Massimo Montebove

Alatri, il razzismo strisciante e le scorie psichiche

Dopo le prime notizie è partita la “caccia all’albanese”, un linciaggio che prosegue sui social nonostante le indagini di magistratura e forze di polizia indichino un’altra strada per l’omicidio del ventenne Emanuele. Tutta italiana. Chi odia su Facebook e Twitter parte sempre da un disagio psichico. Senza contare il problema dell’analfabetismo funzionale.

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La tristissima vicenda di Alatri, con la morte del ventenne Emanuele Morganti per mano del pestaggio da parte di un ‘branco’ di coetanei, consegna diversi spunti di riflessione. Il principale riguarda proprio la diffusione della notizia, delle prime notizie ad essere precisi, che segue un preciso cliché: quotidiani e agenzie on line danno conto dell’evento, alcuni in particolare decidono di puntare fortissimamente sull’elemento “razziale” perché nel branco sarebbero stati presenti alcuni albanesi.

Fatto, questo, subito smentito dalle indagini, con gli inquirenti che hanno indirizzato la loro attenzione verso due fratellastri italianissimi e pregiudicati assieme ad un padre che li incitava al pestaggio. Ma ormai il danno “mediatico” era fatto: i siti di informazione che hanno puntato il dito contro lo “straniero” sono stati condivisi da centinaia di migliaia di account virali e mediatori top, senza contare pagine e gruppi di discussione, spesso creati ad hoc, che hanno fatto da cassa di risonanza.

La catena “social” si conclude con profili fake e odiatori di professione, gli “haters”, che senza minimamente porsi dubbi sul “taglio” delle prime notizie hanno condiviso e commentato nel modo peggiore. In una tragedia immensa come quella che riguarda la morte di un giovane, questi aspetti non sono di poco conto perché contribuiscono a creare opinioni sbagliate e, magari, a fornire consenso politico a chi punta sull’insicurezza, sul razzismo e sulla rabbia sociale.

I problemi sono molteplici: si va dal “calcolo” di taluni che puntano su un modello di communication orientation finalizzato a interessi di natura politica e/o economica (i più pericolosi, perché agiscono con consapevolezza) fino a quelli che vengono definiti “analfabeti funzionali” e che costituiscono, secondo le statistiche, il 47 per cento degli italiani e quindi un numero considerevole di coloro che utilizzano quotidianamente Facebook, Twitter etc.

Gente che non riesce a comprendere le informazioni e ad interpretare la realtà, che non sa distinguere un sito di “bufale” da un serio portale di informazioni, che spesso si sofferma ai titoli dei post senza approfondire testi e contenuti, che comunque non sarebbe in grado di comprende appieno. E’ questo il brodo principale in cui possono svilupparsi razzismo, sessismo e cyberbullismo, tanto per citare tre grandi problematiche di difficile soluzione. 

Quando sono in gioco questi temi, l’odio può diventare la proiezione alterata dei propri desideri e delle proprie paure. Un odio che, cognitivamente parlando, è sempre figlio di un disagio e che diventa spesso una sorta di “fuoco purificatore” per rispondere ai cambiamenti che non si riesce a comprendere ed accettare. Spesso il post denigratorio o razzista funziona, per queste persone, come una sorta di luogo di evacuazione delle proprie scorie psichiche, per usare le parole del professor Vittorio Lingiardi. Senza scomodare il termine “webeti” coniato da Enrico Mentana o gli “imbecilli” social citati da Umberto Eco, ci viene in soccorso un recente studio pubblicato dalla rivista Psychological Science, secondo cui chi è meno intelligente è anche più propenso a sviluppare pregiudizi da adulti.

La ricerca si è basata su un database britannico di più di 15 mila soggetti, a cui è stato misurato il Qi all'età di 10 o 11 anni e che sono stati analizzati una volta superati i 30. Il risultato, dirompente, è stato che i bambini con quoziente intellettivo più basso hanno mostrato maggiori tendenze al razzismo, si sono detti mediamente più d'accordo degli altri con le frasi di alcuni esponenti conservatori o populisti e in generale sono risultati fra coloro con meno contatti con persone di altre razze.

Che cosa ci insegna, dunque, il caso di Alatri, fotocopia purtroppo di tante altre vicende simili? Che il web e i social media hanno ristabilito una simmetria a lungo persa con i mezzi di comunicazione di massa, rendendo ogni utente un emittente-ricevente, iper connesso. Le distanze quindi si annullano e i tempi di risposta e organizzazione delle persone, di formazione del consenso, si riducono spesso ad un post o un tweet.  Chi è razzista tenderà a non cambiare la propria opinione, a condividere notizie più o meno false e comunque non verificate che possano corroborare le proprie tesi, a convincere direttamente o indirettamente altre persone. Una spirale perversa che ad oggi, nonostante tante vane promesse e tante belle parole, nessuno pare essere in grado di fermare. Con tutte le conseguenze del caso.