Silvia Bonino

Alle radici psicologiche del negazionismo e del complottismo

“Neghiamo” quando viviamo come inaccettabili i fatti nei quali siamo calati. Peccato che la loro realtà persista anche se chiudiamo gli occhi.

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Molti si stupiscono per il numero così elevato di persone che negano l’esistenza del virus SARS-CoV-2 e della stessa malattia Covid-19. Per comprendere il fenomeno bisogna partire dalla constatazione che la negazione è un meccanismo di difesa estremo cui la nostra mente fa ricorso di fronte a realtà vissute come spaventose e soverchianti. Tale è certamente la minaccia data dal virus e dalla malattia che esso provoca. Lo è nello specifico, poiché è un virus nuovo e sconosciuto contro il quale la medicina è stata per molto tempo impotente; lo è in generale, poiché l’idea che la nostra vita potesse essere messa in pericolo da un virus ci era del tutto estranea, nell’errata convinzione di avere ormai vinto tutte le malattie infettive. La rapida diffusione del virus ha invece messo in evidenza non solo la nostra vulnerabilità fisica, ma anche la fragilità della nostra economia e della nostra società, e in primo luogo del sistema sanitario.

Tutto questo è oggettivamente fonte di grandissima paura, perché ci ha obbligato e ci obbliga a confrontarci direttamente con l’idea della morte di ciascuno di noi e con la possibile fine della società in cui siamo finora vissuti. La morte, e con essa il senso del limite e della finitezza, è per la nostra cultura un grandissimo tabù, una realtà sempre più occultata e negata. Come individui e come società abbiamo perduto sempre più, negli ultimi decenni, la consapevolezza di essere vulnerabili e soggetti alla biologia, e pertanto al limite e alla morte. Alla base del negazionismo vi è quindi la paura, cioè la sensazione di sentirci del tutto in balia di un agente sconosciuto e invisibile, che – al di là degli effettivi benefici del vaccino, ancora da considerare – colpisce mortalmente gli individui in maniera subdola e imperscrutabile, e che può distruggere la nostra società. Contro quest’angoscia viene posto in atto il meccanismo di difesa più radicale: la negazione, appunto. Si tratta, tuttavia, di un meccanismo disadattivo, perché la realtà occultata permane a dispetto del nostro autoinganno, e far finta che essa non ci sia impedisce di prendere le misure utili per fronteggiarla; di conseguenza, il negazionista si comporta in modo inadeguato, con danno per sé e per gli altri.  

Nel negazionismo non ci sono però soltanto l’emozione di paura e la difesa da essa; anche i processi cognitivi entrano in gioco. Sotto questo aspetto, la negazione è molto impegnativa, poiché obbliga una persona di normale intelligenza a eliminare dal proprio campo mentale tutto ciò che mette in dubbio le sue convinzioni: informazioni, evidenze, testimonianze ecc. Per mantenere la negazione occorre quindi trovare una nuova coerenza, allo scopo di superare sia le contraddizioni che gli altri evidenziano sia quelle che il negazionista stesso potrebbe riscontrare in sé. Ecco allora la sua resistenza a prendere atto di tutte le numerosissime evidenze contrarie, con il rifiuto di conoscere e documentarsi; ad essa si accompagna il ricorso a ragionamenti astrusi e illogici, al fine di superare le incoerenze e rendere verosimili le proprie convinzioni.

Il tentativo di trovare spiegazioni coerenti fa sì che il negazionismo si abbini facilmente al complottismo. Si afferma così con sicurezza che vi è un complotto di cui la maggior parte delle persone non è consapevole, ma che invece il negazionista ben conosce. Questa soluzione complottista ha numerosi vantaggi sul piano psicologico. Oltre a far sentire le persone più intelligenti e superiori agli altri («Solo io, solo noi, siamo in grado di capire e conoscere la verità»), essa permette di trovare una spiegazione di fronte al caso e al caos: questa spiegazione, per quanto assurda, risulta più rassicurante dell’ignoto. Il complottismo, infine, consente di trovare un capro espiatorio contro il quale indirizzare la rabbia provocata dalla frustrazione di doversi confrontare con una malattia nuova, molto contagiosa, che ancora non ha cure di comprovata efficacia, di cui ancora si sa poco e che può essere mortale. 

I vantaggi psicologici del negazionismo e del complottismo sono quindi parecchi, e spiegano la loro resistenza; sono però vantaggi patologici, che impediscono di comportarsi in modo utile per fronteggiare il virus e la malattia. Come fare per aiutare le persone ad affrontare il pericolo con meccanismi di difesa adeguati, che permettano di attivare protezioni davvero valide, anche se non ancora comprovatamente risolutive? Purtroppo la capacità di resistere al negazionismo e al complottismo non s’improvvisa. Bisogna costruire nel tempo, soprattutto attraverso la scuola, una solida mentalità scientifica e una buona capacità di pensiero critico. Si tratta di educare al confronto sia con la realtà, che ha le sue leggi che non possiamo ignorare, sia con gli altri, che presentano punti di vista diversi dai nostri. Nello stesso tempo è però necessario aiutare le persone ad esprimere le loro paure e a riconoscere le loro inevitabili fragilità come parte della condizione umana. Tacere, far finta che la morte non esista, pensare di essere invulnerabili: sono tutti atteggiamenti che non aiutano ad affrontare l’emergenza attuale, così come ogni altra condizione di malattia nella vita di ciascuno.

Nell’immediato, la strategia migliore per combattere il negazionismo consiste nell’agire sulla sua sorgente prima: la paura. Purtroppo la comunicazione data da un anno a questa parte dai mezzi di comunicazione, e dagli stessi organi ufficiali, non ha aiutato in tal senso. Ciascuno di noi, in famiglia e sul luogo di lavoro, è chiamato ad agire in prima persona per aiutare sé stesso e gli altri a ridurre la paura attraverso la considerazione realistica di ciò che può fare per contenere i rischi. Non, quindi, un generico «andrà tutto bene», bensì una valutazione delle azioni concrete che ognuno di noi può mettere in atto per fronteggiare il pericolo rappresentato dal virus e dalla malattia.

Si tratta, insomma, di esercitare quell’ottimismo creativo che rende concreta la speranza mediante azioni precise e nuove, diverse da quelle abituali, nella consapevolezza che la novità della situazione richiede inventiva e il superamento delle consuetudini. 

 

Silvia Bonino è professore onorario di Psicologia dello sviluppo all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Amori molesti (Laterza, 2015).

www.silviabonino.it


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Bonino S. (2019), Mille fili mi legano qui. Vivere la malattia, Laterza, Roma-Bari.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 284 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui