Giorgio Nardone

Chi ben comincia

L’importanza della prima seduta di psicoterapia, che svela se ci sono le condizioni perché gli incontri continuino fruttuosamente.

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Eric Berne, per quanto creatore di un modello di psicoterapia a lungo termine, affermava che «si deve condurre ogni seduta come fosse l’unica a disposizione». Ciò vale ancor di più se questa è la prima. Difatti, come è ormai ben noto, il primo incontro con il paziente è quello più importante. Prima di tutto, perché se non è ben svolto e la persona che richiede un aiuto specialistico non prova fiducia nei confronti dello psicoterapeuta, il rischio del cosiddetto “drop out” (cioè, l’abbandono della terapia) è molto elevato. Ma anche se il paziente non fugge dalla terapia, il terapeuta avrà comunque la strada in salita, giacché non sarà stato in grado di creare un’aspettativa fiduciosa né una relazione terapeutica positiva, fattori, questi, determinanti per il buon andamento e risultato del trattamento.

La prima seduta rappresenta inoltre, per lo psicoterapeuta, il momento nel quale rendersi conto se ciò di cui il paziente necessita è qualcosa che egli è capace di garantire. Purtroppo questo aspetto non viene abbastanza considerato, in quanto la maggioranza dei modelli di psicoterapia è basata su una teoria generale che si applica a tutte le tipologie di disagio psicologico, a discapito del fatto che la ricerca sull’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici dimostra come i trattamenti specifici, ossia quelli costruiti ad hoc per le specifiche patologie, garantiscano esiti positivi assai maggiori di quelli aspecifici e generali.

Vi sono poi approcci, in particolare quelli strategici, che ritengono la prima seduta già terapeutica, e non solo diagnostica, dimostrando – risultati empirici alla mano – come una parte significativa delle patologie presentate dai pazienti possa avere un netto miglioramento dopo un primo incontro utilizzando un procedimento di diagnosi-intervento. Ovverosia una modalità d’investigazione del disagio del paziente, che introduca cambiamenti attraverso domande non solo diagnostiche, ma anche intervenienti.

Quella che negli anni Ottanta veniva definita da Karl Tomm «intervista interventiva», poi nel decennio successivo, dall’autore di queste righe, «dialogo strategico», corrisponde a un criterio di conduzione del primo incontro col paziente in grado di sovvertire le resistenze al cambiamento presenti in quest’ultimo e di attivarne le risorse personali mediante tecniche di comunicazione terapeutica stimolanti, provocative, paradossali, basate su un linguaggio fortemente soggettivo ed evocativo. Tutte modalità atte a indurre nel soggetto in difficoltà risposte pressoché immediate, che rappresentano gli incipienti, quanto fondamentali, cambiamenti nel suo modo di percepire la rispettiva realtà e di reagirvi. Come già sosteneva Pitagora, ripreso poi da Aristotele, «Un buon inizio rappresenta metà dell’opera».

Inoltre, la ricerca viva relativa alla conduzione del primo incontro come fase autenticamente già terapeutica ha condotto alla messa a punto, fin dai primi passi del lavoro con il paziente, di procedure specifiche che calzino alla sua patologia psicologica. Questo permette ancor di più di attivare nel paziente le risposte positive al trattamento, in quanto la tecnica aderisce al suo disagio e anche perché, in lui, sentire di essere di fronte a un esperto del suo problema incrementa la fiducia nella terapia. Il muoversi poi con precisione nel conoscere e al tempo stesso nell’introdurre il cambiamento permette di procedere gradatamente, ma rapidamente, alla soluzione del problema presentato dalle persone in difficoltà, con maggiore efficacia. Vale a dire, un trattamento in tempi brevi, proprio perché focalizzato sul cambiamento strategicamente orientato, non garantisce solo la maggiore rapidità, ma anche la più elevata funzionalità. Come indicava già Antifonte, il primo psicoterapeuta effettivo della storia, «Il meno diventa il più».

Quanto esposto sin qui deve far riflettere e portare a considerare come pure in un campo applicativo ancora avvolto, da una parte, da teorie fumose e quasi misteriche
e, dall’altra, da metodiche riduzioniste rigidamente manualizzate sia possibile realizzare tecniche terapeutiche avanzate e validate empiricamente che rispondano alle reali esigenze terapeutiche dei pazienti, e non ai dettami dei loro presupposti teorici. La gestione del primo dialogo con colei/colui che richiede un aiuto psicologico, in particolare mette in luce quanto sia necessario, per lo specialista, liberarsi da visioni teorico-qualitative che ne ingabbino l’agire, per essere in grado di produrre gli esiti desiderati. Difatti, se il primo colloquio è condotto sulla base dell’idea che prima debba venire la diagnosi e poi la terapia, si omette di considerare che il comunicare tra due persone rappresenta inevitabilmente un influenzamento reciproco. Pertanto, anche quando si procede con tecniche puramente diagnostiche, come per esempio la somministrazione di test, si produce comunque un effetto sul soggetto, che nello specifico caso dei reattivi psicologici conduce a un etichettamento nosografico che diviene troppo spesso una “profezia che si autoavvera”.

In modo non dissimile, se a un paziente viene detto: «Ci diamo sei mesi per conoscere bene il suo problema», si crea in lui l’idea che il suo disturbo per essere risolto richieda un percorso terapeutico prolungato; insomma, come se gli dicesse: «Il suo è un caso decisamente grave». Comunicare tra due persone all’interno di un setting clinico amplifica di gran lunga i suoi effetti pragmatici, i quali, se non sono adeguatamente considerati, vanno il più delle volte nella direzione della patologizzazione, piuttosto che in quella della risoluzione del disagio presentato. Se, invece, il potenziale di cambiamento del primo incontro viene non solo considerato ma anche adeguatamente utilizzato, come descritto in precedenza, l’effetto sarà quello di aver dato – e ricorriamo alle parole del premio Nobel Richard Thaler – la prima «scossa gentile» in direzione del cambiamento auspicato.

Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 279 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui