Anna Oliverio Ferraris

Figli tenuti all’oscuro

Ci sono figli di persone con disturbi mentali che si sentono in colpa verso di loro solo perché non conoscono la reale condizione del genitore.

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In quarta e quinta elementare, per due anni, Claudia ogni mattina si rifiutava di fare colazione, di vestirsi e di andare a scuola. E quando alla fine veniva portata in classe con la forza, cadeva preda di violenti attacchi di panico: respirazione affannosa, tachicardia, rossori, sudorazione. Soltanto al momento della ricreazione, quando poteva uscire all’aperto e correre in cortile con i compagni, si tranquillizzava. Erano state fatte varie ipotesi per spiegare questa sintomatologia: che temesse i brutti voti, che avesse paura dell’insegnante, che potesse essere vittima dei bulli della scuola. Era stata anche spostata di classe, per questi motivi, ma senza alcun miglioramento. 

Soltanto a distanza di anni Claudia comprese, da sola, la vera causa di quel marasma emotivo che si impossessava di lei ogni volta che doveva entrare a scuola e che in maniera affrettata era stato definito «fobia scolastica». In realtà, dietro a quel drastico rifiuto c’era il desiderio di restare a casa per sorvegliare che cosa sarebbe potuto accadere in sua assenza. La spaventavano e preoccupavano le crisi improvvise di suo padre, che in pochi attimi poteva passare dalla rabbia ai singhiozzi, dalle urla ai lamenti. Papà vedeva cose che gli altri non vedevano, sentiva voci che gli altri non sentivano e a volte, nel mezzo della notte, svegliava tutti, certo che la casa stesse andando a fuoco. 

Quando Claudia chiedeva spiegazioni – alla mamma, ai due fratelli maggiori, oppure ai nonni e agli zii – sui bizzarri comportamenti di papà le veniva risposto che andava tutto bene, che non c’era nulla di strano di cui preoccuparsi, che papà aveva soltanto bisogno di riposare, che se ne stesse tranquilla, in silenzio e soprattutto che non lo facesse mai arrabbiare. E così, mentre Claudia si era convinta che le crisi del padre fossero dovute a dei suoi comportamenti sbagliati, alla sua vivacità, al fatto di opporsi alla mamma o di fare delle scivolate rumorose sul parquet del corridoio, l’uomo alternava lunghi soggiorni in clinica ad altrettanto lunghi soggiorni a casa, dove veniva curato con farmaci antipsicotici.

Nel tentativo di proteggerla e di tenerla all’oscuro della malattia del padre, nessuno si azzardò mai a dire alla bambina la verità. Claudia intuiva però che gli adulti le stavano nascondendo qualcosa, il che la rendeva ansiosa, oltre che tormentata dai sensi di colpa per i propri capricci e comportamenti “sbagliati”. Era anche costretta a stare lontana da papà, con cui, da piccolina, le sarebbe piaciuto giocare e scherzare. Non sempre papà delirava o era depresso, c’erano anche dei periodi – settimane intere – in cui era allegro, ragionevole e scherzoso. Tutti quanti però cercavano, in un modo o nell’altro, di tenerla lontana da lui. Fu soltanto quando casualmente trovò nella libreria di casa, nascosto dietro a una lunga fila di libri di cucina, un grosso volume rilegato in pelle dal titolo Schizofrenia che Claudia poté capire che il padre soffriva di un grave disturbo bipolare. Nel frattempo, era arrivata ad avere 19 anni e nei confronti di papà aveva ormai sviluppato una serie di inibizioni, imbarazzi, dubbi e sospetti. Non riu­sciva più a parlare con lui in modo sciolto e spontaneo, temeva costantemente di sbagliare o di irritarlo.

«Se mi avessero detto che soffriva di quel disturbo», spiega oggi Claudia, «il nostro rapporto sarebbe stato diverso. Non avrei avuto paura di lui, come mi capitava spesso di avere da piccola, non avrei pensato di poter essere io la causa scatenante dei suoi deliri e delle sue crisi di rabbia, sarei andata a scuola più tranquilla e molto probabilmente non avrei fumato cannabis, come invece ho cominciato a fare tra i 12 e i 15 anni, nel tentativo di calmare l’angoscia che mi assaliva». 

Il caso di Claudia e di altri simili al suo ci porta a chiederci come bisogna comportarsi con i bambini quando in famiglia c’è un malato psichiatrico. Meglio parlare della malattia o tacere? E come parlarne, se è opportuno farlo? Tenendo Claudia lontano dal padre e non dicendole nulla del suo stato mentale, i familiari hanno ritenuto di agire a fin di bene, per non turbarla e per consentirle di crescere serena. D’altro canto, lo psichiatra che seguiva il padre non aveva mai ritenuto di doversi occupare anche della bambina. Claudia, tuttavia, intuiva che c’era un problema e che i suoi familiari avevano un segreto che tenevano per sé e di cui non intendevano metterla al corrente. Il fatto che negassero l’evidenza e che non le consentissero di manifestare le sue ansie, la faceva sentire separata da loro, senza la possibilità di ricevere dei riscontri chiari e plausibili alle proprie sensazioni e percezioni, impossibilitata a comunicare e a dare un nome ai comportamenti bizzarri di papà. Ma quando vengono a mancare le parole chiarificatrici, il pensiero si confonde e l’angoscia dilaga. Meglio sarebbe stato dare credito a ciò che la bambina vedeva e sentiva, invece di far finta che tutto in casa procedesse regolarmente. Le parole giuste, dette al momento giusto, l’avrebbero aiutata a capire che cosa stava succedendo e soprattutto che lei non ne aveva alcuna colpa.

Questo ruolo chiarificatore e terapeutico può essere svolto dal professionista che ha in cura il malato, il quale può intervenire in prima persona con il bambino, oppure consigliare e istruire un familiare. Per prima cosa si tratta di spiegare, nei termini adatti all’età del bambino, la malattia di cui soffre l’adulto in questione, senza stigmatizzare la malattia mentale e spiegando come e da chi il suo parente viene curato. Si spiega poi quali sono, possono essere o saranno, le evoluzioni della malattia e gli esiti della cura. Lo si rassicura sul fatto che non è lui, assolutamente, il responsabile della malattia. Si parla, infine, di ciò che il bambino può fare o non fare per il familiare malato, ma soprattutto lo si aiuta a vivere serenamente la propria vita evitando di diventare il suo o la sua badante. 

Con i più piccoli, una metafora favolistica ad hoc è spesso di aiuto. Il messaggio raggiunge il giovane ascoltatore in un modo lieve che gli consente di entrare gradualmente nella tematica che lo riguarda e gli fornisce una chiave di lettura. È questo il caso, per esempio, dell’aquila con due teste che parlano ognuna per conto proprio dicendo cose opposte, ma che alla fine, sia pure senza volerlo, si trovano d’accordo (nel mio volume Le domande dei bambini del 2012). Una metafora dello sdoppiamento che i bambini con un genitore come quello di Claudia comprendono immediatamente, senza per questo subire uno choc.

Anna Oliverio Ferraris, scrittrice, psicoterapeuta, docente universitario, ha pubblicato Famiglia (Bollati Boringhieri), una guida per comprendere il mondo di oggi, e Tutti per uno (Salani), un romanzo di formazione adatto ai “percorsi di lettura” delle scuole superiori.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 284 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui