Intervista a: Silvia Bonino
di: Paola A. Sacchetti

Come “spiegare” gli stupri di gruppo? Dinamiche psicologiche e aspetti educativi

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Gli ultimi casi risalgono alla notte di Capodanno, quando un gruppo di giovani ha accerchiato in diverse occasioni differenti ragazze in Duomo a Milano molestandole in modo pesante e violento. Le denunce sono partite con la diffusione di un video, girato per caso e senza contezza sul momento di quanto realmente stesse accadendo, di uno di questi momenti drammatici. Si è scoperchiato il vaso di Pandora. Lo scandalo, la riprovazione e l’allarme che ne sono seguiti hanno portato tutti noi a porci delle domande, costringendoci a riflettere su cosa stia accadendo. Perché, purtroppo, quelli avvenuti la notte di Capodanno non sono fatti isolati. Sono mesi che sui media passano notizie di ragazze e donne abusate in gruppo durante momenti che dovrebbero essere di spensieratezza e divertimento. Né possiamo ridurre il fenomeno, che è in preoccupante aumento, a un effetto dell’immigrazione, come taluno ha affermato nei giorni seguenti. Sembra piuttosto delinearsi come un’emergenza che finora abbiamo ignorato e riguarda in modo trasversale molti ragazzi, italiani e non, che vivono sul nostro territorio e che si verificano ovunque nel nostro Paese.

Che cosa sta accadendo? Perché gli stupri di gruppo e le molestie in branco sono aumentati in modo così drammatico? Sono le vittime a denunciare maggiormente questi eventi?

In realtà non disponiamo di dati certi. Ritengo si debba distinguere tra le violenze di gruppo in spazi pubblici (come quelle avvenute a Capodanno a Milano) e quelle in spazi privati, per esempio durante le feste. Le prime non possono passare inosservate e sono probabilmente aumentate; le seconde venivano in passato sovente nascoste, mentre oggi le vittime denunciano maggiormente, superando la paura.

Che cosa “muove” il branco?

Alla base di tutte queste violenze vi è sempre lo scatenarsi di un comportamento filogeneticamente primitivo di dominio e predazione del maschio sulla femmina, dove sesso e aggressione sono connessi. Questa disposizione viene a noi dai primi vertebrati (i rettili) ed è radicata come possibilità, non certo come determinazione ad agire, nella parte più antica del cervello maschile. La connessione tra sesso e violenza è quindi una possibilità per ogni maschio umano, che viene favorita ed esaltata dal gruppo, in presenza di riferimenti culturali che legittimano le disposizioni maschili primitive di sopraffazione. Queste ultime sono una zavorra ormai priva per noi di alcun valore adattivo, poiché negli esseri umani il sesso si è congiunto con gli affetti e le relazioni personali; di conseguenza l’emergere della sessualità maschile primitiva procura solo grandissima sofferenza. È quindi nella complessa interazione tra la biologia e la cultura di appartenenza che va ricercata l’origine di questi comportamenti. Negli esempi da lei fatti i riferimenti culturali degli uomini coinvolti sono diversi, ma tutti hanno in comune la giustificazione della dominanza dell’uomo e della sottomissione della donna. La predazione sessuale si colloca quindi in un contesto culturale che favorisce e stimola i comportamenti maschili primitivi e preumani, non caratteristici della nostra specie.

Come “funziona” la dinamica di una violenza di gruppo?

Sulla base di quanto appena detto, entra in gioco anzitutto un meccanismo di contagio emotivo, tipico del gruppo e anche della folla anonima; esso porta i componenti a vivere in modo automatico e riflesso la stessa attivazione emotiva, che è in questo caso di aggressione e sesso. Basta che uno del gruppo inizi una violenza, e gli altri si eccitano e si comportano mimeticamente allo stesso modo, in un crescendo sfrenato di brutalità privo di consapevolezza. Alcuni individui, per età e caratteristiche personali, sono maggiormente incapaci di opporsi al contagio emotivo: sono quelli poco autonomi dal gruppo, e anzi molto conformisti e dipendenti da esso, quelli poco abituati alla riflessione personale su di sé (cioè a chiedersi: “Che cosa sto facendo? Perché?”) e a scegliere in modo autonomo. Molti non sono nemmeno in grado di riconoscere le emozioni che stanno provando: le agiscono soltanto. In questa condizione la vittima e la sua sofferenza non vengono neppure viste e tantomeno colte, come risulta dalle testimonianze (“Io piangevo e imploravo di smettere e loro ridevano”); diventa quindi impossibile ogni condivisione empatica, che porterebbe a bloccare l’aggressione.

E quali sono le spinte che portano un ragazzo o un giovane uomo ad agire deliberatamente violenza quando si trova nel branco?

Come detto, il gruppo favorisce l’attivazione delle disposizioni maschili più primitive, portando più facilmente l’individuo a fare in esso ciò che non farebbe se fosse da solo, faccia a faccia con la vittima. Inoltre, le azioni di predazione sulla donna possono essere vissute, sempre nel prevalere di una modalità filogeneticamente primitiva, come atti per mostrare agli altri la propria mascolinità, identificata con la sessualità predatoria e impersonale. Quindi la violenza sulla donna serve a esibire agli altri ragazzi la propria potenza maschile. Nei gruppi in cui la cultura favorisce questi modi primitivi, un ragazzo può tragicamente ritenere che questo sia l’unico modo per mostrare che si è “veri uomini”. Da questo atteggiamento possono derivare, in un gruppo, dinamiche specifiche che portano a non sottrarsi agli atti violenti: il timore di perdere l’approvazione del capo, di essere emarginati dagli altri, di essere considerati dei “fifoni” o delle “femminucce”.

Possiamo attribuire tutte le cause al senso di responsabilità diffuso nel gruppo e al venir meno dei freni inibitori?

Non c’è solo la diffusione del senso di responsabilità e il venire meno dei freni inibitori. Questi comportamenti sono il risultato dell’interazione di molti fattori: negazione delle disposizioni biologiche maschili e ancor più giustificazione culturale della sopraffazione sessuale maschile; carente sviluppo di capacità di autoregolazione e riflessione su di sé; impulsività; insufficiente capacità di rappresentazione del vissuto altrui e di condivisione emotiva; scarsa autonomia personale e dipendenza conformistica dal gruppo; incapacità di coniugare sesso e relazione personale in un rapporto egualitario.

O giocano anche un ruolo importante le figure educanti, che fornivano un limite, e che sono venute a mancare? Nelle trascrizioni delle conversazioni tra uno dei ragazzi accusati di uno stupro di gruppo, avvenuto durante una festa privata a Primavalle nel Capodanno del 2021, e i genitori, rileviamo una totale indifferenza per la gravità dei fatti commessi: «Se semo divertiti» dice il figlio, e i genitori tacciono, per poi però accusare la famiglia della vittima: «Potevano non mandarla a quella festa».

Il ruolo degli adulti, come educatori, è essenziale. Le trascrizioni ben evidenziano la difesa amorale dei propri figli, attraverso il noto meccanismo di colpevolizzazione della vittima; è uno dei numerosi meccanismi di “disimpegno morale” che permettono di non mettere in discussione un comportamento e anzi di giustificarlo. Il ruolo dei padri e delle madri è decisivo, perché è in famiglia che il bambino impara fin da piccolissimo il rispetto, o al contrario il disprezzo, per le donne nella quotidianità della vita di tutti i giorni. Nella società italiana, dove le madri sono molto presenti, le donne svolgono un ruolo determinante nel favorire indirettamente, con il loro comportamento e i loro giudizi, la prevaricazione maschile, dalle forme più lievi a quelle più gravi. C’è un grande responsabilità in questo senso delle donne come madri.

Il senso del limite si è alterato a tal punto da divenire fluido fino a sparire?

Come abbiamo visto, non si tratta solo di saper porre dei limiti al proprio comportamento impulsivo, ma di essere in grado di vivere con l’altro sesso una relazione veramente umana, fatta di sentimenti e di relazioni individualizzate, ben lontana dalla sopraffazione.

Come comunità adulta, e quindi educante in senso ampio, che cosa dobbiamo e possiamo fare?

Come prima cosa bisognerebbe assumere, come adulti, un ruolo educativo, cosa che oggi spesso non avviene. Vi è un drammatico abbandono educativo sui temi della sessualità e degli affetti da parte sia della famiglia, sia della scuola.

Occorre anzitutto riconoscere, superando le molte resistenze al riguardo, che esistono nei maschi disposizioni primitive alla prevaricazione che non vanno né legittimate né favorite dalla cultura. A questo riguardo, è necessario essere consapevoli del ruolo pervasivo e distruttivo assunto oggi dalla pornografia per gli adolescenti, in particolare per i maschi. La sessualità proposta dalla pornografia, anche quando non è manifestamente violenta, riduce la donna a oggetto del piacere maschile e favorisce di conseguenza i comportamenti aggressivi di sopraffazione.  

A partire dalla presa d’atto che la violenza maschile sulle donne è il frutto dell’interazione tra disposizioni biologiche arcaiche e messaggi culturali che le sostengono, occorre favorire le disposizioni sociali positive specificamente umane, anch’esse presenti nel cervello maschile, vale a dire la capacità di coniugare sesso e affetti in una relazione personale basata sulla comune umanità. La famiglia e la scuola dovrebbero impegnarsi nell’educazione sessuale affettiva, che non può essere svolta solo dalla famiglia, soprattutto in adolescenza.

 

Silvia Bonino è Professore onorario di Psicologia dello sviluppo all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia (Laterza, 2019).

Paola A. Sacchetti, psicologa, formatrice, editor senior e consulente scientifico, da anni collabora con Psicologia Contemporanea, dove cura una parte della rubrica “Libri per la mente” e le “Interviste all’esperto”.