Diego Ingrassia

Gestione delle emozioni: il disprezzo

Il disprezzo è parente del disgusto, ma ne differisce per alcuni aspetti. È un’emozione collegata al nostro patrimonio di valori.

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Più volte all’interno di questa rubrica abbiamo ricordato che non esistono emozioni positive e negative, ma che ogni emozione, in particolare se teniamo conto dell’aspetto adattivo, svolge un ruolo utile e importante. Paul Ekman spiega che il disprezzo è parente stretto del disgusto, ma ne differisce per alcuni aspetti. Lo si prova, infatti, solo verso le persone e le loro azioni, in quanto il disprezzo è un’emozione strettamente connessa ai nostri principi morali e valoriali. La dimensione di riferimento è dunque l’interazione sociale, all’interno della quale il disprezzo svolge la funzione di modulare le relazioni tra le persone.

Può darsi che queste prime considerazioni non aiutino a cogliere l’aspetto positivo di tale emozione, o che inducano a pensare a relazioni umane regolate da sfida e inimicizia, anche perché, nel linguaggio comune, alla parola “disprezzo” viene assegnata quasi sempre una valenza fortemente negativa. Per chiarire quest’apparente contraddizione può essere utile riprendere in mano Il cosiddetto male, un libro che il padre dell’etologia moderna e premio Nobel, Konrad Lorenz, ha dedicato al tema dell’aggressività. Il titolo anticipa in qualche modo la tesi del volume, interamente dedicato a spiegare la funzione adattiva dell’aggressività intra-specifica, che a un primo sguardo sembrerebbe contraddire i principi di salvaguardia all’interno della specie.

L’aggressività intra-specifica svolge invece un ruolo di primaria importanza ai fini della conservazione della specie nel mondo animale: regola i comportamenti che presiedono al controllo del territorio, garantendo una distribuzione equilibrata degli appartenenti a una specie nello spazio vitale disponibile; seleziona i più forti, attraverso combattimenti fra rivali (selezione sessuale); stabilisce gerarchie all’interno del gruppo. Milioni di anni di evoluzione hanno generato meccanismi capaci di regolare questo tipo di aggressività, sviluppando comportamenti stereotipati che permettono agli individui di sfidarsi senza mettere realmente in pericolo la loro esistenza; questo tipo di scontri non ha infatti quasi mai effetti letali. L’importanza del lavoro di Lorenz consiste nell’aver dimostrato l’efficacia di tali comportamenti aggressivi ritualizzati, che riescono a sublimare l’atto violento in un atteggiamento di minaccia.

Prima di chiederci se questa eredità biologica funzioni con la medesima efficacia nelle comunità umane, possiamo affermare che tra le persone il disprezzo assolve la funzione di poter salvaguardare il proprio ruolo e affermare la propria superiorità evitando lo scontro fisico. Il trigger universale del disprezzo, cioè il suo attivatore, è contrastare un’azione ritenuta immorale o comunque contraria ai propri valori. I comportamenti che sostengono questa emozione possono limitarsi all’espressione del volto (un solo angolo della bocca si comprime e si solleva, la testa si inclina lievemente da un lato, come per guardare qualcuno dall’alto verso il basso), oppure essere accompagnati da qualche battuta sarcastica, per arrivare a segnalazioni più forti, come la derisione, lo scherno e in alcuni casi l’insulto. Il tradimento della fiducia, comportamenti inadeguati o aggressivi e la falsità sono situazioni che possono innescare il disprezzo. Appare evidente come la componente personale sia molto forte, perché siamo in presenza di un’emozione che va a toccare la nostra reputazione sociale, il giudizio sul nostro valore, la stima degli altri e la nostra autostima.

Gli aspetti legati alla gestione di tale emozione ci riportano alla domanda sull’efficacia di quei comportamenti ereditati biologicamente: il dubbio è più che lecito di fronte agli innumerevoli episodi di aggressione tra persone che si risolvono con esiti letali. Lorenz stesso nel suo trattato afferma che l’uso delle armi, per esempio, ha reso del tutto inefficaci antichi meccanismi che nulla avevano a che fare con l’utilizzo di coltelli o pistole. Un ulteriore aspetto può essere legato a una componente culturale che rende difficile assumere un atteggiamento remissivo e di sottomissione teso a inibire il comportamento violento.

Tutto ciò ci porta però a isolare l’aspetto che si rivela come fondamentale punto di partenza per poter gestire questa emozione; tale aspetto vale anche per le altre emozioni, ma nel caso del disprezzo è particolarmente importante perché ciò che è in gioco è una dinamica di relazione: la consapevolezza. Riuscire ad essere consapevoli della dinamica di relazione nella quale siamo coinvolti espande la nostra possibilità di azione e soprattutto ci aiuta a non cadere nel tranello della sfida, nella “escalation simmetrica” che degenera nell’aperto conflitto. Ci si può difendere molto bene, se siamo oggetto del disprezzo altrui, decidendo di non rispondere in modo simmetrico dal punto di vista relazionale e affidando la nostra risposta alle parole, utilizzate in modo indiretto oppure metaforico.

E se siamo noi, all’interno di una relazione, a provare disprezzo per l’altro? John Gottman, dell’Università di Washington, e Robert Levenson, dell’Università di Berkeley, hanno svolto una ricerca, durata quattro anni, su un campione di coppie, volta a scoprire quali comportamenti verbali e non-verbali fossero più frequenti nella loro dinamica di relazione e quali di essi fossero correlati al benessere emotivo oppure predittivi di un’eventuale rottura della loro relazione. Dall’attenta lettura dei dati statistici è emerso che le coppie sposate che manifestavano micro-espressioni facciali di disprezzo e disgusto nei confronti del partner, avevano poi divorziato in un arco temporale fra i quattro e i sei anni (questi dati sono emersi da uno studio follow-up, effettuato circa sei anni dopo, descritto nel dettaglio nel manuale Why marriages succeed or fail: What you can
learn from the breakthrough research to make your marriage last di Gottman). Lo studio dimostra che in assenza di consapevolezza, di fronte a questo tipo di emozioni, l’esito della relazione appare quasi scontato. Ma qualunque relazione è recuperabile se abbiamo consapevolezza delle nostre emozioni e siamo disposti a metterci in gioco con i nostri sentimenti, con l’intenzione di far evolvere quella situazione in modo positivo.

Paul Watzlawick assegnava a tale capacità, definita «metacomunicazione» (la capacità di parlare esplicitamente della relazione), un valore molto alto: «La capacità di metacomunicare in modo adeguato non solo è la conditio sine qua non della comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata al grosso problema della consapevolezza di sé e degli altri».

Diego Ingrassia, CEO di I&G Management, si è specializzato in Executive Coaching e si occupa di Assessment e Formazione comportamentale e manageriale presso importanti realtà multinazionali.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 278 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui