Miriam Gandolfi

I bambini scrivono, ma gli adulti li sanno leggere?

Un approccio diverso ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) in età evolutiva.

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Lo studio dei processi di sviluppo rappresenta storicamente materia elettiva della psicologia dal momento che comprendere come si sviluppa un bambino aiuta a costruire un adulto. Si tratta di un ambito in cui sguardo complesso e interdisciplinarità sono indispensabili. Comprendere comportamenti e difficoltà della prima e seconda infanzia è una priorità.

DISTURBI SPECIFICI DELL'APPRENDIMENTO

Una priorità, i Disturbi Specifici dell’Apprendimento lo sono a tal punto da avere spinto il governo a promulgare una legge (n. 170/2010) che contiene le linee guida sia per i criteri diagnostici sia per gli interventi. Il testo è frutto del lavoro della Consensus Conference (2006-2007) che, con la stessa espressione, designa il metodo proposto da un gruppo di associazioni e tecnici, fra cui l’Associazione Italiana Dislessia e l’Associazione Italiana Ricerca Intervento nella Psicopatologia dell’Apprendimento.

La diagnosi di disturbi specifici dell’apprendimento riguarda soggetti intellettivamente normodotati o spesso iperdotati. È necessario porre una diagnosi differenziale da effetti secondari di disturbi della vista, dell’udito e dal deficit di attenzione (ADHD). Per le prime due disfunzioni è più facile l’individuazione di interferenze, mentre nel caso dell’ADHD il problema è assai più complesso, sia per le controversie sempre più frequenti nel contesto scientifico su tale categoria nosografica, sia per l’uso improprio che in ambito psicopatologico viene fatto del termine “comorbilità”. Benché di estreme importanza e attualità, non possiamo tuttavia affrontare il problema in questa sede.

I DSA si distinguono in disgrafia, dislessia, disortografia e discalculia, a seconda della prevalenza e tipologia delle difficoltà presenti. Trattandosi di bambini intelligenti totalmente consapevoli delle proprie difficoltà, sono continuamente esposti a esperienze di insuccesso e a vissuti di autosvalutazione, in particolare quello di figlio deludente. Dal momento che le linee guida ufficiali sostengono che si può porre diagnosi di dislessia, disgrafia, disortografia solo a partire dal secondo anno di scuola primaria, e di discalculia a partire dal terzo,si può comprendere quanto devastanti siano le conseguenze sul piano psicologico e comportamentale e quanto precocemente si avvii un processo di patologizzazione dei bambini. Attualmente i tecnici deputati alla diagnosi e al trattamento sono il neuropsichiatra infantile, lo psicologo, il logopedista. Alla scuola è fatto obbligo di definire un piano didattico personalizzato e di fornire una serie differenziata di interventi, fra cui l’impiego di ausili elettronici.

Fermo restando che l’acquisizione degli apprendimenti scolastici rappresenta un processo complesso, la domanda è: gli interventi posti in essere sono davvero efficaci e idonei per affrontare il problema? Come mai, a fronte di una cura pedagogica estrema nelle culture occidentalizzate, si registra un incremento esponenziale di tali difficoltà? In un’epoca in cui la medicina punta a fare diagnosi iperprecoci, com’è possibile giungere così tardi alla definizione di eventuali disturbi, con tutte le conseguenze cronicizzanti sul vissuto e sulla vita futura dei ragazzi? Infine, la domanda più interessante per gli studiosi della mente: come si spiega il paradosso secondo il quale soggetti intellettivamente dotati sono carenti proprio nelle acquisizioni basiche? (...)

Questo articolo è di ed è presente nel numero 265 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui