici escono dal nascondiglio e si avvicinano decisi a finirlo, ma rimangono stupefatti; perché costui, lungi dal cercare di salvarsi, non cerca di scappare, né di difendersi e neppure di implorare pietà. Si limita, piuttosto, a restarsene lì, disinteressato dal mondo esterno e tutto preso ad autocommmiserarsi e a maledire il destino e il mondo che «è stato ingiusto con lui».

La storia si chiude con la tradizionale annotazione che interpreta la metafora: l’uomo, in realtà, non è stato colpito da una sola freccia. Sono due quelle che lo hanno trafitto. La prima, quella visibile, gliel’ha tirata il mondo: è l’evento oggettivo, lo “stressor”. Ma la seconda, invisibile ai suoi occhi – e forse più mortale della prima –, se l’è tirata da solo. Si tratta di tutta la sofferenza in più che deriva dall’utilizzare atteggiamenti inadeguati, volti solo a negare la propria responsabilità o ad esternare le emozioni negative; sofferenza che si alimenta in un circolo vizioso di inadeguatezza e impotenza.

Esistono strategie di coping centrate sul problema: esse tentano di modificare la realtà. Ovviamente, non tutto può essere risolto o cambiato: non sempre possiamo “risolvere” una perdita, alcune malattie, alcune relazioni problematiche e tantomeno la morte. In molti casi, l’unica cosa che possiamo fare è cercare di prevenire. L’uomo della freccia, però, ha tralasciato tutto questo. E quando l’evento negativo è sopraggiunto, si è limitato ad adottare una strategia fallimentare: appunto, l’auto-commiserazione, il piangersi addosso, il vittimismo. Una strategia alquanto diffusa nella vita quotidiana di individui e organizzazioni. Qual è il vantaggio secondario nell’adottare strategie di questo genere? Credo che consista nel consentire di evitare la fatica immediata dell’impegno, il peso della responsabilità, la lotta per cambiare le cose. A breve termine un apparente grande vantaggio, ma sul lungo periodo una catastrofe.

Alcune sere fa, in occasione di un evento sociale, ho avuto la fortuna di conoscere Mattia Cattapan. Questo ragazzo pieno di vita, estroverso e loquace nel suo abito da sera, è stato vittima alcuni anni fa di un brutto incidente motociclistico durante una gara di enduro. Da allora è sulla sedia a rotelle. Ma la sua passione per gli sport a motore, e per lo sport in generale, non si è mai spenta. Sono passati solo cinque anni dalla sua catastrofe personale e Mattia ha già ripreso a gareggiare: gareggia con i normodotati nel Kart Cross e ha vinto alcune gare. Ha fondato un’associazione per coniugare sport di motori e disabilità e ha un sacco di progetti in testa. Egli ha bene in mente la differenza tra i due atteggiamenti: «Dopo l’incidente sono tornato bambino e ho dovuto reimparare tutto: a muovermi, ad andare in bagno, a lavarmi, a mangiare. Non immagini quanta fatica mi è costata. La tentazione di lasciarsi andare era fortissima: invece di rialzarmi e ricominciare a vivere, sarebbe stato molto più facile lasciarmi andare e passare il mio tempo a fare la vittima e a compiangermi. Molti lo fanno».

Pietro Trabucchi si occupa di motivazione, gestione dello stress e resilienza, in particolare applicata alla psicologia dello sport. Insegna all’Università di Verona.

Riferimenti bibliografici
Stöber J. (2003), «Self-pity: Exploring the links to personality, control beliefs, and anger», Journal of Personality, 71 (2), 183-220.
Trabucchi P. (201715), Resisto dunque sono, Corbaccio, Milano.
Zeidner M., Endler N. S. (Eds., 1996), Handbook of coping: Theory, research, applications, Wiley & Sons, New York.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 272 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui