Intervista a: Riccardo Bettiga
di: Paola A. Sacchetti

Competenze “non cognitive” o life skills? Un commento alla proposta di Legge

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A gennaio è stata approvata dalla Camera la Proposta di Legge sull’insegnamento delle “competenze non cognitive” a scuola: “Disposizioni per la prevenzione della dispersione scolastica mediante l'introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico”.

Obiettivo dichiarato dei legislatori è la riduzione della dispersione scolastica e della povertà educativa, andando a formare i docenti in modo specifico per considerare nelle proprie pratiche didattiche tali competenze da far sviluppare agli studenti. Se verrà approvata in Senato, quest’anno partirà la formazione ai docenti e poi, per il triennio successivo, la sperimentazione nelle classi a livello nazionale.

Iniziamo con il definire che cosa sono queste “competenze non cognitive”. Si tratta di life skills, cioè di abilità necessarie ad adattarsi in modo positivo alla propria realtà, ossia di abilità e competenze che consentono ai ragazzi di affrontare le difficoltà e le sfide che la quotidianità propone loro, non solo in ambito scolastico, ma essenziali nella vita di tutti i giorni.

Nel testo della Proposta di Legge, vengono infatti identificate alcune abilità trasversali agli apprendimenti, che quindi sono utili a sostenerli, ma che sono “spendibili” anche in ogni altro contesto al di fuori delle mura scolastiche: la flessibilità, la creatività, l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la capacità di giudizio, la capacità di argomentazione e la capacità di interazione, aspetti che possiamo definire come trasversali alle discipline, più che “non cognitive”, proprio perché, in ogni caso, impiegano anche strategie e abilità di tipo puramente cognitivo.

Prof. Bettiga, che cosa ne pensa?

Certamente il termine “non cognitive” è un termine che, quantomeno nel contesto italiano e in particolare nell’ambiente psicologico, rimanda a concetti molto differenti da ciò che era, ed è, nell’intenzione del Legislatore. Ricostruendo quanto riportato negli allegati del dibattito parlamentare sulla norma, è però possibile individuare le definizioni e i riferimenti scientifici internazionali che hanno guidato in questa scelta e che ne permettono una comprensione piena.

Un modello più volte citato è infatti quello del professor Williamson, della facoltà di scienze sociali dell’Università di Stirling, che utilizza il termine “Social-Emotional Learning” (SEL), in cui sono ricomprese soft skills, non cognitive skills, life skills. Secondo questa prospettiva, sono incluse nelle SEL tutte “quelle qualità personali, spesso descritte come dimensioni non accademiche e non cognitive dell’apprendimento, che comprendono auto-controllo, benessere, perseveranza, felicità, resilienza, mentalità aperta, grinta, intelligenza sociale, carattere e tutto ciò che deriva dalla fusione ‘psico-economica’ della psicologia positiva con l’economia comportamentale” (B. Williamson, 2017, Moduling student emotions through computational psycology: affective learning technologies and algoritmic governance. Educational Media International, 54-4, 273).

Altro riferimento fondamentale è la definizione di life skills del dipartimento di salute mentale dell’OMS (1993, Life skills education for childrend and adolescents in schools), che le descrive come quelle abilità che portano a comportamenti positivi e di adattamento, che rendono l'individuo capace di far fronte efficacemente alle richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni.

Volendo semplificare molto, potremmo vedere le “non cognitive” come competenze di processo, o quantomeno inerenti al processo di apprendimento; mentre le altre competenze, quelle della didattica tradizionale, sarebbero legate più ad aspetti di contenuto e quindi più specificamente e unicamente centrate su aspetti informativo-cognitivi.

Anche se questa è certamente una semplificazione che non rende giustizia alla didattica attuale della scuola, aiuta comunque a inquadrare un dato su cui tutti convergono e che è il vero focus del problema: i bambini e i ragazzi di oggi mancano di alcuni elementi di base su cui innestare i contenuti appresi e le agenzie educative tradizionali non riescono a garantire loro il diritto a uno sviluppo sereno e completo, il diritto di crescere in modo equilibrato e sano dal punto di vista psicologico e sociale. Mancano le giuste cornici di riferimento per sperimentare e crescere in ragione di un armonico rapporto con il mondo e chi lo abita. Tutta la conoscenza, senza questi elementi su cui poggiarla, risulta inutile o difficilmente utilizzabile.

Da parte mia c’è un grande plauso a questa proposta perché rappresenta una risposta pragmatica a un bisogno reale e sicuramente sentito, d’altro canto c’è anche una grande curiosità rispetto a come essa verrà tradotta nei fatti e nella pratica e rispetto a come verranno impiegati la psicologia e gli psicologi.

Alcuni commentatori hanno obiettato che le “competenze non cognitive” elencate nel documento non sono slegate dagli apprendimenti e che, almeno in teoria, dovrebbero già essere sviluppate e sostenute dalla didattica. Infatti sono molti gli insegnanti che già le prevedono e ne tengono conto nel loro metodo di insegnamento, integrandole nella didattica e negli obiettivi di apprendimento. Che cosa comporterebbe per le scuole l’approvazione di questa Proposta di Legge?

In realtà il fatto che siano molti e non tutti contiene già la risposta a questa domanda: a fronte di una mancanza sistematica, la risposta non può che nascere da un approccio al cambiamento di tipo strutturale. Queste capacità erano tradizionalmente veicolate nell’ambito del contesto familiare-sociale ristretto e differenziavano marcatamente i bambini proprio nell’approccio alla scuola, alla vita, alle relazioni al lavoro. Al contempo, rappresentavano un differenziale qualitativo anche nel metodo dei diversi insegnanti e nelle rispettive capacità reali di garantire l’apprendimento dei ragazzi. C’erano quindi ragazzi più o meno “skillati” e professori più o meno impattanti e influenti sul modo di essere, di studiare e di crescere di propri studenti. Ridottosi sempre più il ruolo e il contributo delle figure genitoriali nel plasmare i propri figli, e con una tendenza sempre più spiccata a garantire uniformità e parità scolastica in ottica inclusiva, era ovvio che anche l’onere di questi insegnamenti dovesse prima o poi passare all’istituzione educativa scolastica e che, in questo passaggio, dovesse in qualche modo standardizzarsi.

La scuola con questo piccolo cambiamento potrebbe diventare (o, forse, tornare a essere riconosciuta come?) l’istituzione educativa totale, luogo di crescita e sviluppo multidimensionale su cui ricade l’onere di plasmare e strutturare gli uomini e le donne di domani. Non è un caso che questa Proposta di Legge sia emersa proprio a valle dei periodi di lockdown e di DAD dovuti alla pandemia da Covid-19. Proprio in queste condizioni la consapevolezza che la scuola non fosse solo un luogo di trasferimento di conoscenze ma un ambiente multidimensionale di crescita, di conflittualità psicologica ed emotiva, di relazioni e di sperimentazione nel rapporto con il reale è cresciuta esponenzialmente in tutti quanti.

Se però le famiglie, da un lato, si sono accorte di quanto questa dimensione fosse già stata da tempo delegata alla scuola, in molti casi senza rendersene nemmeno pienamente conto, dall’altro è emerso come le scuole non fossero attrezzate, da un punto di vista pedagogico e soprattutto psicologico, per gestire appieno questi aspetti innovativi della didattica.

Volendolo guardare da un’ottica puramente psicologica, l’aggravarsi della salute mentale dei ragazzi nel post Covid-19 è stato un segnale (o un sintomo?) anche di questo elemento e forse veicolava proprio una richiesta inconscia di aiuto da parte dei ragazzi che reclamavano, oltre alle nozioni didattiche, anche competenze-strumenti ed esperienze non strettamente “cognitive”, indispensabili per affrontare un mondo ansiogeno cui non sembravano per nulla preparati.

Quali vantaggi reali ne avrebbero gli studenti coinvolti e perché è così importante porre attenzione alle life skills?

I vantaggi per i ragazzi sono teoricamente infiniti, nella pratica potremmo sintetizzarli nel fatto di avere una chance in più di vivere serenamente nel mondo che li aspetta.

Le life skills sono una base differenziale fondamentale che genera un cambiamento qualitativo nello sviluppo. I ragazzi crescono strutturalmente diversi se sperimentano o no determinati stati, azioni o reazioni e il loro sé cambia in base a come si percepiscono e a come concettualizzano via via se stessi in relazione alle esperienze che riescono a fare. Ma coloro che non acquisiscono queste competenze hanno meno possibilità, opportunità e capacità di relazionarsi con il mondo, anche a causa di ciò perdono, come desiderio e motivazione su moltissime cose, in primis lo studio e la crescita personale; disinvestono su sé stessi, si chiudono all’esperienza e vedono arrestarsi molte tappe psicologiche fondamentali.

Come accennavo sopra, il trend cui stiamo assistendo ci mostra chiaramente come ciò che prima era veicolato e gestito nell’ambito del contesto familiare-sociale ristretto ora deve essere trasmesso ai ragazzi in un altro modo. Ma quale?

Se la scuola deve fare la sua parte, il tema delle life skills non può essere liquidato con una delega deresponsabilizzante al solo mondo scolastico. Il compito di diffondere e trasmettere queste capacità è di tutti e deve riguardare la vita della comunità in tutte le sue declinazioni. Ognuno di noi, oggigiorno, dovrebbe sentirsi investito di una grande responsabilità nei confronti del futuro e dovrebbe rendersi conto che, se avremo una mancanza su scala generazionale di tali competenze, ciò impatterà sulla vita di chiunque in modo importante. Rischiamo di avere assenza cronica di leadership, problemi di salute mentale a livello di massa, una fragilità sistematica nelle capacità relazionali, nella gestione e comprensione emotiva, nell’analisi e nella soluzione dei problemi, crisi di creatività e di cultura. In sostanza, una perdita di energia vitale e di ciò che è squisitamente umano in infiniti settori della società.

Quello delle life skills è quindi un tema fortemente politico e al contempo squisitamente psicologico.

Per trasmettere efficacemente queste competenze esse vanno comprese e contestualizzate, devono essere rapportate all’unicità delle persone e deve essere noto l’impatto che possono avere sullo sviluppo psico-affettivo e personologico. In sostanza, essendo dei veri e propri “pezzi” di psicologia da mettere a disposizione della società, dovrebbero tradursi in veri e propri programmi di psicoeducazione preventiva, da gestirsi sempre con competenza e scientificità, all’interno di una cornice professionale.

Con questa suggestione auspico e spero che la comunità degli psicologi non perda l’opportunità che le si presenta e si prepari facendosi trovare pronta per questa nuova sfida.

 

Riccardo Bettiga, psicologo psicoterapeuta, è professore a contratto di Etica e Deontologia all’Università degli Studi di Pavia e all’Università Vita-Salute del San Raffaele. Consigliere dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia dall’anno 2010, Tesoriere dal 2012 al 2014, è stato Presidente dal 2014 al 2019. È garante per l’infanzia della Regione Lombardia.

Paola A. Sacchetti, psicologa, formatrice, editor senior e consulente scientifico, da anni collabora con Psicologia Contemporanea, dove cura una parte della rubrica “Libri per la mente” e le “Interviste all’esperto”.